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Il Pane racconto tratto da “Anime brulicanti”
Scheda Verificata

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Il Pane racconto tratto da “Anime brulicanti”

Via Fiorentini
75100 Matera
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Il pane
racconto tratto da “Anime brulicanti”

visita su Google street view  

 

  • Settembre 1950
  • Ottobre 1950
  • Novembre 1950
  • Dicembre 1950
  • Settembre 1970


 

Matera, settembre 1950.

Il profumo del pane, Franceschino, lo aveva appena lasciato dietro di sé. Quel profumo di fragranza e bontà che solo il pane di Matera sapeva sprigionare.
Franceschino lavorava per Paoluccio, il cui forno era situato di fronte la chiesa di Sant’Agostino, su via D’addozio, la stessa strada che stava percorrendo in quel momento, per ottemperare al suo dovere. Franceschino, infatti, era il ragazzo del pane.
Il suo compito consisteva nel muoversi per le strade dei Sassi, con in mano la sua trombetta, per richiamare l’attenzione delle massaie che impastavano il pane con le loro mani. Queste delegavano a lui l’onere di andare a prenderlo crudo e riconsegnarlo una volta cotto.
Il lavoro di Franceschino non era peggiore o migliore di altri, anche se lui, domande del genere non se le poneva affatto, complice i suoi dodici anni. Nonostante la sua giovane età, però, coltivava un sogno che voleva realizzare a tutti i costi, nonostante la consapevolezza di dover avere pazienza.
Franceschino sognava di imparare a fare il pane, impastarlo con le sue mani e dargli la classica forma di pagnotta, così come sapeva fare abilmente sua madre e tutte le donne dei Sassi. E dopo averlo visto lavorare sapientemente, rimaneva poi incantato, ogni volta, nel vederlo lievitare al calore del forno.
Quello era il suo sogno. Quel suo sogno, però, avrebbe avuto totale e assoluto compimento se un giorno fosse riuscito ad avere un forno tutto suo.
Con la mente assorta nel suo sogno, probabilmente irrealizzabile, aveva percorso un breve tratto di via D’Addozio, quando vide salire una figura a lui nota. Quell’uomo che stava camminando in senso opposto al suo era Mario, figlio di Raffaele e Antonietta, conoscenti di suo padre e sua madre. Mario era stato in guerra e dapprincipio si diceva fosse stato dato per disperso. Poi, all’improvviso, lo avevano dato per vivo e vegeto, solo che, per un motivo assai misterioso, aveva deciso di non tornare più a casa sua. Così come aveva fatto prima della guerra. Sua madre gli aveva raccontato che Mario, sin da piccolo, era stato mandato a fare il pastore, senza aver studiato neanche un giorno. E da allora non aveva più vissuto con la sua famiglia.
“E non vuole stare con suo padre e sua madre?” aveva chiesto lui, incuriosito.
“Beh… forse sta bene appresso alle pecore dalla mattina alla sera” gli aveva risposto sua madre, con un tono che non era riuscito a convincerlo.
A chi piaceva stare con le pecore dalla mattina alla sera?
A nessuno!
Più di tanto, però, non era riuscito a carpire. I pettegolezzi, sul conto di quel ragazzo misterioso, però, non si limitavano a quello.
“Mario viene la notte a Matera, come un ladro, per vedersi con una” andavano dicendo le donne, nel forno di Paoluccio, o nei vicinati dove lui prendeva le pagnotte, messe in bella fila sulla lunga tavola che poi portava in spalla.
Franceschino ascoltava e memorizzava ogni cosa, era bravo in quello. Il suo lavoro lo teneva in allenamento. Così aveva saputo, in anticipo su molti, che Mario aveva una donna con la quale si vedeva di nascosto, durante la notte. Donna, per la quale, molte non aveva grande stima.
“I figlio di Antonietta” aveva sentito dire “si vede con quella strega” ma non era riuscito a capire chi fosse quella strega della quale parlavano. Quello, per lui, era ancora un mistero, ma visto e considerato quanto il pettegolezzo crescesse in fretta, autoalimentandosi, sapeva che non ci sarebbe voluto molto a sapere tutta la verità.
E un giorno, quasi riprova di quanto pettegolezzo e verità camminassero appaiati, Franceschino aveva incontrato Mario, poco prima dello spuntare del sole.
Franceschino, quel giorno, aveva preso lavoro da un po’, ma non aveva ancora cominciato il suo giro. Era intento a spazzare lo spiazzo antistante il forno. All’improvviso aveva visto quella figura passare dall’altra parte della strada, a ridosso del muro che delimitava il sagrato della chiesa, di fronte. Poi, d’un tratto, dietro di lui, era apparso il suo padrone, Paoluccio. Questi si era fermato a osservare quella figura misteriosa. Anche Paoluccio conosceva Mario e i suoi occhi dicevano che provava una certa pena per quel ragazzo che si muoveva in maniera furtiva, nella sua stessa città.
Franceschino aveva osservato Mario, camminare con il collo affondato nelle spalle e il cappello calato sugli occhi. Quel giorno Mario si era girato e i loro occhi si erano incrociati. Quel volto gli era rimasto così impresso da non averlo più dimenticato. Per i primi secondi, quello sguardo, duro e profondo, lo aveva spaventato, poi Mario aveva accennato un lieve sorriso, in direzione di Paoluccio e lo aveva salutato con un movimento della testa. Era bastato quel piccolo accenno di ilarità e Franceschino aveva provato subito un’empatia sincera per quella persona sconosciuta.
Franceschino aveva interrogato Paoluccio, con discrezione. Nonostante fosse il suo padrone, lo trattava con enorme rispetto e gli voleva bene, forse perché aveva avuto solo figlie femmine e vedeva in lui il figlio maschio che avrebbe potuto prendere le redini del forno, un giorno.
“Quello è un povero ragazzo, sfortunato assai” aveva risposto Paoluccio, rimanendo vago e non aggiungendo altro.
Franceschino non aveva indagato oltre, ma era deciso a sapere altro. Così aveva chiesto nuove spiegazioni a sua madre che, nonostante fosse a letto malata, da mesi ormai, era aggiornata su quello che succedeva nel vicinato e oltre, grazie alla sua vicina e, spesso, badante, Concetta.
“Perché Paoluccio ha detto così?”
Franceschino aveva posto quella domanda e aveva visto sua madre distogliere lo sguardo, in principio decisa a non parlare. Poi lo aveva guardato negli occhi e si era decisa a dirgli tutto.
“Quello che ti sto per dire lo devi tenere per te” gli aveva raccomandato subito lei, seduta nel letto, madida di sudore, come sempre.
Lui aveva fatto un cenno di assenso con la testa e aveva conosciuto la storia di Mario.
Al termine del racconto anche lui aveva detto: “poverino!”
Franceschino, in quell’istante, stava continuando a camminare in direzione opposta proprio a quel poverino del quale conosceva la storia. E Mario, come sempre, anche quel giorno, si era calato il cappello sul viso, a voler mascherare in parte i suoi lineamenti.
Il figlio di Antonietta era in ritardo, pensò Franceschino. Solitamente si avviava da casa della sua amata prima che il sole spuntasse all’orizzonte. Decisamente, quel giorno era andato oltre.
– Buongiorno, Mario – disse Franceschino, guardandolo, con un accenno di sorriso.
– Salutiamo, Franceschino! – replicò, Mario, rispondendo al suo sorriso amichevole allo stesso modo.
Franceschino ne fu felice. Sperava, un giorno, di poterlo conoscere meglio.
Le loro strade si divisero.
Franceschino entrò in un vicinato, poco dopo la metà di via D’Addozio. Lì ci abitava comare Pasquina, una donna dalle braccia tornite e muscolose come quelle di un uomo. Era una donna alta, molto più della maggior parte di quelle che incontrava nel Sasso o al forno. Franceschino ricordava che anche suo marito e i suoi innumerevoli figli avevano tutti una stazza enorme. Incutevano rispetto al solo guardarli.
Franceschino, all’imbocco del vicinato, come d’uopo, suonò la sua trombetta, per annunciare il suo arrivo, poi si accostò alla porta di comare Pasquina. Non sapeva perché anche lui la chiamasse comare. In fondo non sapeva, se tra lui e la donna ci fosse o meno un legame familiare tale da poterla chiamare così, ma sua madre la chiamava comare e lui faceva lo stesso.
La porta di casa della donna enorme era aperta, il caldo estivo stava perdurando per il mese di settembre. La donna era accaldata, essendo impegnata a impastare il pane, con movimenti decisi.
Franceschino si avvicinò e salutò, rimanendo subito ipnotizzato dal movimento cadenzato delle braccia e dei polsi della donna.
– Franceschino – esordì Pasquina, con lo sguardo a lui – al secondo forno!
Franceschino aveva memorizzato, anche se con lei era quasi sempre così. Considerato le numerose bocche da sfamare in casa sua, Pasquina produceva sempre una gran quantità di pane, per tale motivo non riusciva mai a preparare le pagnotte per la prima infornata.
– Va bene, comare Pasquina – aveva replicato lui. Poi era rimasto fermo sulla soglia a osservare, affascinato da quei gesti, nella pasta molle e gialla che si deformava sotto la pressione delle mani. Fissava quelle venature che la tavola per impastare lasciava, o le lesioni dovute alla pasta che si asciugava troppo.
Franceschino adorava quel rituale e desiderava ardentemente imparare anche lui quell’arte, ma suo padre e forse gran parte della gente dei Sassi, non sarebbero stati concordi.
“Quella è roba di femmine!” gli dicevano i suoi coetanei, quelle poche volte che riusciva a vedersi con loro, alle feste comandate, in chiesa o a passeggio in piazza, davanti la fontana.
Franceschino, a quell’affermazione, non replicava mai, non volendo essere oggetto di scherno di nessuno e serbava per sé il sogno di imparare anche lui l’arte della panificazione, dall’impasto alla cottura.
– Franceschino – gli urlò quasi contro, comare Pasquina – che ti sei abbabbiato?
Franceschino ebbe l’impressione di essere stato svegliato di colpo, nel pieno del sonno.
– No, no! – rispose con uno scatto, riprendendo coscienza della realtà attorno a lui.
– Beh… allora vai a lavorare, muoviti!
Franceschino notò un leggero sorriso, sul volto della donna. Il suo non era rimprovero, ma un consiglio amichevole. Poi sgattaiolò lontano, avendo tenuto bene a mente ogni minimo movimento delle mani della corpulenta comare.
Tutto quello che riguardava l’impasto del pane, che aveva la possibilità di vedere, lui lo memorizzava e lo teneva in serbo per il giorno in cui avrebbe potuto metterlo in pratica.
“Franceschino, al primo forno!” gridava una.
“Franceschino, al secondo forno!” gridava l’altra.
Franceschino riconosceva e memorizzava. E proseguiva il suo giro. Quando aveva cominciato, tre anni prima, si muoveva in compagnia del suo predecessore, Giuseppe. Questi gli spiegava quello che doveva fare.
Giuseppe era diventato aiutante di Paoluccio, davanti al forno, per quel motivo lui aveva il suo lavoro di ragazzo del pane, Giuseppe, in un certo senso, aveva fatto carriera. Adesso infornava le pagnotte e aveva anche il compito di occuparsi del fuoco e della legna. Quello che non aveva imparato ancora era impastare il pane, Paoluccio non glielo aveva insegnato, il fornaio di via D’Addozio aveva tenuto per sé il suo segreto in quell’arte. Non che fosse difficile scoprirlo, bastava entrare in una qualunque casa e vedere quello che facevano le donne dei Sassi. Franceschino, però, aveva mangiato il pane fatto con le mani del suo padrone. Era migliore persino di quello di sua madre. Quindi aveva un segreto anche lui, per farlo buono come quello fatto in casa.
“Franceschino, tu vuoi sapere troppe cose!” gli aveva risposto Paoluccio, quando gli aveva chiesto quale fosse il suo segreto.
Franceschino aveva taciuto, dopo aver messo la coda tra le gambe.
“Il suo segreto è nel lievito!” gli aveva sussurrato all’orecchio, Giuseppe, un giorno.
“Per fare il pane buono” gli aveva invece detto sua madre “devi avere le mani calde” Franceschino non aveva capito il senso di quelle parole, poi Giuseppe gli aveva spiegato che sua madre, voleva semplicemente dire che dovevi amare quel lavoro di polsi e braccia, o la pasta se ne accorgeva.
Franceschino aveva riso, come se la pasta potesse capire!
“E’ così, ti dico” aveva insistito Giuseppe a mezzo tono “una volta ho provato a fare io una pagnotta, di nascosto, spacciandola per una pagnotta fatta da mia madre, con gli stessi ingredienti di mastro Paoluccio. Il sapore non era lo stesso!”
Quella storia, raccontatagli da quello che era il suo mentore, girava ancora nella testa di Franceschino, dopo più di un anno. Questo stava facendo maturare ogni giorno di più in lui, l’idea di imitare quel gesto, per mettersi alla prova.
Il problema era: come?
In casa sua era letteralmente proibito anche solo pensare di provare a impastare il pane, nonostante sua madre fosse ogni giorno più debilitata e ormai si sforzava di alzarsi per fare il minimo indispensabile. Suo padre non lo avrebbe fatto neanche accostare alla tavola per l’impasto. Spesso, quando sua madre non ce la faceva a stare in piedi, ci pensava sua nonna materna o la vicina Concetta a preparare da mangiare per loro.
Franceschino, percorse un altro tratto di strada e ripensò a sua madre.
Era malata da mesi ormai. I medici che l’avevano visitata le avevano detto che non c’era cura per quella sua malattia, tutto dipendeva da quanto fosse resistente il suo corpo, ma non vi erano medicine adatte. Ogni giorno che passava erano sempre più le ore che trascorreva a letto, bianca come un cencio e perennemente sudata, nonostante un tremore freddo l’accompagnasse tutto il giorno.
“Nessuno sa cos’ha tua madre” gli aveva risposto un giorno suo padre, mentre erano seduti a tavola, assieme a suo fratello Benito. Franceschino, dopo quella frase, aveva girato lo sguardo al letto e aveva guardato sua madre, sentendo un groppo alla gola. Le voleva un bene immenso e il solo pensiero di perderla lo faceva star male.
Franceschino notava quanto suo padre fosse gelido nei confronti della moglie, quasi avesse lei colpa per la sua stessa malattia. E stranamente anche suo fratello si comportava alla stessa maniera.
“Sono uomini” gli aveva detto, con un sussurro, sua madre, quando glielo aveva chiesto, poi gli aveva sorriso “anche tu sei un uomo, ma tu hai il cuore d’oro” aveva aggiunto, accarezzandolo. Franceschino aveva sorriso e non aveva detto nulla.
Franceschino, intanto, camminava lungo via Fiorentini, di ritorno al forno. Il giro era stata completato. Ora doveva ricominciare, quasi subito, per la raccolta delle pagnotte per la prima sfornata, o primo forno come dicevano le materane.
