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Non Ricordo il Colore del Filo

Non Ricordo il Colore del Filo

83050 Volturara Irpina (AV)
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Non Ricordo il Colore del Filo

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Volturara Irpina – Sommario
Notte Silente
Che si dice don Gaetà?
Non Ricordo Il Colore Del Filo
L’Avvocato e Donna Ida
L’Innesto
Tom e Pummarola
Colomba contro Stretta di Mano
 
Notte Silente
— Stille Nacht.
Il soldato tedesco con pazienza, precisione e bella pronuncia senza accento, ripete ancora una volta. Sandrino non è portato per le lingue.
— Sdille Naa.
— Nein! Stiilleee Naaacht.
— Sdriilleeee Naaght.
— Nein! Lento, calmo, Sandrino. Stille Nacht.
—Sdrille Naat.
Sandrino mette una mano nella cesta che ha portato, mostra ridendo una bottiglia di vino rosso e la lezione si interrompe.
A un altro angolo della grande tenda, al margine del prato che Dragone, pista degli alianti, l’inflessibile caporale Shutz pulisce il fucile secondo il manuale, scuote la testa e sospira. Shutz mette l’occhio nella canna e vede la sua sposa in cucina, che arrostisce salsicce nella piccola casa linda dello Schwarzwald, la Foresta Nera. Il caporale sente il profumo delle salsicce arrosto e vede il fumo salire per il camino. Ma ci saranno ancora salsicce in Germania? Il destino è stato onesto con me, pensa il caporale, potevo finire sul fronte russo, oppure in Polonia in mezzo a quelle teste di patata. Eccomi qui invece nei boschi come a casa, al sicuro, lontano dalle strade di comunicazione. Il fronte degli Alleati avanza e noi rimaniamo qui tagliati fuori, aspettiamo la fine della guerra e ce ne torniamo a casa. Cominciano a correre voci che dura solo pochi mesi ancora. Abbiamo perso la guerra, ma presto risaliremo verso casa, questi ragazzi li porto tutti indietro. Davvero il destino non mi ha giocato brutti tiri. Mi poteva mandare in Yugoslavia e una notte il coltello di un partigiano mi avrebbe tagliato la gola. Cosa avrebbe avuto indietro la mia sposa? In questo villaggio perduto tra le montagne, i paesani sono amici, siamo i loro alleati, pensano solo a zappare la terra e a passeggiare la domenica in Piazza. Stiamo bene qui, abbiamo tutta la legna che serve per il fuoco, vino, pagnotte al forno, maccheroni al sugo, fagioli, formaggi freschi e patate, tante patate da fare arrostire sotto brace nella terra.
Sono io, Sandrino, che vi sto raccontando questa storia. Siamo a Volturara Irpina, io, tanto giovane, dovevo badare ai miei cari, in assenza di mio padre che il lavoro costringeva a Napoli sotto i bombardamenti aerei.
Alla caduta del fascismo, che apprendemmo a Luglio dall’altoparlante nella Piazza collegato a una radio, ci ritrovammo il paese presidiato da soldati tedeschi, un nucleo ben addestrato che si attendò in zona periferica, su di una collinetta. Erano giovanissimi, intorno ai venti anni. Fu per noi ragazzi un piacevole diversivo, un bell’avvenimento. Ogni giorno correvamo da loro e stabilimmo una cordialissima amicizia. A sera, con la luna piena, qualcuno tirava fuori chitarra e si cantava, felici di stare assieme, dimenticando gli orrori della guerra in quel momento lontana.
Uno di questi soldatini era particolarmente gentile e sorridente. Era biondo, occhi azzurri, l’aspetto del cherubino, si chiamava Fritz. Fu lui, con molta pazienza, a insegnarmi Stille Nacht, in tedesco, perché voleva preparare per tempo il coro di Natale. Conversare con lui era utile oltre che dilettevole, il tedesco lo avevo studiato al ginnasio e si offriva l’opportunità di un proficuo esercizio.
Il sogno del caporale di tornare alle sue salsicce nella Foresta Nera si interrompe l’8 Settembre 1943. Armistizio. L’Italia non combatte più a fianco della Germania. Per noi ragazzi erano cose lontane senza significato e come ogni sera arrivammo gioiosi all’appuntamento con gli amici soldati. Fummo accolti gelidamente. Il nostro stupore aumentò quando il gelo diventò aperta ostilità. Noi eravamo i traditori. I tedeschi, partirono dal paese la notte, ma tornarono all’improvviso dopo tre giorni. Quasi tutti i paesani scapparono sulle montagne per sfuggire all’ira di Mussacchione, il sergente tedesco che voleva uccidere tutti noi, inferocito per il voltafaccia degli italiani. Intanto Il fronte alleato saliva e i soldati cominciarono la ritirata. All’uscita dal paese Fritz in lacrime mi lanciò uno sguardo obliquo e dolcissimo, girò la schiena e scomparve tra gli alberi. Seppi poi che quei ragazzi soldati erano stati tutti trucidati, al passaggio del fronte nella zona avvenuto dopo poco.