Franceschino si guardava intorno, sereno. Amava osservare tutto quello che lo circondava. Le case, le persone, gli animali per strada o davanti le case. Matera era il suo mondo, anche se sperava, un giorno, di visitarlo davvero il mondo. Lui non aveva studiato molto, aveva frequentato solo i primi due anni di scuola elementare, poi suo padre gli aveva detto che non c’era tempo per studiare, o meglio, studiare era una perdita di tempo!
“Guarda me” ripeteva a suo figlio “anche se sono analfabeta, ho un pezzo di terra, un mulo, un bue, un carretto e una casa tutta mia!” ovviamente ometteva di dire che il tutto lo aveva ereditato da suo padre.
Franceschino non replicava mai a quella affermazione, al contrario, Benito gongolava a quelle parole e gioiva per il solo fatto di aver abbandonato la scuola. Così Franceschino aveva smesso di studiare e aveva iniziato a fare il contadino. Quello, però, non era mestiere adatto a lui. Non era forte e robusto come suo fratello. Era magro come una candela, nonostante mangiasse tutto quello che gli capitasse a tiro. Suo padre aveva cercato in tutti i modi di indottrinarlo, con le buone e con le cattive maniera, ma sempre con lo stesso risultato: non era portato per quel mestiere. Benito, per la gioia di suo padre, ci era nato.
Così, suo padre, disperato, aveva deciso di trovargli un altro lavoro che si confacesse maggiormente alle sue doti fisiche, prima di ucciderlo a bastonate.
Franceschino si ritrovò così a lavorare per Paoluccio il fornaio.
Il lavoro gli era andato subito a genio. Camminare per Sassi, con la tavola carica di pane era piuttosto faticoso, ma non era al limite della brutalità e poi poteva saziare la sua fame di curiosità, in primis quella sull’arte di fare il pane.
Franceschino, comunque, ricordava molto dei giorni passati tra i banchi di scuola. In particolare una volta aveva sbirciato un planisfero, appeso nell’aula accanto alla sua. Era rimasto affascinato dalla grandezza del mondo. L’aveva scrutata, alla ricerca di un paese in particolare.
Scrutò e lesse tanti nomi, con il suo leggere incerto, fino a che lo aveva trovato, facendo spuntare un sorriso sul suo volto.
“Quella è l’America” gli aveva detto una voce alle sue spalle, facendolo sussultare.
Franceschino aveva trovato quella parte di mondo dove viveva un suo zio, fratello di sua madre, da tanti anni. Era diventato ricco sfondato.
La voce che aveva spaventato Franceschino era quella del maestro Ricciardi. Franceschino aveva accennato ad andarsene, con atteggiamento riverente, ma l’uomo lo aveva trattenuto, iniziando a filosofeggiare sulle grandi opportunità che offriva a tutti l’America.
“Sei mai stato fuori Matera?” gli aveva poi chiesto, il maestro, con un sorriso sincero, toccandogli i capelli.
Franceschino aveva detto no con la testa.
“Se studi, diventi una persona rispettata, potrai trovare un buon lavoro e andare in America, così saresti rispettato anche lì!”
Franceschino ricordava bene quelle parole. Peccato che qualche mese dopo aveva smesso del tutto di studiare!
In quel momento lasciò via Fiorentini per salire via D’Addozio, con le gambe leste, cariche di gioventù, e la mente al ricordo delle parole del maestro Ricciardi.
“Forse non potrò andare a scuola” disse a sé stesso “ma la gente potrebbe rispettarmi per quello che farò: il pane con le mie mani!”
Arcangela, da mesi, aveva come compagno quotidiano il dolore.
Il dottor Bronzini l’aveva visitata e non si era espresso, ma il suo volto non aveva saputo mentire. Arcangela lo aveva fermato, prendendolo per un braccio, mentre rimetteva a posto i suoi attrezzi. Gli aveva chiesto quanto tempo le rimaneva da vivere. Una persona lo sa quando sta per arrivare il suo momento.
Il dottore si era fermato. L’aveva guardata e poi aveva risposto.
“Per queste cose siamo nelle mani di Dio!” le aveva detto, con il tono di una sentenza. Poi si era alzato, salutandola con trasporto e un sorriso pietoso.
“Se un dottore ti affida a Dio” aveva pensato lei, subito dopo “vuol dire che nessuno può fare più nulla, è solo questione di tempo.”
Poi, Arcangela, aveva sentito il dottore parlare sottovoce con suo marito Donato, sulla soglia di casa.
C’era una piccola possibilità di salvezza per lei: bisognava portarla in America. Questo voleva dire solo una cosa, vendere tutto per pagare le spese.
La sua vita, aveva pensato Arcangela, non valeva quella di tutti gli altri membri della famiglia, perché vendere tutto voleva dire quello, mettere marito e due figli in mezzo a una strada.
“Se solo pensi di vendere tutto, per portarmi in America” aveva sussurrato a suo marito, nel letto, durante la notte “io mi butto dalla gravina, così non ci sarà bisogno di curare più nessuno!”
Donato non aveva risposto, si era girato dall’altro lato e aveva pianto in silenzio. Da quel giorno, una specie di rabbia perenne velava il viso di suo marito, una rabbia contro il destino maledetto, sempre avverso.
Arcangela stava lottando strenuamente da mesi, contro quel male oscuro e sconosciuto anche ai dottori, riuscendo a fare quasi tutto in casa, ma i dolori addominali, a volte, la lasciavano senza fiato, ma lei stringeva i denti e continuava. Perdeva peso ogni giorno, era ridotta a uno stelo, però, pregava ogni notte, nonostante fosse ormai rassegnata al suo destino. La sua fede era enorme e credeva nei miracoli.
In quel momento stava impastando la massa per il pane. Ormai non lo preparava che una volta a settimana, se ne aveva la forza. Non avendo figlie femmine, l’aiuto le arrivava da sua madre, per fortuna ancora in buona salute, e dalla vicina, comare Concetta, una donna buona come una sorella, se non oltre.
“Promettimi che, quando me ne sarò andata al camposanto…” aveva detto Arcangela, a suo marito, un pomeriggio in cui stava leggermente meglio e si era spinta fino fuori, al fresco del vicinato “troverai un’altra donna e ti risposerai.”
“Non voglio sentire certe cose!” aveva replicato Donato, accigliato “tu guarirai e tutto tornerà coma prima” nelle sue parole c’era la disperazione di chi sa che sta mentendo persino a se stesso. Arcangela aveva abbassato lo sguardo e aveva accennato un sorriso amaro.
Le mani si piegavano all’altezza dei polsi e deformavano la massa, facendola gonfiare ai lati. Arcangela, poi, la riprendeva con entrambe le mani e la ripiegava verso l’interno e tutto ricominciava daccapo. Quel movimento, lento, deciso e ripetuto, sembrava ipnotizzasse gli occhi di Franceschino, seduto lì accanto.
Arcangela lo osservava. Nonostante il dolore, più acuto che mai quella domenica mattina, regalò un sorriso al suo secondogenito.
Solo Dio poteva capire quanto lo amasse.
Franceschino era un bambino buono di cuore, tutti gli volevano bene e lo rispettavano, nonostante avesse solo dodici anni. A differenza di suo fratello maggiore, Benito, più duro di animo, come suo padre, lui condivideva il dolore di sua madre dal profondo del suo animo innocente. Arcangela vedeva negli occhi del figlio la sua stessa sofferenza, quasi fisica, e questo le spezzava il cuore.
Nonostante fosse domenica, Franceschino era a casa, invece che in giro a bighellonare, e rimanere lì a guardarla affascinato, mentre preparava il pane per tutta la famiglia. La cosa la riempiva di gioia, ma strideva con l’intolleranza di suo marito. Questi non sopportava l’idea che suo figlio preferisse guardare preparare il pane, piuttosto che uscire fuori in strada con i suoi coetanei.
– Anche oggi che non lavori – disse Arcangela, stringendo i denti per il dolore e la fatica – stai qui con me? – aveva proseguito, sentendo il sudore inumidirle la fronte e la schiena.
– Si – rispose Franceschino, seduto cavalcioni alla sedia, come gli uomini in cantina, con il volto luminoso di sempre – voglio guardare come impasti il pane!
Arcangela sorrise. Era felice di averlo accanto. Quanto le sarebbe mancato quel volto innocente.
In quello stesso istante una fitta lancinante sembrava volesse aprirle le viscere. Si fermò e quasi si piegò in due dalla sofferenza. Strinse i denti e rimase immobile, sperando che il dolore passasse, come sempre. Le fitte erano acute come quelle del parto, dentro di lei, però, non c’era la vita, ma la morte.
Franceschino scese dalla sedia con uno scatto e le andò vicino, senza più un accenno del sorriso di poco prima.
– Mamma, che c’è? – le chiese Franceschino, prendendola per un braccio – non ti senti bene?
Arcangela stava sudando in maniera copiosa, sentendo, al contempo, una sgradevole sensazione di freddo sulla pelle e nelle ossa.
Inspirò ed espirò, così come aveva fatto mentre dava alla luce i suoi figli. Il dolore sembrò placarsi, quel tanto sufficiente a darle la forza di riprendere a lavorare l’impasto del pane.
– No, non ti preoccupare, a mamma, sto bene – mentì Arcangela, a denti stretti.
Poi affondò nuovamente le mani nella massa molle e riprese i suoi movimenti atavici. Franceschino, se pur perplesso, tornò a sedere.
Donato camminava a passo lento verso casa sua. Era di ritorno dalla piazza, su al piano, dopo aver trascorso la mattina a passeggiare con altri suoi coetanei, scambiando chiacchiere sul più e sul meno. Era un po’ di tempo che l’argomento preferito dai materani era Alcide De Gasperi. I suoi discorsi sullo sfollamento dei Sassi, era argomento che non a tutti piaceva. Donato, dal canto suo, era completamente indifferente alla cosa. A lui bastava avere un tetto sopra la testa, per il resto potevano fare quello che volevano, a patto che la casa gliela pagassero loro, i signorotti rintanati nei palazzi del potere, quelli che se ne stavano tranquilli nelle loro case di mattoni. E quella era una realtà indiscutibile, per lui e per molti come lui, a Matera… c’erano due Matera… quella dei Sassi, morta di fame, dove le persone erano anime vaganti. E quella di sopra, dove la gente viveva in case con l’acqua corrente, il sole e tutte le comodità.
L’abitudine di passeggiare in piazza, o come dicevano in materani in mezzo alla fontana, Donato se l’era imposto, se pur saltuariamente, per dar modo alle sue braccia di rifiatare e a suo figlio Benito di vivere un po’ della sua vita di ragazzo. Quando in campagna c’era tanto da fare, però, non c’erano soste, si lavorava anche la domenica e nei giorni di festa.
In verità Donato era abituato alla fatica, per lo meno quella fisica. La vera stanchezza, quella che difficilmente passa, Donato l’aveva dentro, e la causa, se pur indiretta, era sua moglie. Le sue pessime condizioni di salute lo preoccupavano e non poco, anche se quel pensiero lo teneva per se. E questo covare profondamente lo rendeva nervoso e stizzoso tutta la giornata.
Donato vedeva Arcangela consumarsi giorno dopo giorno, come una candela sciogliersi al calore della fiamma e non c’era nulla che si potesse fare. O meglio una piccola speranza c’era, ma era troppo dispendiosa e sua moglie gli aveva vietato persino di pensarci.
Il dottor Bronzini gli aveva detto che in America, negli studi su malattie come quelle di sua moglie, erano andati molto avanti e metà di quelli che si ammalavano come lei, guarivano, o sicuramente vivevano più a lungo. Andare in America, però, non era una cosa da poco. Significava vendere le terre, le spese da affrontare erano tantissime. Era pur vero che, come punto d’appoggio, avevano suo cognato, fratello di sua moglie, questi, infatti, viveva da anni a Nuova York e qui si era arricchito, ma Donato non avrebbe mai chiesto ospitalità a lui. Quell’uomo poteva pure scomparire dalla faccia della terra, gli sarebbe interessato tanto quanto un mal di pancia.
La cura per la malattia di Arcangela, gli aveva spiegato il dottore, non portava via un giorno o due, poteva durare mesi. Con molta probabilità avrebbero speso meno se si fossero trasferiti tutti, emigrando e trovando un lavoro lì. La prospettiva, però, non lo allettava. Donato non riusciva a pensare a una vita diversa da quella che conduceva a Matera, ma se quello voleva dire salvare la vita di sua moglie, lo avrebbe fatto.
Arcangela, però, non aveva neanche voluto affrontare l’argomento, per non stravolgere gli equilibri della famiglia. Così Donato aveva dovuto rassegnarsi al fatto che sua moglie, con molta probabilità, non avrebbe festeggiato il Natale. Lei gli aveva fatto persino promettere che, dopo la sua morte, si sarebbe risposato. Donato non aveva voluto saperne, ripetendole di essere certo sarebbe guarita, ma non aveva creduto neanche lui alle sue stesse parole.
Donato aveva pianto lacrime amare, al solo pensiero di non avere più una donna al suo fianco, non una donna qualsiasi, ma la sua Arcangela, con la quale aveva condiviso tutto. Aveva provato a immaginare il resto della sua esistenza da solo, ma era consapevole che, con due figli maschi, sarebbe stato difficile, se non impossibile andare avanti.
Con Benito, il maggiore, non ci sarebbero stati problemi, era già un uomo fatto ed erano molto simili caratterialmente e questo gli dava tranquillità. Uno trovava conforto e aiuto nell’altro. Il vero problema era Franceschino. Non era un ragazzo del quale potersi fidare completamente. Donato ricordava che alla sua stessa età prendeva di peso una balla di fieno da solo. Suo figlio, invece, stentava a sollevare persino una zappa. Era stato avvilente quando lo aveva portato in campagna, a sgobbare assieme a suo fratello. Lo aveva visto lavorare e per un attimo Donato aveva pensato di avere una figlia femmina! E questa sua inettitudine al lavoro nei campi lo aveva fatto stizzire. Lo aveva rimproverato, vessato, non ricordava neanche quante volte lo avesse malmenato, pur di indurlo a fare uno sforzo.
“Devi abituarti alla fatica, asino!” gli aveva urlato contro, una infinità di volte.
Tutto era stato vano.
Franceschino sembrava preferisse essere percosso, piuttosto che tentare di superare le sue possibilità. In quella maniera, suo fratello Benito, era diventato uomo. E a soli quattordici anni era già forte come un toro. Certo Franceschino sopperiva a quelle sue mancanze fisiche con una mente sveglia e tagliente, ma con il lavoro di cervello si rimaneva digiuni, Donato lo sapeva.
Così, prima di rischiare di ucciderlo con le sue mani, a suon di percosse, Donato aveva seguito il malcelato suggerimento di sua moglie di trovargli un lavoro meno faticoso, più adatto a lui, come fare il ragazzo del pane, al forno di Paoluccio. E così suo figlio minore sembrava aver trovato il lavoro adatto al lui. Donato, invece, si era rassegnato.