Che si dice don Gaetà?
Mi chiedete, cosa ne pensano gli stranieri, il resto del mondo, di Volturara Irpina.
Il giudizio degli altri è importante, ci migliora, esalta le nostre virtù, ci aiuta a scoprire i nostri difetti.
Ebbene un giorno capita da queste parti un camioncino ambulante abusivo e gli compro un mazzo di teste d’aglio, risultate poi mezze marce.
Mentre il mio uomo sceglie per me il mazzo migliore, gli chiedo
── Di dove sei?
── Montella.
── Ah, sei vicino a Volturara Irpina, che ne pensi di quella brava gente? Sinceri e faticatori, non è vero?
── No. Falsi e mariuoli.
Anima di Volturara è La Piazza, il luogo delle trame e degli intrighi minori, spesso falsi e inventati. E’ un club per uomini. Le donne, anche se ora indipendenti e smaliziate, attraversano la piazza quasi solo per andare a casa. A meno che non sia domenica all’ora della messa. Un tempo il lato opposto alla quercia, ove ancora vi sono le fontanine, era luogo privilegiato delle contadine che prendevano l’acqua nelle conche di rame e la portavano a casa poggiata sopra la testa, con la sola protezione di una cerchia di panno, le giovani e le vedove si mettevano in mostra. Nella piazza si indaga sul proprio nemico, sulle donne sole e ancora piacenti, su un buon affare. La Piazza accoglie amorevole le dissertazioni sulle castagne, sui fagioli e sulla filosofia greca. La Piazza nella sua infinita pazienza non si stanca mai di sentire le stesse storie.
── Che si dice don Gaetà?
── E che si deve dire don Gennarì?
Chi conta e comanda davvero si fa vedere poco in Piazza, non si mischia. Adesso che ci sono le automobili si vede arrivare a sera un’auto di lusso con dentro una faccia di pietra, qualcuno lascia la compagnia dei perditempo, gli corre incontro per dare ossequio e ricevere protezione e consigli.

Non ricordo il colore del filo
Lo ciuccio è stracarico di legna da ardere. Gli zoccoli del somarello scivolano sui vasoli della salita di via Campanaro, il padrone impreca e bestemmia, ma come sempre i paesani accorrono in soccorso dalla Piazza, spingono e incoraggiano a parole l’animale, che scarta più volte impaurito ma finalmente si riavvia. L’acqua corrente nelle case era rara, le contadine andavano alla fontana con una grande giara di rame, proteggevano la testa dal peso con una treccia di stoffa nera.
Al tempo di mia nonna paterna al paese la povertà era la stessa dal medioevo.
I nostri contadini dormivano in terra senza materassi, tutti insieme in una unica stanza, nonni, padri, figli, fratelli e sorelle, moglie e marito. La loro stanza era del tutto priva di mobili e arredi, avevano un solo grande piatto di terracotta e cucchiai di legno. La sera mangiavano tutti insieme in questo piatto, soprattutto pasta, fagioli, patate e pane, forse un poco di vino che sapeva di aceto. Avevano un solo vestito, i ragazzi andavano a piedi nudi, le donne avevano scarpe fatte di pezza, solo gli uomini avevano scarpe. I contadini si alzavano all’alba e tornavano al tramonto. Andavano a zappare con le mani una terra cattiva.
Uno di loro, Mastarrico, Maestro Enrico, chiamato così perché faceva il ciabattino, era zoppo, non so se per malattia o incidente, perciò non poteva zappare. Nel pomeriggio, dopo pranzo, mio zio Alfonso chiamava Mastarrico, perché lo facesse addormentare con un racconto dei Saraceni. Mastarrico si metteva in terra accanto al letto di mio zio e cominciava il racconto in un dialetto strettissimo, come in una cantilena cantata, che io stesso facevo fatica a capire, ascoltando di nascosto da dietro la porta.
Mia nonna, la madre di mio padre, ebbe sedici o diciotto figli, nessuno lo sa di preciso. Molti di loro morirono prima o poi di qualche malattia. Quando nacqui io ne erano rimasti quattro, tre fratelli e una sorella. Vidi questa nonna una volta sola mi pare. Mi chiese, come era in uso, se fossi il figlio di Gerardo, risposi di si. Lei stava lavorando di cucito, mi chiese se potevo infilarle il filo nell’ago. Lo feci rapidamente. Non ricordo il colore del filo, ma sarà stato bianco o nero. I figli le portavano un rispetto che non esiste più. L’anno dopo mia nonna morì e tutto un mondo morì con lei.
Questo era il profondo della terra irpina. Tutti emigravano in Germania o in America, i giovani che tornavano dall’America avevano uno sguardo torvo; venivano solo per prendere la madre, una sorella, qualche povero ricordo, non vedevano l’ora di ripartire.
Quasi nessuno tornava indietro, se non uno sciocco o uno sfortunato. Di sicuro mai un emigrante torna al paese per intraprendere una buona attività: conosce troppo bene i paesani.
Non si ha nostalgia di quei tempi, ma non si possono dimenticare.