Con l’ultimo pensiero al passato recente di suo figlio minore, era arrivato a casa, già con lo stomaco chiuso in se stesso, non trovando più un briciolo di tranquillità tra le mura della sua dimora.
Non appena varcò la soglia di casa, Donato si bloccò.
Passò in rassegna la scena.
Sua moglie stava impastando il pane, con visibile sofferenza. Accanto a lei suo figlio Franceschino, seduto cavalcioni alla sedia, intento a osservare sua madre con un viso da ebete.
Donato sentì un moto di rabbia partirgli dalla base dello stomaco fin su la testa.
Che diavolo ci faceva qui suo figlio? Un ragazzo che dovrebbe andare in giro con i suoi amici, di domenica, se ne stava invece in casa a guardare sua madre impastare il pane, come una femmina?
Donato avrebbe voluto prenderlo per la camicia e sbatterlo fuori con una pedata, ma si rese conto che sua moglie non avrebbe sopportato quel gesto. Non poteva farla agitare, debilitata com’era.
Donato represse l’ira, cercò di esternare tutta la sua rabbia attraverso il timbro di voce.
– Uagliò! – disse, facendo scattare suo figlio – che fai qua?
Donato fissava suo figlio, mentre si avvicinava a passo deciso. Leggeva nei suoi occhi la stessa paura dei giorni in cui, in campagna, lo picchiava fino a che non si sentiva dolere le mani e la rabbia sbolliva.
– Guardo a mamma! – replicò Franceschino, con la voce carica di paura.
Donato lo fissò un secondo. Strinse i pugni e i denti.
– Queste sono cose di femmine! – ringhiò – vai fuori con i tuoi amici e tuo fratello, muoviti!
Donato stava per soccombere sotto la sua stessa furia. Se sua moglie non avesse parlato, spezzando quella specie di incantesimo malefico, era sicuro sarebbe partito un mal rovescio.
– Vai, a mamma – disse lei, con filo di voce – fai quello che ti dice tuo padre!
Donato continuava a fissare suo figlio, ma con la coda dell’occhio, notò che sua moglie si era fermata e stentava a ritrovare la forza per rimanere in piedi.
Franceschino indugiò ancora un secondo, senza distogliere gli occhi da quelli di Donato, pronto a parare eventuali percosse improvvise. Poi sgattaiolò fuori, come una lepre con una volpe alle calcagna.
Donato sentì la rabbia provocargli un dolore viscerale. Il suo furore, però, fu interrotto da sua moglie che, in quel momento, ebbe un principio di mancamento e per miracolo non cadde per terra.
Donato accorse lesto e la sorresse, senza alcuno sforzo. Ormai pesava come un fuscello.
– Vai a chiamare a Concetta – disse Arcangela, con uno sforzo – così mi finisce di impastare il pane!
Donato la teneva per le ascelle, muovendosi già verso il letto.
– Non ti preoccupare! – le disse – adesso stenditi e riposati.
Donato adagiò sua moglie sul letto, con calma, quasi temendo si potesse rompere. Lei emise un lamento e si portò una mano allo stomaco. Donato la vide chiudere gli occhi e rimanere immobile. La sua fronte era imperlata di sudore e il volto del colore di un cadavere.
Donato sedette alla sedia accanto a letto e fissò la massa informe che sarebbe diventata pane, rimasta lì, senza che nessuno la lavorasse più.
Seduto sulle scale accanto la fontana di ghisa, all’incrocio tra via Fiorentini e la salita di via D’Addozio, Franceschino si sentiva terribilmente triste.
In quel momento non c’era un gran numero di persone a riempire l’acqua. Era domenica e c’era chi non lavorava, chi era a messa, chi era a passeggio. In alternativa, c’era chi, come i ragazzi di fronte a lui, si divertivano a giocare. Ancora più su, di fronte l’edicola sacra, all’ingresso del vicinato Contini, c’era suo fratello Benito con altri suoi coetanei. Ridevano e scherzavano, affrontando di certo argomentazioni da grandi.
L’unico da solo era Franceschino.
Le ragazze sue coetanee giocavano alla campana. Dopo aver disegnato per terra, delle caselle con all’interno i numeri da uno a dieci, ci si cimentava nel far andare la propria pietra nel giusto quadrante, per poi andarla a recuperare, saltellando su di un piede solo. Franceschino le guardava mentre lasciavano svolazzare il vestito nuovo della domenica. I ragazzi, invece, anche loro vestiti a festa, giocavano a calcio, con un pallone improvvisato, fatto di pezza. Quel gioco riduceva le scarpe e gli indumenti in condizioni pietose. Nessuna mamma ne era felice, non essendo il loro guardaroba molto ricco, o meglio, era composto da due soli abiti, quello per le feste e quello per tutti gli altri giorni.
Franceschino era vestito anche lui con il vestito della domenica. Guardò il suo calzone corto, poi le calze, fatte a mano da sua nonna, le scarpe di suola, con infiniti strati di tintura, tali da averle rese dure e ormai indistruttibili. Infine la camicia, non più nuovissima anche lei, con il colletto usurato, ma quello era il minore dei problemi. Sua madre avrebbe provveduto a girarlo su se stesso, per continuare a sfruttare ancora per parecchio tempo quell’indumento.
Franceschino allungò lo sguardo a suo fratello. Lui era vestito come un uomo, avendo già il fisico robusto. Indossava un pantalone di cotone, un po’ corto, che lasciava vedere le calze, ormai talmente usate che l’elastico non reggeva, e quindi gli si erano arrotolate in basso, sulla caviglia, a mo‘ di fisarmonica. Le sue scarpe buone, come per Franceschino, erano state colorate e ricolorate al punto che il pellame di cui erano fatte si era avvizzito. Poi una camicia bianca e una giacca, anch’essa un po’ corta di maniche. I capelli erano scolpiti con la brillantina di suo padre, con una scriminatura perfetta a sinistra.
Franceschino non vedeva l’ora di diventare grande come lui, ma solo nel corpo, perché suo fratello, a volte, gli dava l’impressione di essere un po’ scemo.
In casa era sempre sulle sue e tutto quello che si diceva sembrava non interessargli. Vedeva sua madre star male, ma non se ne curava, confidando in una sua prossima guarigione. Anche in quel momento, mentre rideva sguaiatamente con i suoi amici, non dava l’impressione di aver alcun pensiero per la testa.
Perché lui, a soli dodici anni, aveva sempre la testa piena di idee, desideri, sogni?
“Perché tu sei speciale” gli aveva detto un giorno sua madre, accarezzandogli il volto con la sua mano ossuta. Lui non aveva approfondito, si era fatto bastare quella risposta.
Quanto le sarebbe mancato la sua mamma.
Franceschino sapeva che sua madre non sarebbe mai guarita. Non sarebbe rimasta con loro ancora per molto.
Il pensiero di rimanere solo, con suo padre e suo fratello, non gli piaceva affatto. Ancor più se suo padre avesse sposato un’altra donna che, per quanto buona potesse essere, non avrebbe mai sostituito sua madre.
Lei era unica.
Suo padre, a differenza di sua madre, non aveva molto a cuore quelli che erano i suoi pensieri, i suoi sogni, le sue aspirazioni. Per lui c’erano solo il lavoro, le terre e i soldi. Il modo migliore per dimostrargli il suo amore era picchiandolo… a quanto pareva. Per fortuna, da quando aveva smesso di andare in campagna, non era quasi più accaduto venisse percosso senza soste.
Franceschino ricordava che un giorno, suo padre, dopo averlo schiaffeggiato con le sue mani dure e pesanti, come tocco finale, gli aveva dato un calcio all’altezza dei glutei. Il dolore era stato così acuto e profondo da averlo reso zoppo per una giornata intera. Quando era tornato a casa si era sforzato di camminare normalmente, dinnanzi a sua madre, ma a lei non era sfuggito ugualmente. E Benito, durante tutto questo, aveva sogghignato. Franceschino non ricordava di aver mai visto suo fratello subire una umiliazione simile. Per Benito il mestiere di contadino era perfetto.
Franceschino si alzò e si incamminò lungo via D’Addozio, evitando di passare davanti suo fratello e i suoi coetanei. Voleva stare solo con se stesso e il suo sogno.
Benito era affamato, ma non c’era nulla da mettere nello stomaco. Sua madre non si decideva a guarire, era da mesi che passava gran parte del tempo a letto. Nessuno sapeva cosa avesse, neanche il dottor Bronzini. Benito, però, non credeva sua madre potesse morire. Era una donna forte e sana, era sicuro si sarebbe ripresa. Intanto, per la sua malattia, ne stava soffrendo tutta la famiglia. Senza la figura di sua madre tutto in casa rallentava o non veniva fatto. Il bucato lo faceva la nonna, spesso anche il pane e quant’altro per poter mangiare. Benito, per ricambiare, quasi ogni giorno, portava qualcosa per lei. In quel modo nonna Giuseppina aveva da mangiare per lei e per suo marito, nonno Francesco. Benito aveva notato che suo padre assegnava sempre a lui il compito di andare dagli anziani genitori di sua madre, sembrava quasi avesse ribrezzo per quei due vecchi che, in fondo, erano buoni davvero. Un giorno gli aveva chiesto spiegazioni.
“Perché io e tuo nonno” gli aveva detto, stizzito “non la pensiamo alla stessa maniera su certe cose!”
Benito, però, non aveva capito quali cose.
Qualche volta, il nonno, aveva fatto delle battute allusive, riguardo al suo nome, Benito, ma lui, anche in quel caso, era rimasto impassibile, non avendo compreso.
“Per forza” aveva detto il nonno, a mezzo tono, “con quel nome che hai… che vuoi capire?”
Benito aveva visto sua nonna sgomitare, nei confronti del marito, per zittirlo. Benito aveva fatto finta di niente ed era andato via.
Suo padre gli ripeteva continuamente che doveva essere fiero di quel nome, perché era il nome di un grande statista e uomo di alta virtù morale!
Benito assimilava, ma non rielaborava, e impediva alla sua testa di farsi una idea tutta sua di quello che ascoltava. Quello che udiva entrava da un orecchio faceva un giro e usciva dall’altra parte, senza essere minimamente intaccato. In fondo, andava ripetendo da solo, nelle lunghe ore di lavoro nei campi, perché mi dovrebbe interessare sapere chi era questo Benito Mussolini? O perché suo padre lo considerava un abile statista, mentre suo nonno lo scherniva? Lui voleva solo lavorare, andare in giro con gli amici, sposarsi e avere figli! Cosa poteva chiedere di più?
Benito non era come suo fratello Franceschino, sempre con la testa tra le nuvole, incapace di alzare la zappa più di due volte. Erano diversi, troppo diversi. Certo, alcune volte gli invidiava la perspicacia, l’acume nel comprendere frasi che facevano ridere tutti, o quasi. Nonostante avesse quattro anni in meno, era di gran lunga più sveglio, ma lui non poteva farci niente, se non essere invidioso.
Quando qualche volta lo aveva visto ridere complice con sua madre, come due vecchi amici, Benito aveva sentito i morsi allo stomaco per la rabbia. Con lui non succedeva mai. Era pur vero che il suo rapporto con lei era distaccato e freddo, soprattutto da quando aveva cominciato a lavorare ed era diventato uomo in poco tempo.
“Ci sono cose che le femmine non potranno mai fare” gli diceva suo padre, mentre sedevano uno accanto all’altro, sul carretto, lasciando che il mulo tirasse lentamente “il mondo va avanti grazie agli uomini” diceva.
Benito era pienamente d’accordo su quello.
Ripensando a quelli che erano alcuni aspetti della sua esistenza, in quel momento se ne stava seduto, intento a pulirsi gli scarponi dal fango che li aveva inzaccherati fino a i lacci. Il giorno prima aveva piovuto e in campagna era stato disagevole andarci.
La fame, intanto, continuava a mordergli lo stomaco.
In casa c’era silenzio, interrotto di tanto in tanto dai sottili lamenti di dolore di sua madre. Franceschino non era ancora tornato dal forno. Qualcosa da mangiare per loro lo stava preparando la vicina, Concetta. Suo padre era seduto davanti al fuoco spento, con lo sguardo perso nel vuoto.
Benito non sapeva quello che ci fosse nella testa di suo padre, riguardo sua madre. Come sempre si comportava in maniera distaccata nei suoi confronti, quasi fosse arrabbiato perché lei era a letto notte e giorno, ma non ne era sicuro. Era poco credibile che un marito fosse arrabbiato per la malattia di sua moglie. Se mai fosse giunto il momento per lui di sposarsi, Benito non avrebbe mai fatto così con sua moglie, di questo era più che sicuro.
In quel momento entrò in casa Franceschino, di ritorno da lavoro.
– Buonasera – disse, entrando e muovendo spedito verso il letto dove giaceva sua madre, addormentata.
– Buonasera – rispose suo padre.
Benito fece un cenno con il capo e seguì con lo sguardo suo fratello. Lo vide avvicinarsi alla loro madre e darle un bacio leggero. Benito distolse lo sguardo e riprese a ripulire le scarpe con più forza. Dopo quel bacio dolce sua madre aprì lentamente gli occhi e prima ancora forse di focalizzare chi avesse davanti, sorrise.
– Sei tornato, a mamma? – disse lei, con una voce appena udibile.
– Si, mamma – rispose Franceschino, in piedi accanto al letto, mentre sua madre gli accarezzava una mano – come stai?
Benito sentì un moto di rabbia. Come voleva che stesse, non certo bene!
E la punta acuminata del pezzo di canna, costruito appositamente per quello scopo di pulitura delle suole, la infilzava sempre con maggiore decisione, facendo saltare piccoli pezzi di fango che stavano depositandosi per terra, assieme alla polvere naturale del pavimento.
– Sto bene – disse sua madre – mo’ mi alzo, che devo preparare!
Benito vide sua madre fare un gesto nel tentativo di alzarsi, ma prima che qualcuno facesse o dicesse qualcosa, la voce stentorea di suo padre rimise in ordine le cose.
– Rimani a letto – disse, rivolto a sua moglie – ho chiesto a comare Concetta di cucinare per noi – proseguì, ancora senza girarsi – e c’ha fatto anche il piacere di prepararci un po’ di pane!
Benito, nonostante tutto, notò che sua madre, ostinatamente, voleva alzarsi.
– Mi devo alzare per forza – disse lei, con una voce rotta dalla sofferenza – devo preparare io!
Benito si fermò. Perché sua madre era così cocciuta?
– Ti ho detto di rimanere a letto – questa volta suo padre si girò e la fissò, – Franceschino – ordinò – vai dalla comare e vedi se ha preparato!
Franceschino rimase un attimo immobile, a fissare suo padre. Poi sua madre lo toccò leggermente sul braccio e lui scattò, trovandosi fuori in pochi secondi. Sua madre si lasciò nuovamente andare sulla pila di cuscini che aveva come schienale. Poco dopo chiuse gli occhi, stanca per quel piccolo sforzo, quasi avesse lavorato per una giornata intera.

Sua madre era decisamente malata, pensò Benito. Poi riprese a ripulire la suola dei suoi scarponi da lavoro.

Matera, ottobre 1950.

Franceschino camminava con la lunga tavola sulle spalle, fatta apposta per trasportare le pagnotte che sarebbero diventate pane, nel magico forno di Paoluccio. E camminava a un metro da terra, tanta era la sua gioia. Era così felice da non sentire nemmeno la fatica della salita di via D’Addozio. Era felice perché su quella tavola, tra le varie pagnotte, ce n’era anche una fatta con le sue mani! Finalmente era riuscito nel suo intento, impastare e dare forma al pane.
Il giorno prima, appena tornato da lavorare, suo padre gli aveva ordinato di andare a casa della vicina, Concetta, e prendere quel po’ di cibo che aveva preparato loro. Sua madre era completamente debilitata e quando l’aveva baciata delicatamente, l’aveva sentita fredda come la neve d’inverno, nonostante fosse madida di sudore. Non era in grado di far nulla, figurarsi cucinare.
Quando Franceschino era entrato in casa di Concetta, che conosceva tanto quanto la sua. La donna lo aveva accolto con il solito sorriso di sempre e lo aveva fatto sedere. Nel frattempo aveva avvolto in un panno la pignatta con dentro la zuppa per sfamare la sua famiglia.
“Ho messo un po’ di pane duro, cipolle, pomodori e due patate” aveva detto lei, mentre Franceschino era incantato a guardare la pagnotta di pane che lei aveva preparato per loro. Era perfetta e gustosissima, lo sapeva.
Concetta lo aveva destato da quel suo torpore e gli aveva sorriso.
“Ti piacerebbe imparare a fare il pane?” aveva chiesto, all’improvviso, la donna, sussurrando le parole.
Franceschino l’aveva guardata, mentre un nodo alla gola gli aveva tolto per un attimo il respiro. Il cuore gli batteva forte.
Com’era possibile che Concetta infrangesse l’antica consuetudine dei Sassi, dove la donna, in casa, doveva provvedere a plasmare la pasta fatta di acqua, sale farina e lievito?
Franceschino, senza riuscire a proferire parola, aveva osservato anche compare Angelo, il marito di Concetta. Questi era seduto davanti al fuoco, mentre stuzzicava il carbone morente con un attizzatoio e teneva una mozzicone di sigaretta tra le dita della mano libera. Anche lui si era fermato, a quella affermazione di sua moglie. L’aveva guardata, poi aveva guardato per un secondo Franceschino, infine era tornato al suo passatempo, indifferente.
Franceschino aveva detto di si, poi, ricordando le parole di suo padre, aveva titubato. Era troppo intimorito dalle percosse, quasi certe, nel caso lo avesse scoperto. Concetta, ovviamente, aveva intuito. Nonostante tutto aveva voluto rassicurarlo.
“Non lo saprà nessuno” aveva detto “tu vieni qui da me, un’ora prima di andare a lavoro” aveva aggiunto, sapendo che suo padre e suo fratello uscivano di casa, per andare in campagna, ancora prima “io ti insegno come si fa” e aveva sorriso, riempiendo il cuore di Franceschino di una gioia infinita. Lui l’aveva abbracciata con forza e aveva sentito lo stesso affetto di rimando. Poi Concetta si era piegata, all’altezza dei suoi occhi.
“Parlo io con tua madre, lei non farà storie, statti tranquillo!”
Era vero, aveva pensato. Sua madre sarebbe stata sua complice, conoscendo perfettamente il suo sogno.
Franceschino, quella mattina, aveva aspettato irrequieto, nel suo letto, il momento in cui avrebbe lasciato casa per andare da Concetta. Appena suo padre e suo fratello furono usciti, chiudendosi la porta alle spalle, si era alzato, si era vestito, aveva baciato dolcemente sua madre sulla guancia, evitando di svegliarla, ed era uscito in punta di piedi.
Franceschino era entrato, in silenzio, a casa di comare Concetta. Compare Angelo era ancora a letto. Lui lavorava alla fornace di Manicone e Fragasso, dove producevano mattoni. Franceschino ricordava le lamentele di sua moglie, riguardo la salute cagionevole di suo marito, conseguenza delle polveri che respirava a lavoro. Per lui, però, non c’erano grandi alternative. O quello, o niente. Così, compare Angelo, alla sua età, a poco più di cinquant’anni, non poteva permettersi di rimanere senza lavoro, anche se i loro tre figli erano tutti sposati e “sistemati”, come ripeteva felice Concetta.
“Lavati bene le mani” aveva sussurrato Concetta, nella penombra della casa, indicandogli un catino pieno di acqua tiepida, poggiato su di un trespolo. Sulla sedia lì accanto, c’era un vecchio grembiule. Franceschino, senza parlare, lo indicò, per capire se poteva asciugarsi lì.
Poi il rituale era iniziato.
Concetta aveva messo il piano in legno per impastare, sull’unico tavolo della casa, adoperato per mille usi. Poi aveva preso il sacchetto di semola macinata e ne aveva svuotato un bel mucchio al centro dello stesso.
“Comare, come fate a capire quanta semola mettere?” aveva chiesto Franceschino, sottovoce.
“Non ti preoccupare, col tempo impari ad andare a occhio” aveva proseguito lei, a sua volta a bassa voce “ma all’inizio ti conviene misurarla. Per un chilo di pane ci vuole poco meno di un chilo di semola.”
Franceschino aveva memorizzato, continuando a osservare le mani della comare.
Concetta aveva aperto il cumulo di semola al centro, dandogli la forma di un vulcano. Poi aveva preso il bicchiere pieno d’acqua, precedentemente riempito dalla brocca, e lo aveva versato lentamente nel cratere. Franceschino era rimasto affascinato da quanto fossero perfetti quei gesti secolari.
Il silenzio riempiva la casa, interrotto, di tanto in tanto, dai colpi di tosse di compare Angelo in quello che era ormai il suo dormiveglia sul suo giaciglio.
Intanto, fuori, il sole iniziava a farsi vedere.
Quando l’acqua era stata versata tutta, Concetta aveva aggiunto il lievito, preso da una scodella messa nell’angolo della tavola. Poi, con entrambe le mani, aveva raccolto la semola sui lati e l’aveva spinta verso l’interno, sull’acqua e lievito, senza che il liquido fuoriuscisse oltre il ciglio del cratere… neanche una goccia!
Come per magia le due sostanze avevano iniziato a mescolarsi, assumendo una prima forma incerta. Semola e acqua avevano dato a Franceschino l’impressione di non volersi fondere in quel connubio misterioso. Probabilmente non sarebbe successo in natura, senza la magia delle mani e dei gesti di Concetta.
La comare prendeva l’impasto, lo rigirava, lo schiacciava, e poi ricominciava tutto daccapo. Ogni tanto spandeva sul legno, sotto la massa, un po’ di semola, per evitare che l’ammasso si attaccasse al piano. Durante tutto il processo, solo un’altra volta aveva aggiunto dell’altra d’acqua, spiegando che, per il dosaggio, non c’era un quantitativo prestabilito in rapporto alla semola, ma dipendeva da una serie di cose. La stagione, l’umidità e anche dalle mani che impastavano. La regola voleva, però, che se ne mettesse sempre meno del necessario.
“Aggiungerla è sempre possibile, toglierla no!”
Franceschino aveva tenuto a mente anche quello.
Concetta spiegava e lavorava la massa a colpi di polsi. In poco tempo l’ammasso divenne uniforme, fino a diventare liscio e sodo. Quando aveva ritenuto che l’impasto fosse ben compatto, pronto per la lievitazione naturale, si era fermata. Poi aveva posato quel piccolo capolavoro sulla lunga tavola per il trasporto fino al forno. L’aveva posizionata sospesa su due sedie. Poi aveva coperto la pagnotta cruda con un panno.
L’attesa era uno degli ingredienti essenziali per fare un buon pane.
“Adesso vediamo che sai fare tu!” aveva detto Concetta, a Franceschino, sorridente.
Franceschino aveva sentito il morso dell’emozione stringergli lo stomaco, poi si era fatto coraggio e si era messo al posto di Concetta. Nonostante i suoi dodici anni, la tavola era alla giusta altezza, essendo Concetta poco più alta di lui.
Le mani di Franceschino tremavano leggermente, ma Concetta gli aveva sussurrato:
“Se sei nervoso, il pane se ne accorge!”
Franceschino aveva sorriso a quella metafora e aveva cominciato a trovare la giusta calma.
Concetta aveva creato il cumulo di semola e aveva atteso.
Franceschino aveva imitato i suoi gesti e aveva creato il cratere, al centro del cumulo.
“Non farlo troppo grande” aveva consigliato “l’acqua è più forte della semola”.
Franceschino aveva rimpicciolito il cratere. Nel frattempo Concetta gli aveva riempito il bicchiere d’acqua, dicendogli che doveva sempre preparare tutto prima: la semola, il bicchiere d’acqua, la brocca e il lievito.
Franceschino aveva versato l’acqua lentamente, come aveva fatto lei. Con sua grande gioia, quel po’ d’acqua che aveva trovato una scappatoia, oltre il bordo del cumulo di semola, era stata pochissima. Era stato un ottimo risultato. Poi aveva aggiunto il lievito.
Poi il momento più importante, iniziare a mescolare.
“Non devi titubare” gli aveva detto Concetta, sempre più a voce alta “devi essere deciso!”
Franceschino si era concentrato, aveva messo le mani ai lati della semola e aveva iniziato a mescolare con l’acqua, spingendola dai lati, verso l’interno del cratere. Prima che l’acqua sgusciasse via, aveva ripreso l’impasto e aveva rifatto l’operazione, dall’esterno verso l’interno. La massa l’aveva usata per assorbire un rivoletto d’acqua scappato al suo controllo. Neanche una goccia, però, era caduta per terra.
Concetta si era complimentata e gli aveva donato un sorriso materno. Franceschino si era sentito il cuore esplodere di gioia. Ed era andato avanti a colpi di polso.
Nel frattempo, compare Angelo si era alzato e aveva osservato la scena, tra un eccesso di tosse e l’altro.
“Se continui così, ruberai il mestiere al tuo principale!” aveva detto, con i capelli scompigliati e la faccia sconvolta dal sonno recente.
Franceschino aveva sorriso e continuato a impastare. A metà del lavoro i polsi avevano iniziato a dolergli, sapeva, però, che era solo questione di abitudine.
Quando aveva finito si era sentito le braccia pesanti per la spossatezza, ma era immensamente felice. La pagnotta non era perfetta come quella di Concetta, ma la massa si era compattata bene, a detta della donna.
“Ora devi mettere il timbro!”
Franceschino conosceva quel rituale. Quasi tutti avevano un proprio timbro per il pane. Serviva perché ogni pagnotta fosse identificabile, altrimenti, una volta messi in cottura, sarebbe stato impossibile distinguerli. Sua madre ne aveva uno. E lui lo aveva preso in prestito. Era una lettera A, come Arcangela, fatta con tre spighe di grano.
Franceschino si era pulito le mani e aveva tirato fuori quell’oggetto intarsiato nel legno, finemente. Lo aveva guardato con affetto e poi finalmente si era deciso a imprimerlo nella pasta, già avviata alla lievitazione.
Franceschino aveva fissato il suo primo chilo di pane con orgoglio e soddisfazione.
Così, in quel momento, portava in spalla, anche la sua pagnotta, che avrebbe spacciato per una fatta da sua madre.
Entrò nel forno e notò che c’era gente. Doveva passare attraverso una piccola fila di donne, lì per comprare farina o pane, per chi non era in grado di farlo da se.
Tra le donne in fila c’era anche Lucia, detta la tarantina. Franceschino la conosceva perché abitava poche case oltre la sua… ma non solo per quello! Per lui era una delle donne più belle del Sasso e sperava, un giorno, da grande, di conoscere una donna così bella e poterla sposare.
Quando i loro occhi si incrociarono, lui si sentì avvampare di imbarazzo.
– Con permesso! – disse, tutto d’un fiato.
Lucia gli sorrise, facendogli venire le gambe molli dall’emozione.
– Prego!
Franceschino indugiò un secondo, dopo che la giovane donna si scansò. Poi proseguì diritto lì dove si trovavano maestro Paoluccio e l’aiutante, Giuseppe. Poggiò la lunga tavola con le pagnotte sul bancone, sentendosi sollevato, finalmente, dal peso sulla spalla.
– Maestro Paolo – disse Franceschino, al suo padrone – mi raccomando a questa – proseguì, indicando la pagnotta con la lettera A fatta di spighe – è speciale… l’ha fatta mia madre!
Franceschino sorrise. Paoluccio lo guardò, perplesso, senza smettere di lavorare.
– Non ti preoccupare, Franceschino, – disse Paoluccio, fermandosi un istante – tua madre, allora, sta meglio, se ha potuto impastare?
Quella domanda spiazzò completamente Franceschino. In effetti non ci aveva pensato. Paoluccio, come molti altri, conosceva bene le condizioni di salute di sua madre, Franceschino, però, ci teneva a che Paoluccio avesse un occhio di riguardo per la sua pagnotta e si era sbilanciato troppo. Si morse un labbro, prima di rispondere.
– Si, si… – rispose, già voltandosi per andare via – sta meglio!
E scappò, prima che Paoluccio leggesse la verità nei suoi occhi.
Arcangela era debole, persino per alzarsi e mangiare. Era distesa nel letto, quasi immobile, ma con gli occhi aperti fissava tutto quello che accadeva in casa, con estremo interesse. Suo marito Donato e suo figlio Benito erano da poco tornati dalla campagna, Franceschino non ancora dal forno. Vedeva suo marito lustrarsi le scarpe da solo, per il giorno dopo, domenica. Benito era invece seduto a tavola, davanti al piatto vuoto e alla brocca con dentro il vino annacquato. La sua faccia lasciava trapelare tutto il suo appetito famelico, conseguenza naturale della sua giovane età. La minestra di verdure, preparata da sua madre, era pronta da un pezzo, ma non potevano iniziare a mangiare se prima non tornava Franceschino. Questi avrebbe portato il pane.
Arcangela aspettava quel momento con ansia perché la pagnotta che avrebbero mangiato quella sera, l’aveva fatta suo figlio, con le sue mani.
Franceschino era stato bravissimo, le aveva detto comare Concetta, quella mattina, dopo che tutti gli uomini di casa erano usciti a lavorare. La comare era andata da lei per darle un po’ di conforto e spronarla, come sempre a mangiare qualcosa.
Arcangela aveva sentito le lacrime salirle dal petto. Sapeva quanto suo figlio amasse guardarla impastare la massa per farne pane, da sempre. Un giorno, mentre era lì incantato a guardarla, lei gli aveva chiesto cosa gli sarebbe piaciuto fare da grande.
“Fare il pane!”
Arcangela, a quell’affermazione, aveva dapprincipio sorriso, poi aveva visto in lui una determinazione e una convinzione che l’avevano spiazzata. Poi, con il tempo, aveva capito che quello di suo figlio era un desiderio vero, non un capriccio. Lei, però, non osava insegnargli quel mestiere, temeva troppo le ire di suo marito. Lo conosceva bene e il suo pensiero, a riguardo, era assolutamente contrario. Per Donato, le donne dovevano essere relegate a quel ruolo, così era stato e così sarebbe stato nei secoli. Per lui, il mondo, doveva essere immutabile, preferibilmente fermo all’epoca in cui l’Italia era guidata da Mussolini. Non a caso il loro primo figlio aveva voluto chiamarlo Benito, in suo onore, scavalcando persino l’atavica tradizione di chiamarlo come suo padre. Per questa serie di motivi Arcangela aveva dovuto accantonare l’idea di aiutare suo figlio nel realizzare il suo sogno, ma Franceschino no! Lui si fermava sempre a guardarla impastare. Rinunciava persino a giocare con i suoi amici, pur di lasciarsi ipnotizzare da quel lavoro casalingo.
Poi era arrivato il tempo in cui Franceschino doveva smetterla di essere un bambino. Così aveva lasciato la scuola e aveva iniziato a lavorare i campi, assieme a suo padre e suo fratello, questi era già avviato a quel lavoro da due anni, ormai. Arcangela aveva sofferto assieme a suo figlio ogni giorno, quando lo vedeva tornare stremato e dolorante. Dapprincipio aveva pensato che i dolori fossero legati alla stanchezza, ma si era sbagliata.
Un giorno Franceschino era tornato a casa leggermente claudicante, nonostante si sforzasse di nasconderlo. Lei si era spaventata e aveva avuto il giusto presentimento. Così, quando suo figlio si era addormentato, sfinito, mentre suo marito e suo figlio maggiore erano fuori, in attesa della cena, lei, con calma, aveva scostato i pantaloni di Franceschino all’altezza dei reni. Era scesa oltre ed era rimasta pietrificata nel vedere un livido sul gluteo grosso quasi quanto un piatto. Le erano salite le lacrime agli occhi e aveva maledetto suo marito. Quel dolore lo aveva tenuto chiuso dentro di se, fino a che non si era confidata con la sua vicina, Concetta, buona come una madre e comprensiva come un’amica sincera.
“Devi trovargli un altro lavoro” le aveva detto “prima che Donato non lo ammazza di botte!” aveva poi suggerito.
“Si, ma dove?” aveva replicato Arcangela, disperata.
“Ho sentito che Paoluccio ha bisogno di un aiuto, al forno” aveva detto Concetta“o meglio, questo è quello che va ripetendo sua moglie da una vita!” le due donne avevano sorriso “mo’ vedo se ci parlo io con Rocchina e la convinco a prendere a Franceschino a lavorare al forno!”
Rocchina, la moglie di Paoluccio, era imparentata alla lontana con Concetta, ma non era certo quello che avrebbe agevolato la sua vicina, aveva pensato Arcangela. Concetta aveva una capacità di persuasione fuori dal comune. E così era riuscita a convincere Rocchina, per il bene dello stesso maestro Paolo, a far salire di grado Giuseppe, il ragazzo delle consegne, facendolo diventare suo aiutante e badare che il fuoco fosse sempre vivo e a infornare le pagnotte. Franceschino avrebbe preso il suo posto, facendo il ritiro e le consegne casa per casa. Franceschino non era prestante fisicamente, ma per quel lavoro andava bene, era un ragazzo sveglio, avrebbe imparato in fretta e si sarebbe fatto le ossa.
“Però tu devi parlare co’ Donato” le aveva detto Concetta.
Arcangela aveva annuito, cupa. Sapeva non sarebbe stato facile convincerlo, ma aveva ripensato al livido di suo figlio e si era fatta forza.
“Va bene, lo convincerò. Gli dirò che il lavoro in campagna non fa per Franceschino.”
Arcangela, con gli occhi pesanti per la spossatezza, spostò lo sguardo verso il lato del letto dove dormiva suo marito, e fissando il vuoto, riprese a ricordare.
“Ho pensato che forse Franceschino deve fare un altro lavoro” aveva detto Arcangela, a suo marito, insieme a lei nel letto, mentre lui aveva ancora l’affanno, dopo il fugace amplesso amoroso.
“Pensa quello che vuoi. Lui farà il contadino come me e suo fratello!”
“Non va bene per quel lavoro” aveva insistito lei, decisa.
“Si abituerà!”
Arcangela aveva sentito il sangue ribollirle per la rabbia.
“Io dico di no!” Arcangela sapeva di rischiare grosso ad essere così caparbia, ma ne andava di mezzo la vita di suo figlio, quindi proseguì imperterrita “se non trova un altro lavoro, un giorno di questi me lo riporterai a casa morto… per la troppa fatica!”
Arcangela aveva accentuato il tono sulla parola morte. Donato era rimasto in silenzio per un po’. Il fatto che ci stesse pensando era un buon segno.
“E che lavoro deve fare?” aveva chiesto lui, ammorbiditosi “di questi tempi non è facile!”
Arcangela aveva previsto quella risposta. Sapeva che Donato avrebbe fatto leva su problema lavoro, ma lei, ovviamente, era pronta.
“Ho sentito che maestro Paolo, il fornaio, cerca un altro ragazzo per andare in giro a prendere il pane casa per casa!”
“Non c’è già Giuseppe? Il figlio di quel morto di sonno di Luigino?”
Arcangela aveva notato la solita vena d’odio nella voce di suo marito, quando nominava persone contrarie al suo pensiero politico o ideologico. Luigi, padre di Giuseppe, era uno di questi. Uomo di sinistra dalla notte dei tempi e che, durante il periodo fascista, non se l’era passata benissimo.
“Ho saputo che deve dare una mano a Paoluccio davanti al forno!”
Arcangela, nel buio pesto della sua casa, aveva atteso. Poi suo marito si era girato su di un lato e aveva risposto.
“Domani ci penso.”
Per fortuna Donato ci aveva davvero pensato e dopo due giorni aveva decretato che Franceschino non sarebbe andato più in campagna a lavorare, ma al forno di Paoluccio.