L’Avvocato e Donna Ida
── Queste sono le ultime.
La contadina in nero si è come strappata dal seno due fogli da diecimila lire, due piccoli lenzuolini rosa. La donna non trattiene lacrime di una ira furiosa e dolorosa. Lei ogni mattina all’alba se ne parte per la campagna e torna dalla sua piccola proprietà al tramonto con la schiena spezzata, non capisce perché una parte dei soldi per la vendita del suo grano deve finire all’esattoria comunale.
── Ma non me le prendo mica io.
Da dietro un piccola serranda protettiva le ha risposto l’esattore, che tutti chiamano in paese l’avvocato. La sua esattoria è un piccolo regno di pochi metri quadrati, un banco e una grata lo dividono a mezzo, la cassaforte è in fondo. L´avvocato è un emigrante di ritorno, con la moglie donna Ida, la maestra elementare, si imbarcarono a Napoli per arrivare a Boston, poi fecero ritorno al paese. Donna Ida non riesce a dimenticare la metropolitana sotterranea, la Subbuè dice lei per Subway, si capisce che le manca molto ed è fiera di esserci stata la sotto nella Subbuè, lei unica in paese.
Nella sera tiepida d´estate si portano fuori dall’esattoria le sedie impagliate per il colonnello, donna Ida, l´avvocato, il vicesindaco e qualcuno dei Masucci la famiglia antica del paese. I salottieri parlano per ore, osservano il passeggio avanti e indietro per la Piazza, ogni tanto qualche borghese sfaccendato si ferma, saluta, racconta e raccoglie notizie. Nelle sere fredde l´avvocato e donna Ida si recano in visita a casa del colonnello, accolti con grande enfasi da sua sorella Romualda, che sicuramente avrà sparlato di loro mentre facevano rimbombare il battacchio al portone rosso. In una stanza priva di arredo dormono i contadini senzaterra, stesa una coperta sul pavimento ruvido, il loro nipotino Sciaquarulo è stato spedito a Romualda zitella e sua protettrice, la quale sicuro gli darà qualcosa, come un pezzo di pane cotto nel forno a legna o tabacco da mozziconi di sigarette del colonnello. Ora si prendono le fascine per il fuoco da un angolo della grande cucina, seduti al camino si rifiuta il vino al gusto d´aceto offerto da zia Romualda, ci si bruciano le mani per tirar fuori dalla brace e pelare le patate. Per ravvivare la serata, l´avvocato ripete il gioco di sempre, finge di tirar fuori da una tasca della giacca una forbice e minaccia di tagliare il pisello a Sciacquarulo, che è il solo a non ridere, ma miserabile evoca la pietà .
── Avvocà, per l´amore di Dio.