Arcangela aveva ringraziato la Madonna della Bruna per quell’aiuto.
Pochi mesi dopo, per una sorta di legge iniqua del contrappasso, la felicità di aver salvato suo figlio dalle grinfie era stata soffocata dall’arrivo della sua malattia. E quando aveva preso coscienza che non avrebbe mai vissuto la sua vecchiaia, il suo primo pensiero era stato ancora per Franceschino. Benito non era una preoccupazione, non perché non lo amasse al pari del suo secondogenito, ma lui era completamente diverso. Era avulso dal mondo e dalla sofferenza insita in esso. Non aveva sogni, ne aspirazioni. Era chiuso nell’universo che la sua testa aveva creato, senza preoccuparsi di nulla. A lui bastava poter lavorare e mangiare, il resto era secondario. Arcangela sapeva che Benito non avrebbe sofferto la sua mancanza più del dovuto. Franceschino, invece, sarebbe morto dentro e poi, cosa ancora più grave, doveva nuovamente fare i conti con suo padre. Con molta probabilità, al primo errore gli avrebbe imposto di non andare più da Paoluccio e di tornare in campagna con lui. E questo voleva solo dire una cosa, morte certa per Franceschino. Ed era stato anche per questo motivo che aveva voluto, in gran segreto, che Concetta insegnasse a suo figlio a fare il pane. Quella poteva essere, per lui, l’unica possibilità di salvezza, imparare davvero un mestiere, con tutti i rischi che comportava, primo fra tutti tenerlo nascosto a Donato.
In quel momento, Franceschino entrò in casa. Arcangela si voltò e gli sorrise. Il volto di suo figlio era radioso. Vide che portava con se una pagnotta di pane.
Era quella fatta con le sue mani.
La sera prima, Arcangela aveva volutamente lasciato in bella mostra il timbro del pane, con la sua iniziale, la lettera A, fatta di spighe. Voleva Franceschino la vedesse e la prendesse furtivamente. Se avesse portato in casa una pagnotta senza sigla, sarebbe apparso strano. Donato non avrebbe avuto da ridire, in fondo, però, era plausibile che Concetta distinguesse il suo pane dal loro mettendo, a ognuno, il proprio timbro di riconoscimento.
Franceschino salutò e poi le andò vicino, per il solito bacio dolce sulla guancia. Arcangela gli accarezzò il voltò e gli sorrise. Per un attimo il dolore in tutto il corpo scomparve.
A interrompere quel momento di serenità fu il ringhiare di Benito.
– Uagliò! – disse con lo stesso tono di suo padre – porta il pane, sono due ore che aspettiamo!
Franceschino si allontanò da lei e poggiò il pane sulla tavola, indifferente ai modi saccenti di suo fratello. Intanto Donato si era alzato, aveva preso la pignatta di sua suocera dal fuoco e l’aveva messa in tavola.
In pochi minuti i tre uomini erano seduti e avevano iniziato a mangiare, lasciando lei a guardarli. Ormai, pensò Arcangela, suo marito non le chiedeva neanche più se avesse fame. L’unico ad aver avuto quell’accortezza era stato Franceschino. Le aveva portato un pezzo del suo pane. Lei lo aveva accettato, nonostante lo stomaco fosse serrato. Lo aveva ringraziato, poi aveva girato lo sguardo dall’altro lato e aveva pianto in silenzio. Lentamente si era portato il tozzo di pane alla bocca e lo aveva mangiato, una briciola per volta.
Era buonissimo.
In quello stesso istante, anche suo marito lo stava assaporando. Con la bocca piena di pane e minestra, espresse il suo giudizio.
– Concetta ha le mani d’oro a preparare il pane! – disse, gustandolo avidamente.
Arcangela si era girata a guardarlo, poi aveva osservato il volto di Franceschino. Il suo capo era chino sul piatto, ma non riusciva a trattenere un accenno di sorriso. Purtroppo, però, Arcangela notò che quello stesso sorriso non era sfuggito a Benito. Pregò con tutto il cuore affinché suo figlio maggiore non desse peso all’atteggiamento di suo fratello minore.
Era passata già una settimana, da quando Franceschino aveva iniziato sgattaiolare fuori casa per far pratica. Concetta sentì il lieve rumore della porta della sua vicina. Quello voleva dire che Franceschino stava per entrare in casa sua, ancora una volta. Il pane non veniva fatto ogni giorno, dipendeva molto dal numero dei componenti il nucleo familiare. Una famiglia numerosa doveva impastare pane ogni giorno, se si aveva la possibilità di farlo. Concetta lo faceva ogni tre giorni, essendo rimasti solo lei e suo marito in casa. I suoi tre figli avevano messo su famiglia e così la sua vicina Arcangela era diventata un nuovo membro della sua famiglia. Concetta, però, con il cuore gonfio di tristezza, la vedeva consumarsi ogni giorno nel suo letto. Il suo corpo era diventato ancora più magro di quanto già non fosse. Il suo cervello, però, era attivo e vigile come sempre. Questo rendeva la sua sofferenza ancora più atroce. Arcangela, più di tutti, sapeva quanto poco le restava da vivere e per amore della sua famiglia aveva rinunciato a una piccola possibilità di salvezza, farsi curare in America.
“Vai solo tu in America” le aveva detto Concetta, un giorno “ti appoggi da tuo fratello!”
Concetta aveva incontrato poche volte Cosimo, il fratello di Arcangela. Un bravo ragazzo, un gran lavoratore, aveva una buona posizione sociale, lì a Nuova York, come dicevano tutti a Matera. Lei non sapeva quanto fosse vero o se si trattasse del solito irreprensibile velo di invidia, racchiusa nella solita frase: si è fatto i soldi! Concetta non condivideva quel tipo di espressioni, a prescindere quanto ci fosse di vero sotto. Quella frase aveva dentro di se un ammasso di ignoranza, foderato di stupidità, pensava lei. In fondo, Cosimo non aveva derubato nessuno, aveva sempre lavorato onestamente, aveva imparato il mestiere di meccanico e adesso aveva una officina tutta sua, questo le aveva detto Arcangela e lei non aveva motivo di non crederci.
Il problema, però, non era Cosimo, o Arcangela, ma Donato. Lui non voleva, o meglio non concepiva che una donna partisse da sola per l’America.
“Allora andateci tutti” si era irritata Concetta “lo capisci che potresti guarire?”
Arcangela non aveva risposto subito. Concetta, però, aveva intuito.
“Per tuo marito è più importante questa cosa… che la vita di sua moglie?” aveva detto Concetta, indignata.
“Non è così semplice!” era stata la vaga risposta di Arcangela, già, allora, con il colorito itterico. Concetta, ancora una volta, aveva capito.
Lei conosceva Donato fin da bambino, era nato e cresciuto in quella stessa casa dove viveva con sua moglie e i suoi due figli. Con loro aveva vissuto anche suo padre, Francesco, fino a qualche anno addietro, prima che morisse. Sua madre, invece, era morta alcuni anni prima del suo matrimonio con Arcangela.
Concetta lo ricordava come un ragazzo chiuso e introverso, così come suo figlio maggiore, Benito. Era un lavoratore instancabile. Il suo cambiamento, piuttosto repentino, era avvenuto quando era entrato a far parte dei giovani Balilla. L’immersione totale nella ideologia fascista, lo aveva completamente trasformato. Così, da adulto, nel pieno rigoglio del regime di Mussolini, Donato era stato uno suoi più fervidi sostenitori, se pur con modi non violenti, ma sicuramente con pensieri piuttosto radicali.
“A quello, Mussolini, gli ha dato alla testa!” ripeteva Angelo, suo marito, quando il Duce era ormai un ricordo e ci si sforzava di dimenticare gli orrori della guerra. Concetta lo zittiva, quasi volendo giustificare quel modo di essere di Donato. Per questi motivi e per tutto il bene che Concetta provava per la famiglia di Arcangela, aveva deciso di aiutarla, insegnando, di nascosto, a Franceschino come impastare il pane, pur sapendo quello cui andava incontro.
Concetta non aveva idea di quello che sarebbe successo, se Donato l’avesse mai scoperto, ma non poteva rifiutarsi, era una cosa troppo importante per la sua vicina.
“Voglio che impari un mestiere” le aveva spiegato Arcangela, quando le aveva chiesto quel favore “e il mestiere di fare il pane è quello che Franceschino mio sogna di fare!”
Concetta le aveva sorriso e accarezzato una mano. Non aveva idea se, nel futuro di Franceschino, il mestiere del fornaio lo avrebbe mai sfamato, ma come diceva suo marito, il mondo stava cambiando e anche in fretta. Concetta non era così lungimirante come lui, ma il suo Angelo difficilmente sbagliava.
Franceschino, ovviamente, non aveva deluso le aspettative di sua madre. Concetta si era stupita di quanto apprendesse in fretta e di come al ragazzo brillassero gli occhi, quando doveva iniziare i preparativi per impastare. Ancor più quando la pagnotta era bella e pronta. Nonostante la giovane età non gli desse ancora la forza e la resistenza per fare della panificazione un mestiere, lui sopperiva in modo eccellente con l’umiltà e l’abnegazione.
Con quelle ultime parole in mente, Concetta vide entrare Franceschino in casa sua, stando bene attento a non fare rumore, per non svegliare suo marito Angelo. Questi non era mai stato disturbato da quelle lezioni clandestine. In parte perché il suo sonno era profondo come quello di un orso in letargo, in parte perché Franceschino era educato e silenzioso, molto più di un adulto.
“Se quello viene qui ad arrabbiarsi con te” aveva detto suo marito, dopo avergli palesato il timore di essere scoperta da Donato “prendo questo” e aveva mostrato l’attizzatoio “e gli spacco quelle corna da fascista che tiene!”
“Zitto… se gridi un altro po’ ti sente!”
“E chi se ne frega!” aveva replicato lui, con il mozzicone tra le labbra.
Lei aveva sorriso e aveva chiuso lì l’argomento. Concetta sapeva quanto, suo marito, avesse in antipatia Donato e tutti quelli come lui che, durante la guerra, si erano gonfiati come pavoni, all’ombra del Littorio e di tutte le sue false speranze. Angelo, in realtà, non aveva uno schieramento politico netto, definito, era piuttosto avulso da quel mondo, ma non tollerava la prepotenza, mascherata da ideologia, la cattiveria in nome di un pensiero, di un credo.
– Buongiorno, comare! – aveva salutato Franceschino, sorridente, a bassa voce.
– Buongiorno! – aveva risposto lei, osservandolo, mentre si affrettava a lavarsi le mani. Poi era andato verso di lei e aveva iniziato quello che adesso era anche il suo rituale.
Concetta era stupefatta da come il ragazzo avesse imparato il dosaggio della semola senza pesarla e di quanto fosse attento. Preparava l’acqua e la brocca in un angolo, poi il lievito e iniziava. Con calma e sicurezza.
Quando una cosa si ama, la si ama dal primo istante, pensò.
Concetta ormai rimaneva solo a guardarlo, fino a che non posava la pagnotta sulla tavola che lui stesso avrebbe trasportato. Una volta ultimata quella che per Franceschino era ogni volta un’opera d’arte, lo timbrava e rimaneva a guardarla, sorridente, proprio come stava facendo in quel momento.
– Franceschino – disse Concetta, andandogli accanto – ma lo sai che sei proprio bravo? – e anche lei aveva fissato la pagnotta del figlio della sua vicina, ormai simile in tutto e per tutto alla sua.
– Grazie comare – replicò lui, poi girò lo sguardo a lei – io e il pane siamo una cosa sola.
Concetta sorrise e ringraziò Dio per aver dato in dono, ad Arcangela, un figlio così amabile.
Franceschino era combattuto tra la gioia per aver imparato a impastare il pane e la tristezza per sua madre. Era da giorni che mangiava pochissimo. In corpo metteva solo un po’ di acqua e un po’ di brodo preparato da comare Concetta, apposta per lei.
Franceschino camminava verso casa, finito di lavorare. Quel giorno il sole non era ancora tramontato e questo voleva dire che suo padre e suo fratello non li avrebbe quasi certamente trovati a casa. La cosa gli stava bene. Quando loro non c’erano, Franceschino poteva stare vicino a sua madre, stringersi a lei e farle sentire quanto le voleva bene, anche senza dire nulla. Per lei non rimaneva molto da fare, anche se nessuno glielo diceva apertamente, lo aveva capito ugualmente.
“Il Signore provvederà!” gli aveva detto Concetta, una delle mattine del pane come le chiamava Franceschino. Finita la frase, la sua vicina si era oscurata in volto.
Franceschino non diceva nulla, ma a volte, pensando a sua madre, piangeva nella solitudine del suo letto, mentre gli altri dormivano. La sua paura peggiore era che, appena sveglio, l’avrebbe trovata nel letto senza respiro, per sempre. Senza di lei, si sentiva perso. Nonostante sua madre passasse gran parte del tempo a letto, tra il sonno della malattia e la veglia fatta di dolore costante, lui sapeva che c’era. Sapeva che, quando non c’era nessun altro in casa, poteva passare un po’ di tempo nel letto, al suo fianco. Non capiva perché suo fratello e suo padre fossero così freddi e distaccati con lei, era come se avessero smesso di volerle bene.
“Ognuno mostra l’affetto a modo suo” gli aveva spiegato Concetta.
Ormai la vicina era la sua confidente, per quel tipo di quesiti. Con sua madre parlava d’altro. Con lei parlava di come era andata la mattinata di lavoro e alcuni pettegolezzi o avvenimenti allegri, accaduti al forno o nei vicinati. Lei sorrideva e spesso, se ne aveva l’energia, faceva qualche domanda, ma a lui importava solo che stesse ad ascoltarlo, anche perché desiderava vederla con gli occhi aperti. Quando li chiudeva aveva paura.
Franceschino aveva anche un altro cruccio per la testa che non gli dava pace: non aveva ancora detto a sua madre il segreto che condivideva con la vicina. La cosa lo faceva quasi star male, ma temeva lei potesse arrabbiarsi.
Nel frattempo era quasi giunto a casa. Da poco aveva superato la fontana in ghisa all’incrocio tra via D’Addozio e via Fiorentini, per poi proseguire lungo quest’ultima. Gli mancava poco ormai.
Negli ultimi periodi, forse per un timore inconscio, pensava spesso al giorno in cui sua madre sarebbe volata in cielo.
Lui cosa avrebbe fatto?
Sperava solo suo padre continuasse a farlo lavorare al forno di Paoluccio, tutto il resto non gli importava. Fin lì tutto bene, sopra di lui, però, aleggiava un altro timore, alquanto fondato. Se suo padre si fosse risposato? Nei Sassi era una cosa naturale. Quando accadeva che un uomo rimaneva vedovo, in una età piuttosto giovane e ancora con figli piccoli, era normale che si risposasse nel giro di pochi mesi, per far si che tornasse l’equilibrio familiare. Al contrario, era meno frequente che una vedova si risposasse, soprattutto se una donna aveva di che vivere. La donna rimaneva più spesso sola.
Franceschino temeva la sua nuova mamma non fosse all’altezza di quella vera, anzi sicuramente non lo sarebbe stata.
E cosa poteva comportare questo?
Non lo sapeva. Non aveva neanche osato chiederlo a Concetta, non voleva provocarle sofferenza facendole pensare a quel triste momento. Franceschino, nonostante tutto, si era ripromesso di non essere maleducato con la donna che suo padre avrebbe risposato, chiunque fosse stata. A lui interessava non smettere di lavorare al forno. Se suo padre gli avesse chiesto di tornare a lavorare in campagna, lui sarebbe scappato di casa, anche a costo di vivere come il brigante Chitaridd’.
Era giunto a casa.
Inspirò e cercò di apparire sorridente e sereno, anche solo per strappare un leggero sorriso a sua madre.
Varcò la soglia di casa e vide, come ormai si aspettava ogni giorno, Concetta, seduta vicino al letto di sua madre. Non appena lo vide la donna si alzò.
Franceschino salutò le due donne, mentre si avvicina alla madia, dove conservò il pane che Paoluccio gli regalava, anche se lui non ne aveva fatto per quel giorno. Forse, quella del suo principale, era pietà, misericordia o semplice affetto nei suoi confronti. A Franceschino interessava poco, perché quel pane era oro in casa sua, considerata la fame insaziabile di suo padre e Benito, dopo una giornata nei campi.
– Beh, comare Arcangela – disse Concetta – visto che è arrivato Franceschino, mo’ me ne vado.
Concetta era solita fare in quel modo. Quando rientrava uno qualunque dei membri della famiglia, lei andava via, senza indugi.
– Grazie assai, comare Concetta – rispose sua madre, con voce tremula.
Franceschino, finito di sistemare il pane, avvolto nel panno, prima, e deposto nella madia, dopo, andò spedito verso il letto. Prima, però, incrociò Concetta. Lei lo fermò e gli parlò, molto vicino all’orecchio, a bassa voce.
– Franceschino – disse – stai vicino a tua madre, capito?
Franceschino fissò la vicina, poi lanciò un’occhiata preoccupata dietro di lei, in direzione di sua madre. Temeva che quella raccomandazione fosse dovuta a un aggravamento del suo stato di salute. Poi vide sua madre sorridergli e la sua mente fugò subito quel timore.
Franceschino fece un cenno di assenso con la testa e lasciò che la comare gli accarezzasse la spalla, in un tenero segno di affetto.
Concetta gli girò attorno e uscì di casa. Franceschino le aveva visto gli occhi lucidi. Sicuramente la situazione di sua madre la faceva soffrire molto.
Franceschino andò vicino all’enorme letto dove dormivano i suoi genitori. Sua madre lo stava guardando con un sorriso. Nonostante il volto smunto e provato, irradiava amore e dolcezza e questo lo faceva star bene. Era come il tepore dei raggi del sole in una gelida mattina d’inverno, ti scaldano il corpo, facendoti rinascere. Senza proferire parola, Franceschino andò a stendersi in un cantuccio di letto, avvolgendosi a lei in una fusione d’affetto. Franceschino, sul corpo di sua madre, non sentiva più la morbidezza di un tempo, quando si accucciava in quel modo, ma non gli importava. In quel momento si sentiva come la semola con l’acqua, uniti insieme a creare una cosa sola.
Nessuno disse nulla, lei perché priva di energie, lui perché non voleva far capire che stava piangendo in silenzio. Sua madre gli cinse le spalle, tirandolo più a sé che poté.
“Se Gesù mi vuole davvero bene” pensò Franceschino “non deve prendersi mia madre.”
Gesù ascoltava spesso i bambini come lui, ma non sempre.
Franceschino sentiva il suo respiro regolare e il battito del suo cuore. Poi lei parlò, facendo echeggiare la voce nel suo torace.
– Concetta me lo ha detto…
Franceschino sentì lo stomaco chiudersi. In fondo sapeva che prima o poi l’avrebbe saputo, se non da lui sicuramente da Concetta. Le due si confidavano tutto, scambiandosi pareri e consigli reciproci. Non si mosse nessuno dei due.
– Ti dispiace, mamma?
Quella domanda era nata spontanea dentro di lui e in attesa della risposta rimase con il fiato sospeso.
– Oh no… – si affrettò a dire lei, cercando il suo sguardo – so che è una cosa che ti piace fare – poi si fermò per un secondo – ma… questa cosa, tuo padre non la deve sapere, capito?
Franceschino lesse negli occhi di sua madre lo stesso terrore che probabilmente aveva lui quando suo padre lo picchiava, incrociando i suoi occhi rossi di rabbia furibonda.
– Si… va bene! – Franceschino accennò un sorriso di complicità, trovando quello di sua madre.
Poi si rifugiò nuovamente nell’incavo della sua spalla e rimase per un tempo lunghissimo. Sperava di poter rimanere così per sempre.
Concetta guardava estasiata il giovane Franceschino lavorare la massa con una disinvoltura e un maestria unica. Sorrise.
Era felice per lui. Adesso aveva un mestiere per la mani, sperava solo che suo padre non intralciasse quel sogno, realizzato con la complicità di sua madre. Concetta sapeva che la sua amata vicina ormai aveva i giorni contati e quel piccolo segreto che condivideva con lei era l’unica gioia che le restava, prima di morire. Nessuno poteva sapere quale futuro attendeva Franceschino, dopo che sua madre lo avrebbe lasciato, ma lei si augurava con tutto il cuore che non seguisse le orme di Donato e Benito. Ed era proprio di quest’ultimo che Concetta aveva più paura…

… Benito, infatti, in quel preciso istante, era uscito di casa in maniera furtiva, dopo essersi accorto che suo fratello aveva fatto altrettanto, approfittando del fatto che tutti ancora dormivano. Quel giorno, lui e suo padre, non sarebbero andati in campagna. La pioggia del giorno prima aveva reso le terre un pantano e i loro terreni sarebbero stati impraticabili per alcuni giorni. Benito, però, sapeva che suo fratello non doveva andare a lavoro così presto, o quanto meno aspettava sempre l’alba. Così si era insospettito e aveva atteso immobile che uscisse. Poi si era infilato pantaloni e scarpe ed era andato verso la porta. L’aveva aperta lentamente e aveva sbirciato.
Nella penombra della luna e dei lampioni su via Fiorentini, notò che Franceschino non si allontanava affatto verso il forno di Paoluccio, ma entrava, con fare misterioso, in casa della loro vicina, Concetta.
“Che ci va a fare dalla comare, a quest’ora del mattino?” si era domandato Benito, ancora fermo dietro la porta di casa sua.
Una risposta non ce l’aveva e senza indugiare oltre a cercarla, era uscito a sua volta e aveva percorso quel breve tratto di strada dov’era passato suo fratello, alcuni secondi prima. Benito si era abbassato preventivamente e si era avvicinato alla porta. Franceschino non l’aveva chiusa del tutto, lasciandola socchiusa, probabilmente per non far rumore o per far si che l’umidità della pioggia non ristagnasse dentro casa.
Benito si era fermato e aveva atteso, con il cuore in gola. Non voleva essere scoperto in flagrante, per non fare la figura dello stupido. Così era rimasto in ascolto.
Comare Concetta e suo fratello parlavano sottovoce, probabilmente per non disturbare il sonno di compare Angelo. La prima cosa che aveva udito era suo fratello che ripeteva a Concetta, quasi degli ordini da eseguire.
– … prendere la tavola, poi la semola, il lievito e l’acqua…
Benito si incuriosì. Sembrava stesse ripetendo a memoria una litania imparata a memoria.
– Bravo – aveva risposto la donna, dall’interno.
– Bisogna avere sempre tutto a portata di mano! – aveva detto Franceschino, con la sua voce carica di soddisfazione.
– Si… perché la massa non aspetta a te, se ti sei scordato qualcosa – Concetta aveva sorriso.
Poi, per un po’, c’era stato silenzio.
Benito non capiva ancora cosa stesse succedendo là dentro, aveva bisogno di spiare all’interno, per sedare la sua curiosità. Era pericoloso, ma voleva a tutti i costi scoprire il segreto che nascondeva suo fratello.
Benito si mosse lentamente, allontanandosi dal muro. Poi si inginocchiò e prese a muoversi carponi. La porta di casa di Concetta aveva delle piccole finestre e, se non si fosse inginocchiato, lo avrebbero visto.
Giunse davanti al piccolo spiraglio della porta aperta e guardò all’interno.
C’era una lampada a gas messa sul camino, nonostante Concetta avesse la corrente dentro casa. Anche quella era un’altra accortezza per non svegliare compare Angelo, quasi certamente.
La luce incerta di quell’oggetto, ogni giorno più in disuso, illuminava una tavola per impastare, poggiata sull’unico tavolo presente in casa. Su di essa c’era una brocca d’acqua, un sacchetto di carta, di quelli per conservare la farina e un ciotola di argilla.
Da quella angolazione, però, Benito non riusciva a vedere altro. Doveva spostarsi e rischiare qualcosa in più. Con molta probabilità se suo fratello o Concetta, fossero stati in piedi di fronte la porta, lo avrebbero visto. L’unica sua speranza era che gli dessero le spalle, o fossero di lato, rispetto a lui.
Benito si sporse ancora un po’ in avanti e sbirciò. I due erano quasi di spalle alla porta, così poté vedere bene e quello che vide lo lasciò sconcertato.
Franceschino stava impastando la massa per fare il pane con le sue mani, mentre la comare era in piedi, accanto a lui, sorridente.
Benito deglutì a stento, tanta era la tensione e il disgusto per quello che gli si parava davanti agli occhi.
“Mio fratello fa le cose da femmina!” pensò, sconfortato.
– Franceschino, hai proprio ragione – disse in quel momento Concetta – tu e il pane siete una cosa sola!
Benito vide suo fratello sorridere per quel complimento, senza smettere di lavorare pazientemente la massa, con gli stessi identici gesti della loro madre.
– Grazie comare – replicò Franceschino – anche se devo stare attento! – proseguì, mentre aggiungeva un altro po’ d’acqua all’impasto – se mio padre scopre ‘sta cosa, mi prende a calci!
Benito sentì una fitta allo stomaco. Quello che stava dicendo Franceschino era vero e condivideva a pieno. Per un attimo fu tentato di entrare in casa di Concetta, prendere suo fratello per un braccio e riportarlo dentro a pedate, ma non era compito suo.
– E perché? – chiese Concetta, perdendo un secondo il sorriso.
– Perché dice che sono cose di femmine!
I due sorrisero, complici, facendo ingarbugliare le budella di Benito.
“Mio fratello ha bisogno di una lezione” pensò in quel momento.
Poi, con fare felino, indietreggiò lentamente e tornò a mettersi spalle al muro. Attese un po’ per avere la certezza di non essere stato scoperto.
Era disgustoso quello che aveva visto! Benito adesso poteva collegare il tutto anche alla scarsa capacità di suo fratello di imparare il mestiere del contadino. Era tutto chiaro, non aveva nulla di maschile, se non il corpo.
“Oh mio Dio!”
Benito si portò una mano alla fronte. Era anche per quello che suo padre picchiava spesso suo fratello, lui odiava gli uomini che facevano le femminucce.
“Persone così dovrebbero essere curate, o bandite!” gli aveva detto una volta suo padre, mentre tornavano a casa, dai campi.
Benito non aveva replicato, ma aveva fatto tesoro di quel pensiero che aveva reputato giusto, come sempre. Era quello il motivo per cui suo padre non riusciva ad amare Franceschino come lui.
Benito non l’aveva capito, ma suo padre lo aveva intuito da subito, con il suo acume nulla poteva sfuggirgli. Così aveva cercato in tutti i modi di aiutare Franceschino a guarire, portandolo in campagna per imparare a lavorare la terra e procurarsi i calli alle mani. Imparare un lavoro che solo gli uomini potevano e sapevano fare. Quel suo tentativo, però, era sfumato. Lì c’era stato l’intervento di sua madre, la quale aveva convinto suo padre a lasciare che Franceschino andasse a lavorare come aiutante del fornaio Paoluccio. Sicuramente per salvarlo dalla rabbia di suo marito, ma anche per lasciare che suo figlio assecondasse la sua vera natura.
Benito aveva anche collegato a quello tutte le volte che suo fratello era rimasto incantato a osservare sua madre impastare il pane, invece di giocare con i suoi coetanei, fuori, all’aria aperta.
Benito era sconvolto. Quindi decise di rientrare e rimettersi a letto, facendo finta di niente, almeno fino al mattino.
Era deciso, ne avrebbe parlato con suo padre, bisognava trovare una soluzione al problema di suo fratello.
Benito rientrò in casa sua, richiuse la porta silenziosamente e sgattaiolò nuovamente nel letto, senza però riuscire a prendere più sonno.
Donato era seduto a tavola e aveva i nervi a fior di pelle. Sentiva il forte desiderio di sferrare un pugno alla tavola, davanti la quale era seduto, con tutta la sua forza, se fosse servito a qualcosa. Neanche quel gesto, però, avrebbe attenuato la rabbia e non avrebbe risolto il suo problema.
Quella mattina, lui e suo figlio Benito, non erano andati in campagna. Con la pioggia del giorno prima il terreno era zuppo. Così aveva deciso di dare una sistemata ai suoi attrezzi da lavoro. Benito era rimasto con lui, ma era rimasto silenzioso per tutto il tempo, con lo sguardo accigliato. Donato, pur avendolo notato, non ci aveva dato peso, ne tanto meno si sognava di chiedere a suo figlio cosa avesse. Sapeva già che la sua risposta sarebbe stata evasiva. Probabilmente stava vivendo un periodo della sua vita di ragazzo, in cui anche il problema più banale veniva ingigantito.
Benito, però, non aveva alcun problema da ragazzo. Infatti, non appena Arcangela si era assopita profondamente, come faceva ormai per gran parte del tempo, suo figlio aveva parlato.
“Papà” aveva detto a bassa voce, cercando di assumere un tono da adulto, senza riuscirci “oggi ho visto Franceschino uscire da casa, prima di fare giorno!”
Donato si era fermato dall’affilare la lama della zappa e aveva fissato suo figlio, ma non aveva proferito parola.
“E’ andato a casa di comare Concetta!”
Benito aveva detto quella frase e il suo volto aveva assunto uno sguardo carico di odio. Donato aveva fissato il vuoto, lontano. Mille pensieri avevano cominciato ad affollarsi nella sua testa.
Che diavolo ci andava a fare, suo figlio Franceschino, a casa di Concetta, prima di andare a lavorare?
La risposta era arrivata subito.
“Franceschino va lì per impastare il pane!”
Una sensazione dolorosa aveva avvolto le budella di Donato, come se una mano le avesse prese e le avesse strinte con forza! La mandibola si era serrata, volendo urlare di rabbia, ma aveva ingoiato tutto, ripromettendosi di ricordare quel momento quando sarebbe servito.
Suo figlio Franceschino non si era mostrato all’altezza del lavoro nei campi e poi veniva a scoprire che amava fare cose da femmine! Donato si era sentito avvampare dalla vergogna.
E se la gente avesse saputo?
Nei Sassi una voce faceva il giro dei vicinati più velocemente di una folata di vento. Donato aveva immaginato gli uomini parlare alle sue spalle, al suo passaggio. Sogghignare perché lui aveva un figlio maschio che si comportava da femmina!
“Maledizione!” aveva sibilato a denti stretti.
Dopo quella rivelazione di Benito, tutto era apparso più chiaro, di colpo.
Franceschino che non amava i lavori da uomini. Franceschino che non giocava mai con i suoi coetanei. Franceschino che rimaneva incantato a guardare sua madre impastare il pane. Franceschino che stava sempre solo!
Perché non gli era stato tutto più chiaro subito?
“Stasera devo fare due chiacchiere con tuo fratello” aveva detto. Poi aveva ripreso sfregare la pietra.
Per tutto il giorno non aveva fatto altro che pensare e ripensare a suo figlio diverso dagli altri e questo non aveva fatto altro che alimentare la sua folle rabbia.
In quel momento, quella stessa rabbia della mattina era riaffiorata poco alla volta, mentre attendeva il ritorno di suo figlio dal forno.
Benito era seduto di fronte a lui, con lo sguardo tronfio. Sua moglie arrancava, mentre apparecchiava la tavola. Donato non aveva voglia di rivolgere la parola neanche a lei, per dirle di rimanere a letto. Quando lui e Benito erano arrivati, l’aveva vista muoversi per casa, ma l’aveva lasciata fare, anche perché, in alternativa, non avrebbero mangiato.
In quell’istante entrò in casa Franceschino. Donato non si mosse. Notò lo sguardo di suo figlio Benito, in direzione di suo fratello, poi sua. Attendeva che lui parlasse.
Franceschino salutò in maniera fugace e, dopo aver poggiato il pane sul tavolo, corse subito da sua madre.
Arcangela, in quel momento, si era fermata, poggiandosi al muro e tenendosi il ventre.
– Mamma, vai a letto – disse Franceschino.
Quella frase, per Donato, ebbe lo stesso effetto delle puntura di uno spillo. Rimase ancora immobile, senza voltarsi.
– Non ti preoccupare, a mamma, mi sento meglio! – disse Arcangela, non riuscendo a nascondere con le parole la menzogna.
Benito stava osservando la scena, ma non mosse un dito.
– Qui ce la vediamo noi! – aggiunse Franceschino.
In quel momento Donato sentì di dover parlare. Rabbrividiva al pensiero che suo figlio facesse i lavori di casa, al posto di sua madre.
– Le cose di casa… sono cose di femmine – disse, brusco – come pure impastare il pane, non è vero Franceschino?
Donato non si era voltato ancora. Arcangela e Franceschino, passandogli accanto, diretti al letto dove lei avrebbe riposato, si fermarono, pietrificati. Donato notò lo sguardo di suo figlio Franceschino, perso nel vuoto della paura. Lei, invece, lo stava fissando.
– Lascialo stare – disse Arcangela, con voce ferma.
Donato si alzò e si avvicinò. Franceschino non aveva il coraggio di ricambiare lo sguardo. Madre e figlio arrivarono in prossimità del letto, ma Arcangela non si stese.
– Io non ho figlie femmine – continuò a dire Donato, sentendo la rabbia salirgli alla testa – ringraziando il Signore – per un attimo guardò sua moglie – e lui deve fare le cose che fanno i maschi!
Arcangela resse lo sguardo. Il suo volto era una continua smorfia di dolore.
– Ti… ho detto… lascialo stare – sua moglie aveva urlato, per quello che le riusciva. Se ne avesse avuto le forze, si sarebbe parata tra padre e figlio, Donato ne era certo. Lui fece un passo verso Franceschino e questi si decise a fissarlo, ma indietreggiava, impaurito.
– Io non voglio che mio figlio faccia cose da femmine – disse a denti stretti – che cosa deve dire la gente?
Franceschino retrocedeva. Donato avanzava.
– Papà… – disse inaspettatamente Franceschino, trovando un coraggio improvviso – non mi interessa quello che dice la gente!
Quella frase era inaccettabile.
– A me invece si! – Donato strinse i denti, scricchiolarono – e se vengo a sapere che hai di nuovo impastato il pane… ti lascio morto a terra!
Franceschino lanciò uno sguardo a sua madre, sofferente a tal punto da non riuscire a dire nulla.
Poi guardò lui.
Tutto era fermo, sospeso.
Franceschino, all’improvviso, si rinvigorì. Il suo sguardo cambiò di colpo. In quel preciso istante smise di avere paura. Donato se ne avvide e strinse il pugno destro.
– Però il pane che ho impastato io… te lo sei frecato! – urlò Franceschino.
Donato, senza riuscire a controllare più la sua ira, colpì suo figlio in pieno volto con un mal rovescio. Franceschino fu letteralmente sbalzato indietro, cadendo per terra.
– Non lo toccare! – urlò Arcangela, piegata in due dal dolore.
Donato notò che, in pochi istante, il labbro inferiore di suo figlio si era macchiato di rosso, lacerato. Donato lo vide passarsi una mano sulla bocca, sporcandosela con il suo stesso sangue. Poi sfidò il suo sguardo e lo fissò.
Franceschino non lo temeva più.
Donato sentì che, in quel momento, poteva commettere una pazzia e uccidere il suo stesso figlio, ma questo non lo fermò ugualmente. Con la coda dell’occhio vide il movimento incerto di sua moglie, verso di lui… anche questo non lo fermò.
– Lascialo stare! – urlò Arcangela.
Donato si piegò su suo figlio. Questi, ancora seduto per terra, indietreggiò, aiutandosi con i piedi e con le mani. Donato, nello stesso istante in cui alzò la mano per colpire ancora, le sue nocche colpirono Arcangela in pieno volto. La sentì cadere, dopo aver urlato di dolore. Donato non sentì nulla. Non se ne curò e colpì Franceschino con un altro schiaffo in pieno volto. Il ragazzo si decise a difendersi, alzando le braccia a protezione dei suoi lineamenti.
– Lascialo stare! – urlò ancora Arcangela, con una voce rotta dal pianto e dalla disperazione.
Donato colpì alla cieca. La sua mano dura colpì le braccia, il corpo, il volto, la testa, senza alcuna pietà.
– Lascialo… stare… – diceva, sofferente sua moglie – aiuta tuo fratello, disgraziato – aveva poi urlato in direzione di Benito – la… scia… lo… stare!
Arcangela non si muoveva, impossibilitata dalla malattia. Benito sembrava provare gusto in tutto quello che stava accadendo. Donato sentiva la rabbia guidarlo e dargli una forza maggiore di quella che Dio gli aveva dato.
Franceschino si era rannicchiato su se stesso e subiva senza emettere un fiato o chiedere una supplica. Donato odiava quel modo di sfidarlo e colpì finché non ebbe il fiato corto e la mano non iniziò a dolergli.
– Maledetto a te… – disse Arcangela, senza più un grammo di energia.
Donato si raddrizzò e guardò suo figlio. Ogni parte del corpo scoperta, presentava macchie rosse e presto sarebbero diventate nere. C’era sangue sulle labbra e sopra l’occhio sinistro.
Franceschino rimase immobile, guardandolo. Con il dorso della mano si pulì la bocca e senza fiatare si alzò. Emettendo un grugnito di dolore. Donato lo seguì con lo sguardo e lo vide piegarsi su sua madre, stesa per terra dal dolore, incapace persino di parlare.
Franceschino l’aiutò a mettersi a letto.
– Mi vergogno io per te! – disse Arcangela, con un filo di voce, guardando suo marito. Donato distolse lo sguardo da lei, poi andò a sedere davanti al fuoco, con il fiato corto.
Arcangela, seduta sul letto, dolorante, prese il volto di Franceschino tra le mani.
– Fammi vedere a mamma.
– Non è niente… – le disse. Poi, senza dire altro, Franceschino si allontanò verso la porta e uscì.
– Aspetta, dove vai? – riuscì a urlare Arcangela, senza trovare la forza di alzarsi. Poi scoppiò in lacrime.
Donato non si mosse ancora, sentendo il suo cuore battere ancora all’impazzata. Guardò suo figlio Benito e lo vide fissare il vuoto come un ebete.
– Perché? Perché? – andava ripetendo Arcangela, tra le lacrime di dolore.
“Adesso spero abbia capito!” pensò Donato.
Poi guardò in direzione di sua moglie, si augurò si riprendesse o quel giorno sarebbe stato costretto a digiunare. Non aveva alcuna intenzione di chiedere alcun favore a Concetta, dopo quello che gli aveva fatto. Ne a lei, ne a nessun altro.
Donato rimase a fissare il vuoto a lungo.
Concetta aveva saputo, ed era avvilita.
La sera prima aveva sentito urlare la sua vicina Arcangela e si era allarmata, pensando al peggio. Era decisa ad andare a sincerarsi dell’accaduto, suo marito, però, l’aveva fermata.
“Non andare” aveva detto.
Il suo sguardo tradiva preoccupazione. Concetta aveva intuito e lui le aveva spiegato.
“Donato ha saputo tutto, glielo ha detto quel fesso di Benito!”
Concetta aveva notato l’odio negli occhi di suo marito, quando aveva pronunciato il nome di Benito. Non poteva dargli torto. Quel ragazzo non le era mai sembrato completamente a posto con la testa. Parte delle colpe erano di suo padre. Benito subiva quotidianamente il plagio di quell’uomo. Questi gli inculcava nozioni ferme al ventennio fascista.
“Quando hanno ucciso a Mussolini” le aveva detto un giorno suo marito “lui ha pianto il morto!”
Concetta era rabbrividita a quella affermazione, purtroppo vera.
“E che farà secondo te?” aveva chiesto Concetta, preoccupata per la sua amica e per suo figlio Franceschino.
In un certo senso si sentiva parte in causa e per un attimo aveva temuto che Donato, nella sua furia cieca, sfogasse la sua rabbia anche su di loro. Angelo, però, l’aveva rassicurata. Non avrebbe permesso che quello sporco fascista entrasse in casa sua a dettare legge, o peggio ancora. Se mai fosse successo, prima gli avrebbe spaccato la zucca che aveva al posto della testa e poi sarebbe andato alla polizia.
Concetta, comunque, non si era data pace. Era rimasta tutto il tempo in attesa, il suo respiro si era fermato assieme al tempo, seduta dietro la porta di casa. Fino a che tutto sembrava essere finito, di colpo.
Poi aveva visto Franceschino passare davanti casa sua. Lei era scattata in piedi, con l’intento di andargli incontro, ma suo marito le aveva nuovamente impedito di muoversi.
Franceschino aveva il volto tumefatto e a ogni passo si deformava per la sofferenza.
Concetta si era portata una mano alla bocca e aveva pianto. Franceschino aveva tirato dritto, probabilmente diretto alla fontana.
Quel ricordo triste lo aveva davanti agli occhi, mentre si recava al forno di Paoluccio a ritirare il suo pane. Fino al giorno prima quello era stato un compito di Franceschino, adesso non più.
Subito dopo aver visto passare il povero Franceschino davanti casa sua, Concetta aveva ascoltato il consiglio di suo marito: non farsi vedere da Donato, era meglio rimanerne fuori. Passata mezz’ora, però, lei non aveva saputo resistere. Così aveva superato la paura ed era uscita, chiudendo la porta sulle placide proteste di suo marito.
Concetta aveva trovato Franceschino seduto accanto alla fontana in ghisa. Era lì, immobile, e fissava il vuoto. Il volto era cereo e umido dell’acqua che aveva usato per lavare via il sangue. Quando gli si era avvicinato, lui non si era mosso.
“Non potrò più andare al forno, eh comare?” aveva detto, senza vederla.
Nella sua voce, Concetta aveva sentito tutta la disperazione che solo la certezza di un sogno infranto poteva trasmettere. Poi aveva preso il fazzoletto dalla tasca del suo grembiule, lo aveva inumidito all’acqua e si era piegata verso di lui. Finalmente i loro occhi si erano incontrati. Concetta non aveva risposto subito alla domanda. Con la punta bagnata del fazzoletto gli aveva tamponato il sangue sul labbro inferiore. Franceschino aveva fatto una smorfia, sofferente.
“Non credo tuo padre vorrà” gli aveva detto, continuando nella sua opera pia. Poi, guardando il suo volto gonfio, aveva sentito il desiderio di piangere e abbracciare quel ragazzo innocente. La sua unica colpa, aveva pensato, era quella di avere un sogno.
Franceschino aveva abbassato lo sguardo, triste. Sapeva qual’era il suo futuro, adesso. Sotto il sole, dalla mattina alla sera, a lavorare la terra, assieme a suo padre e suo fratello.
“Io non voglio andare a lavorare in campagna” aveva detto.
“Lo so, ma cerca di avere pazienza” Concetta si era seduta accanto a lui e aveva guardato in alto, la torre, poi il muro di cinta, infine la Cattedrale. In quel momento aveva tanto desiderato possedere le parole giuste da dirgli, conoscere il futuro di Franceschino, per dirgli di non preoccuparsi di niente, ma non aveva niente di tutto questo, solo il suo affetto.
“Le cose, prima o poi, si aggiusteranno!” era l’unica cosa sensata che era uscita dalla sua bocca.
Franceschino non aveva risposto. Lei aveva guardato il suo profilo deformato dal gonfiore e aveva notato che nei suoi occhi non c’era rassegnazione. E questo non era positivo. Voleva dire altri guai con suo padre.
Intanto la sera era calata anche su di loro.
“Adesso è meglio tornare casa” gli aveva detto “mamma tua si potrebbe preoccupare!”
Franceschino l’aveva guardata, aveva indugiato, infine si era alzato. Non aveva alternative e lo sapeva.
Prima di arrivare a destinazione, Concetta si era offerta di invitarlo a mangiare qualcosa a casa sua, ma lui aveva rifiutato. Quindi si erano salutati cordialmente e lei lo aveva visto rientrare nella sua dimora, a capo chino, con tutta la tristezza del mondo sulle spalle.
Concetta era appena giunta davanti il forno di Paoluccio. Questi, con il suo corpo smilzo, fatto solo di muscoli e nervi, era fermo davanti la porta, mani sui fianchi. Non era insolito vederlo così, soprattutto adesso che aveva Giuseppe come aiutante. Questo gli permetteva di godere un po’ dell’aria esterna, decisamente meno calda di quella interna.
– Buongiorno, Paoluccio – Concetta lo salutò, muovendo verso l’interno.
– Buongiorno – ricambiò, con tono mesto.
Concetta notò che lo sguardo del fornaio era lontano. Lei guardò nella stessa direzione ed ebbe un tuffo al cuore. Su di un carretto stava passando Franceschino. Era seduto all’interno di quel mezzo di trasporto così arcaico. Alla guida suo padre e suo fratello, seduti a cassetta. Il mulo arrancava nel tirare, sull’acciottolato di via D’Addozio. Persino da quella distanza, Concetta, notò con sgomento il volto pieno di lividi del povero figlio di Arcangela. Il suo sguardo spento. Franceschino, per un attimo, guardò nella loro direzione, quasi stesse chiedendo perdono. Poi chinò il capo e il carretto si allontanò.
Concetta voleva urlare la sua rabbia, ma si limitò a sospirare, prima di parlare.
– Non penso verrà più a lavorare per te, quel povero ragazzo – disse, rivolta a Paoluccio, senza voltarsi.
Concetta era certa lui sapesse. Probabilmente Giuseppe lo aveva messo al corrente di quello che era accaduto al suo aiutante.
– Peccato – replicò il fornaio – era un gran lavoratore e aveva le mani calde!
Concetta ripensò a Franceschino che impastava il pane. Era vero, sapeva impastare davvero bene, tanto quanto lei, ormai!
– E che devi fare?