L’Innesto
Si metteva il fucile a tracolla e qualche cartuccia fatta a mano in una tasca della giacca di fustagno, scendeva in silenzio dalla scala scivolosa al portone, tradito da Tom e Pummarola, i due cani che gli correvano dietro.
── Zia Romualda, ma dove va zio Alfonso?
── A caccia.
── Ma se non porta mai a casa almeno una quaglia.
Silenzio.
Zio Alfonso, il colonnello, andava ogni giorno a caccia della lepre fantasma, non avevamo il coraggio di andargli dietro noi due ragazzetti, i cugini Gianni e Generoso. Ora mi viene il sospetto che trovasse rifugio da qualche contadinotta, almeno lo spero per lui.
Come dice quel famoso scrittore tedesco si va a caccia per se stessi. Niente di più vero per i cacciatori di Volturara Irpina. Quanti ne erano? Tutti quelli con tempo da perdere e abbastanza soldi da comprarsi un fucile a due canne e l’occorrente per farsi le cartucce. Naturalmente mai nessuno tornava a casa con qualcosa nelle tasche, la fame e la conoscenza dei luoghi da parte dei contadini avevano sterminato da tempo l’ultimo cinghiale e l’ultima lepre. Quanto ai volatili suppongo che si guardassero bene dal sorvolare il territorio. E dunque i nostri cacciatori battevano i boschi per il piacere fine a se stesso, per starsene fuori di casa e alla larga dalle mogli.
Cosi passava il tempo, ma un giorno zio Alfonso si mise in capo di fare l’ortolano scientifico, lo vedemmo nell’orto chino tra i filari di pomodoruzzi, che cercava di ficcare non so che rametto in una pianticella matrigna. L’esperimento andava avanti senza eventi di rilievo, ma il colonnello non era tipo da arrendersi, alla fine con scarso senso dell’onore egli prese a incolpare noi, i suoi nipoti, di calpestargli apposta l’innesto, e se mai ci vedeva girare attorno alla sua creatura gridava senza ritegno
──Vafanculo a mammeta.
Espressione locale di grande efferatezza che non osiamo tradurre. Ma il colonnello e il suo innesto trovavano pane per i loro denti, che da lontano si udivano le nostre vocette
── Generoso, stai attento.
── Dove Gianni?
── Non lo vedi Ernesto? gli fai male.
Zio Alfonso era partito a diciotto anni volontario per la guerra di Libia, che al tempo era parte dell’Impero Ottomano. Tripoli bel suol d’amore. Poi in vari modi aveva partecipato a tutte le guerre successive, fino alla pensione. La vita di pace oziosa e noiosa gli rendeva irascibile il carattere e non era dunque nello stato d’animo di apprezzare il senso dell’umorismo dei suoi nipotini, ai quali ora lanciava minacce nell’orto. Ma Gianni e Generoso non avevano tempra men bellicosa
──Andremo a sputare sulla sua tomba.

Tom e Pummarola
Al posto destinato giunti, sciolto il sacco dai lacciuoli, zio Alfonso incita una creatura riottosa a uscirne fuori, alla fine il coniglio, stanco di sentire grida e improperi, si getta dalla bocca del sacco nel prato e, dato uno sguardo distratto ai due cani perplessi, prende a brucare erba.
A questo punto zio Alfonso e Mastarrico credono di dover cominciare l’addestramento alla caccia: un batter col piede la terra, atterrire il coniglio indifferente, gli sguardi ferini, le grida inumane e feroci a eccitare Tom e Pummarola. I due cani si interrogano muti l’un l’altro a chiedersi dove si volesse andare a parare con tutto questo baccano.
I fanciulli hanno tenero il cuore, Gianni e Generoso prendono a recitare il cane e la lepre, per modo che la giornata del loro zio non sia persa. Gianni corre a balzi e Generoso dietro con terribili e oscuri latrati.
Quando zio Alfonso prende due cartucce dalla giubba e carica il fucile a doppietta, la lepre e il levriero decidono che è tempo di por fine alla battuta di caccia e trovato riparo dietro un muretto di pietre bianche a secco ripetono il solenne giuramento.
── Andremo a sputare sulla sua tomba.