Concetta rivolse più a se stessa quella frase di rassegnazione. Poi entrò nel forno, senza aggiungere altro.

Matera, novembre 1950.

Franceschino era appena rientrato dalla campagna. Il suo corpo era un dolore unico, dopo una giornata nei campi, ma quello passava. Il dolore che sentiva dentro sapeva non gli sarebbe passato presto, forse mai.
Era già passata una settimana, da quando era tornato a fare il contadino, contro la sua volontà. Tra lui, suo padre e suo fratello, le parole scambiate, lungo l’arco della giornata, si potevano contare sulle dita di una mano. Franceschino sentiva di odiare suo padre, e su questo non aveva più dubbi. Per suo fratello, invece, provava solo pena, ma in fondo lo capiva, quello di spifferare tutto, sul suo conto, era l’unico modo che conosceva per entrare nelle grazie del loro padre. E c’era riuscito.
Mentre lavoravano in campagna, Franceschino li vedeva essere complici, come vecchi commilitoni. Lui rimaneva in disparte, non volendo avere più nulla a che fare con nessuno dei due. I colpi ricevuti dalle mani di suo padre facevano ancora male, ma non sulla pelle. Il suo timore più grande era che non sarebbe mai riuscito a perdonare quello che suo padre gli aveva fatto. Lo aveva privato di un sogno, aveva estirpato in lui l’unica possibilità di riscatto dal suo mondo miserabile. Franceschino aveva un lavoro tra le mani, fare il pane ed era un vero talento, ma per suo padre… erano cose di femmine!
Franceschino era in casa. Suo fratello era rimasto in strada, con alcuni suoi amici. Suo padre era entrato, aveva portato il mulo nel suo angolo della casa, poi si era seduto fuori, all’aria fredda dei primi di novembre. Da giorni, ormai, si era rassegnato a che sua moglie non preparasse più nulla da mangiare. Concetta era stata bandita, così si era ripiegato su sua nonna materna.
Franceschino sapeva che nonna Giuseppina veniva a trovare sua figlia di mattina, quando era sola in casa. L’aiutava ad alzarsi e a lavarsi. Con le sue tante primavere sulle spalle, aveva imparato che rimanere troppo a letto procurava piaghe su tutto il corpo, e le conseguenze del decubito uccidevano prima della malattia stessa. Sua madre, di contro, si sforzava di camminare. Poi sua nonna preparava qualcosa per loro, il pane, alcune verdure e quello che suo padre gli lasciava la sera prima, frutto del suo stesso lavoro. Donato, se poteva, evitava di incontrare anche nonna Giuseppina. Franceschino non sapeva se sua nonna era o meno a conoscenza dell’accaduto di una settimana prima, ma la nonna non era stupida. Se non aveva saputo per bocca di sua madre, aveva di sicuro intuito. Per quel motivo, Franceschino, preferiva non incontrarla più del dovuto. Non voleva piangere davanti a lei, al ricordo di quello che aveva dovuto subire. Non voleva darle altri problemi. Vedeva nello sguardo di sua nonna la tristezza per la malattia di sua figlia, ormai nelle mani di Dio.
Così, in quel momento, la pignatta era sul fuoco spento e il pane era già in tavola. Di lì a poco sua nonna sarebbe entrata in casa e avrebbe fatto le veci di sua figlia.
Franceschino lasciò la bisaccia nell’angolo della casa, vicino il mulo.
Quando aveva varcato la soglia aveva notato che sua madre dormiva. Non si era destata neanche quando il mulo aveva nitrito, scendendo i tre gradini oltre la porta. Franceschino non sapeva più che preghiere dire, a quale santo votarsi. Per sua madre sembrava tutto inutile. Così, adesso, era seduto sulla sedia posta accanto al letto dei suoi genitori. L’aveva girata, ponendosi di fronte a lei. Era rimasto a guardarla senza svegliarla. Il suo volto, mentre dormiva, sembrava sereno. Franceschino sperava di portare nei suoi ricordi sempre quella immagine.
Lentamente l’aveva vista destarsi e, vedendolo, gli aveva sorriso. Poi aveva teso la mano e lo aveva invitato ad avvicinarsi. Franceschino lo aveva fatto, sedendo sul bordo del letto, accanto a lei. Sua madre lo accarezzò, sfiorando dolcemente lì dove c’erano gli ultimi segni delle percosse di suo padre. Sembrava volesse rimarginarle con il suo tocco. Dentro di lui avrebbe tanto voluto fosse così.
– Franceschino – disse lei, con un filo di voce – mi devi promettere una cosa…
Franceschino le si fece più vicino, non volendo si sforzasse.
– Che cosa, mamma? – aveva chiesto lui, a mezzo tono. Non voleva la sua voce giungesse fino alla porta.
Sua madre prese fiato. Ormai anche parlare era faticoso per lei.
– Che… – si fermò un istante – che quando sarò morta… te ne andrai da Matera!
Franceschino sentì un nodo salirgli alla gola e le lacrime gli riempirono i suoi occhi.
– Mamma – rispose Franceschino, simulando rabbia – tu non morirai!
Franceschino sapeva di mentire. In verità quella era una speranza, un miracolo che si augurava accadesse.
– Ascolta – disse lei, prendendogli la mano – ormai non si può fare più niente – prese ancora fiato – sto solo aspettando che il Signore mi prenda…
Franceschino ebbe un tuffo al cuore. Le lacrime sfuggirono alla sua volontà. Nonostante il dolore che le deformava il viso, vide sua madre sorridergli. Lasciò la sua mano e con un gesto delicato, gli asciugo gli occhi.
– Me lo prometti? – sussurrò.
Franceschino fu colto da un principio di paura. Lui, da solo, senza sua madre, lontano da Matera. Quanto avrebbe potuto sopravvivere?
– E dove vado? – chiese, con voce quasi non udibile. Era certo di non essere riuscito a nascondere la sua paura.
– Ho scritto una lettera a zio Cosimo, in America – sussurrò ancora una volta – vedrà come farà, ma mi ha detto che ti aiuterà!
Franceschino si sentì mancare.
L’America! Quanto era lontana l’America da Matera? Aveva sentito parlare di un loro vicino, Eustacchio, padre di una ragazza che a lui piaceva tanto, Maria Giuditta, partito per l’America. Ci aveva impiegato giorni e giorni prima di arrivarci. E lui avrebbe affrontato quel viaggio da solo? Per un attimo si sentì mancare. Iniziò già a sentire nelle gambe il tremore per quel futuro in un altro mondo. La sofferenza di dover lasciare Matera, per sempre.
Franceschino abbassò il capo. In fondo sua madre aveva ragione. Quello era l’unico modo per potersi liberare dal tormento di un lavoro che non amava, sotto la tirannide di suo padre e, prima o poi, anche di suo fratello.
Non aveva scelte.
– Te lo prometto! – disse infine.
Franceschino vide sua madre sorridergli di cuore, facendolo sentire al settimo cielo, nonostante tutto.