Maruzzella
”Ahó, a romano, ce piove a Roma? Ce fanno certi goccioloni.”
Ecco il dannato motivo per cui sono tornato a Volturara Irpina.
Chi sa come era nata questa storia dei goccioloni. Qualche testa dura del paese avrà chiesto davvero a uno dei miei cugini, romani come me, se a Roma pioveva. E il mio cugino per vanteria o presa in giro avrà risposto che ci facevano certi goccioloni. Il risultato fu che i monelli, non avendo altro di meglio da fare, se la godevano a ripetermi cento e mille volte la canzoncina. Uno di loro era una monella, un diavoletto sudicio, vestita sempre, almeno d’estate, di una unica lunga sottanina rosa chiaro, capelli neri unti e ricci. Un nasino grazioso, grandi occhi neri birbanti, sorriso sottile, si chiamava Maruzzella. È per lei che sono tornato a Volturara Irpina. Ero allora un ragazzetto magro chiuso immusonito. Me ne stavo per conto mio, la gente del paese mi appariva noiosa e in effetti lo era. Scendevo per via Campanaro, Maruzzella mi correva dietro, mi si parava davanti, scuoteva i riccioli e rideva.
“Ahó, a romano, ce piove a Roma? Ce fanno certi goccioloni.”
La scanso con una spinta sgraziata, sbatte la tempia contro lo spigolo di pietra dura di un muro. Gocce di sangue, lacrime e singhiozzi. Dolore e stupore.
I ragazzi hanno poca coscienza della loro malvagità, ma gli uomini sono consapevoli. Ci sono angoli della nostra coscienza su cui non abbiamo potere, in uno di questi angoli mi tenevo Maruzzella. Avevo fatto sanguinare un angelo, per questo risalgo a Volturara, dopo una vita, a cercarla.
La famiglia di Maruzzella viveva al tempo in una grande stanza che si affacciava in un cortile interno. La madre era una contadina dai fianchi larghi e robusti. Una mattina entrarono i carabinieri nel cortile, l’ultimo nato, fratellino di Maruzzella, era morto soffocato nel grande letto comune. La madre si era rigirata nel sonno profondo e si era ripreso dal piccolo il respiro che gli aveva dato. I carabinieri entrarono e uscirono, da soli. Non mi ricordo del padre, che di giorno avrà zappato, di notte avrà messa incinta la moglie.
Infine sono qui in mezzo a via Campanaro che chiedo di Maruzzella, che abitava qui di fronte, che la madre mi pare si chiamasse così. La via è tutta di palazzi nuovi belli, almeno le facciate, per via del terremoto. Maruzzella sarà rimasta una monella coi riccioli, magari ingrassata? Forse è emigrata. Insegna a scuola, è riuscita a diventare maestra? È sola o sposata? Tiene figli? Le regalo un profumo? Un libro per i figli? Speriamo non siano tanti. Qualcuno mi suggerisce, Maruzzella abita là dietro, però non è in buona salute. Entro nel portone, salgo pochi gradini di una rampa stretta. Mi indicano una donna gonfia triste su una sedia. Sta su quella sedia da quando aveva vent’anni. Sente, capisce, non può parlare. Le racconto la storia. Ti ricordi? sono venuto a chiederti scusa. Fa cenni di assenso, mi pare di vedere una lacrima. Ha capito cosa le ho detto? era davvero Maruzzella? Sono venuto quassù per farla piangere di nuovo. Ho sognato il giardino degli angeli, alla ricerca di un mondo finito, o forse mai esistito.
Capitana, questo era il nome della madre di Maruzzella e madre di Volturara, ebbe diciotto figli e fu sempre molto povera, il marito morto negli anni Sessanta, forse sfiancato nel fare per l’ultima volta il suo dovere. La vita di Capitana fu un coprire i debiti con altri debiti, fino al suo allontanamento da questo mondo agli inizi del terzo Millennio.

Colomba contro Stretta di Mano
Elezioni amministrative 1975 a Volturara Irpina.
Ma sarebbe lo stesso paese, senza brogli o almeno il sospetto di essi? Si vocifererà in seguito che, un componente di un seggio elettorale, uomo di parte Colomba, con una minuscola punta di matita infilata sotto l’unghia del mignolo destro, durante spoglio, mentre caccia le schede dall’urna e le apre, opera un trucco infernale. L’infame scrutatore traccia di nascosto un segno sul simbolo della Colomba nelle schede bianche, facendole diventare valide per la Colomba, e ripete lo squallido trucco anche su molte schede votate Stretta di Mano, facendole annullare per doppio voto.
 

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