Arcangela era morta in un giorno di metà novembre, mentre il cielo plumbeo stava per bagnare Matera. Paoluccio aveva l’impressione che anche il Signore volesse versare lacrime per quella donna.
Paoluccio camminava con il suo passo svelto verso il cimitero. Nonostante la salita non fosse del tutto agevole, non sentiva la fatica. Le sue gambe, per quanto poco robuste, avevano una intensa resistenza alla fatica. Se avesse contato le ore passate in piedi, davanti al forno, probabilmente non sarebbe arrivato alla fine del conteggio… si sarebbe stancato molto prima!
Paoluccio conosceva Arcangela da moltissimi anni, sin da ragazzo. Lui aveva qualche anno in più di lei e ricordava di averla adocchiata spesse volte, in gioventù, nei pressi della fontana, però non aveva mai avuto l’ardire di farsi avanti e Donato gliel’aveva soffiata di mano. Arcangela non era stata l’unica ragazza che si era fatto scappare. La sua timidezza, per anni, lo aveva reso invisibile, soprattutto agli occhi delle donne. Pian piano, col tempo, aveva fatto progressi, fino al giorno in cui aveva conosciuto Rocchina, quella che poi era diventata sua moglie. Lei era una ragazza della provincia, introversa più di lui e da tempo aveva superato l’età da matrimonio. Così Paoluccio era stato il candidato ideale per la necessità dei genitori di Rocchina di vederla sistemata.
Paoluccio era consapevole che la bellezza di Rocchina era ben poca cosa se confrontata a quella di Arcangela, ma era una brava ragazza. Educata e sincera, gli aveva dato tre figlie, sane e robuste e sapeva crescerle ed educarle per bene. Paoluccio non aveva rimpianti.
Così gli anni erano volati. Lui aveva preso in mano il forno di suo padre e Arcangela era diventata solo una conoscente, una persona che dava e riceveva rispetto. Era stato anche per quel motivo che aveva acconsentito a far lavorare Franceschino nel suo forno. La prima vera ragione era, in verità, perché si sentiva ogni giorno più stanco, nel dover fare tutto da solo, dinnanzi al forno. Anche lui, come tutti, era vittima degli anni che avanzavano inesorabilmente.
Nel momento stesso in cui aveva condiviso quel pensiero con sua moglie, lo aveva fatto con l’intero Sasso Barisano e con molta probabilità anche con buona parte del Caveoso. E quando Concetta, vicina di casa di Arcangela, aveva proposto il piccolo Franceschino per sostituire Giuseppe, Rocchina glielo aveva riferito e lui aveva, per forza di cose, accettato. Non si era mai pentito per quella scelta.
Franceschino si era dimostrato subito all’altezza del suo lavoro, nonostante i suoi dodici anni. In poco tempo aveva imparato a memorizzare e a non sbagliare. Giuseppe, da par suo, era diventato un valente aiuto per Paoluccio. Era giovane e pieno di energie.
Paoluccio, quando aveva saputo che Franceschino non avrebbe più lavorato per lui, per bocca di sua moglie, aveva intuito ancor prima che lei gli spiegasse.
Donato, il padre di Franceschino, era conosciuto per la sua indole irascibile e per il suo morboso attaccamento alle vecchie ideologie fasciste. Inoltre esigeva la netta distinzione dei ruoli, tra uomo e donna. Era quello in sostanza il vero motivo della sua sfuriata.
Paoluccio aveva intuito che il suo ragazzo stesse facendo qualcosa di strano, da un po’ di tempo, ma non aveva capito cosa, i suoi occhi, ancora da bambino, non mentivano. Poi un giorno aveva intuito. Era stato quando il suo aiutante aveva portato al forno una pagnotta da infornare, spacciandola per una fatta da sua madre. In effetti il timbro era quello di Arcangela, ma lui sapeva per certo che la povera donna non aveva più la forza di alzarsi dal letto. Infatti il pane, per Franceschino e la sua famiglia, lo preparava Concetta e lei lo timbrava con il suo timbro del pane.
Paoluccio, però, non aveva avuto nulla da eccepire, anzi la cosa lo gratificava. Franceschino era un bravo ragazzo e sua madre una brava madre, ma a quanto pareva Donato non era stato dello stesso avviso.
Paoluccio si era infuriato quando aveva saputo delle percosse al suo ragazzo, per mano del padre. Quella stessa stizza era diventata poi rabbia quando lo aveva visto passare sul carretto, assieme a suo padre e a suo fratello, con in volto i postumi delle botte ricevute.
Ora Franceschino era rimasto da solo ad affrontare suo padre e suo fratello, quest’ultimo perfetto emulo del genitore. Il che costituiva un ulteriore pericolo per lui. Era per quel motivo che Paoluccio voleva aiutarlo.
La porta monumentale del cimitero lo accolse, dopo il breve tratto tra i cipressi. Entrò e percorse le stradine di quel posto silenzioso, districandosi tra le tombe e le aiuole. Sapeva perfettamente dove andare. Arcangela era stata sepolta nell’ultima parte del cimitero, quella rivolta verso est, dove c’erano gli ultimi loculi.
Paoluccio guardava le foto di quegli uomini e quelle donne morte molti anni prima. Alcuni in abiti così arcaici che persino lui non ricordava di averne visti recentemente, in particolar modo le donne, con abiti ampi e carichi di tessuto. Poi c’erano i morti più recenti e le foto ne erano la dimostrazione. I loro sguardi erano meglio definiti e la posa era per una foto importante. Gran parte delle tombe, però, erano senza foto, essendo vecchissime.
In quel mentre, alzando lo sguardo alla strada, Paoluccio intravide Franceschino, in piedi, a capo chino, davanti una tomba. Accanto a lui suo padre e suo fratello. Paoluccio si augurava di poter rimanere da solo con il ragazzo. Era certo di riuscirci, vista l’intolleranza nei suoi confronti, da parte di Donato, ancora legata a motivi ideologici, ai quali Paoluccio aveva già dato la giusta importanza: nessuna!
Quando era a pochi metri da loro, Donato si accorse di lui. Lo fissò, accigliato. Paoluccio, indefesso, non accennò a fermarsi. Non gli interessava minimamente di lui, delle sue ideologie e di quello che girava nella sua testa da vecchio fascista.
Paoluccio si fermò e i tre lo guardarono. Franceschino si limitò a uno sguardo fugace, temendo le ire di suo padre, probabilmente. Benito lo guardò alla stessa maniera di Donato. Con quella occhiata diede conferma di quello che Paoluccio pensava di lui: il ragazzo aveva un futuro promettente… come despota! Suo padre, però, aveva dimenticato di dirgli che Mussolini, era stato fucilato e se si era deciso per quella punizione estrema, un motivo doveva pur esserci! E poi… il mondo stava andando in tutt’altra direzione.
– Condoglianze – disse Paoluccio, tendendo la mano a Donato.
Questi continuava a fissarlo. Poi fissò la sua mano e infine la strinse, quasi con riluttanza.
Paoluccio si girò a guardare la tomba, fresca di muratura. Un cero votivo fermava una foto non recentissima di Arcangela, ma che ne mostrava tutta la bellezza. Quella stessa bellezza che solo la malattia aveva fatto appassire di colpo.
Tutto era immobile.
– Andiamo – disse all’improvviso Donato. Con un gesto del capo fece cenno a Franceschino di seguirlo – si è fatto tardi.
Come aveva previsto Paoluccio, l’indignazione dovuta alla sua presenza aveva indotto quell’uomo saccente ad andare via prima del tempo.
– Scusa Donato – disse Paoluccio, senza timore – posso dire due parole a Franceschino?
Donato lo fissò a lungo, cercando, invano, di scrutare la verità di quella sua richiesta. Paoluccio reggeva lo sguardo senza alcun problema.
– Non ti perdere in chiacchiere! – disse Donato, guardando suo figlio. Franceschino fece un impercettibile cenno di assenso.
Donato andò via con Benito, senza salutare. Paoluccio li seguì per alcuni istanti, poi attese che fossero lontani e girò lo sguardo nuovamente alla foto di Arcangela.
I due rimasero a guardare quel volto sorridente per un tempo lunghissimo.
Il vento soffiava leggero. L’aria marrone dell’autunno era tutt’attorno. Quando il sole calava, il freddo si faceva sentire sulla pelle.
– Mi dispiace per tua madre, Franceschino – disse Paoluccio, senza distogliere lo sguardo.
Franceschino abbassò ancora di più il capo. Probabilmente aveva esaurito le lacrime e in quel momento appariva solo distrutto.
– Mamma mi ha fatto promettere che me ne andavo da Matera – disse Franceschino, tornando a fissare sua madre – dopo che… si… quando moriva – Franceschino fece una pausa – mi ha detto che devo andarmene in America, da mio zio Cosimo, ma non so come fare!
Paoluccio sentì che la voce del ragazzo era stata spezzata da un principio di pianto.
– Lo so.
Il silenzio li avvolse nuovamente.
All’improvviso, Paoluccio girò lo sguardo dietro di sé. Donato e Benito erano lontani. Prese dalla tasca dei pantaloni una busta piegata in due. Tese il braccio in modo che Franceschino potesse vederla.
– Prendi questi – disse – così potrai comprarti il biglietto per Nuova York!
Franceschino fissò per un attimo la busta, intuendo che dentro c’erano dei soldi. Poi alzò lo sguardo, basito.
– Ma… – sembrava non trovare le parole – maestro Paolo… io… io non posso… e poi.. e poi non so quando ve li potrò restituire!
Paoluccio lo fissò e accennò un sorriso. Franceschino era il ritratto della genuinità. Quel regalo che gli stava facendo se lo meritava tutto.
– Non mi devi restituire niente – replicò, deciso, Paoluccio – è un regalo per il tempo che hai lavorato per me – e gli sorrise.
Franceschino accennò un sorriso, pieno di gratitudine. Poi prese la busta e la infilò in tasca.
– Grazie – riuscì a dire – vi prometto che un giorno ve li restituirò… con gli interessi.
Il sorriso del ragazzo si ampliò e divenne di felicità. Paoluccio si sentiva soddisfatto, sapeva che quei soldi non erano stati buttati via. Franceschino, in America, non avrebbe fatto sfigurare gli italiani. Sarebbe stato un lavoratore esemplare, ne era certo.
– Franceschino – gli tese la mano – ti auguro tanta fortuna, a Nuova York!
Il giovane, per un attimo, guardò la sua mano, poi gliela strinse con la tutta l’intensità che il suo braccio poteva esercitare.
– Grazie, maestro Paolo, non vi dimenticherò mai!
Paoluccio fece un accenno con il capo e gli sorrise ancora. Poi si liberò della stretta e si avviò verso l’uscita. Non sapeva se avrebbe mai più visto quel ragazzo. Se un giorno fosse mai tornato a Matera, con molta probabilità lui sarebbe stato un vecchio decrepito, o più probabilmente un vecchio defunto. In tutta onestà si augurava che Franceschino non tornasse mai più, non avrebbe certo sentito la mancanza di suo padre e di suo fratello. Come dargli torto, d’altronde.
Paoluccio si ritrovò sulla via delimitata dai cipressi, appena fuori dal cimitero. Si girò a guardare l’ingresso monumentale di quel posto, per certi versi inquietante, per certi versi pacifico. Accennò un sorriso e si incamminò nuovamente verso i Sassi, dove lo aspettava un forno da portare avanti.

La vita, per lui, continuava ancora allo stesso ritmo di sempre.

Matera, dicembre 1950.

Franceschino stava facendo la valigia. Di lì a qualche ora avrebbe lasciato Matera, probabilmente per sempre. Il suo cuore era in pezzi. I Sassi e tutto quello che per lui avevano rappresentato, gli sarebbero mancati da morire.
Qualche ora prima era andato a salutare sua nonna Giuseppina. Il pianto della povera nonna non aveva smesso per tutto il tempo. Franceschino sapeva che, forse, non si sarebbero più visti. Tornare dall’America, anche solo per far visita alla famiglia, non era una cosa da poco.
Franceschino aveva resistito fino all’inverosimile, senza versare una lacrima, ma quando era uscito da casa di sua nonna e aveva svoltato l’angolo, era scoppiato in un pianto disperato e incontrollabile.
Adorava sua nonna, in lei vedeva sua madre anziana, quella madre che non avrebbe mai più visto, purtroppo.
“Tieni questi” gli aveva detto sua nonna, prima che uscisse, allungandogli una scatola di latta “erano di tuo nonno.”
Franceschino aveva aperto quel misterioso regalo e vi aveva trovato un rasoio da barba, un pennello e una ciotola. In un angolo un piccolo rotolo di banconote. Aveva guardato sua nonna, senza capire. Lei, lesta, aveva preso quei soldi e glieli aveva messi in tasca.
“Questi sono da parte mia e di tua madre, ti serviranno.”
“Nonna io non…” Franceschino avrebbe voluto dirle dei soldi di maestro Paolo, ma sua nonna l’aveva interrotto.
“Non voglio sentire una parola” lo aveva fintamente redarguito “ti serviranno, il viaggio è lungo.”
Il loro abbraccio era stato interminabile. Poi era andato via, cercando di memorizzare più possibile di quel volto avvizzito dal tempo. Non voleva dimenticarne neanche una sola piega, nel suo cuore.
Franceschino era rimasto seduto per terra a piangere, senza riuscire a controllarsi, indifferente allo sguardo della gente e al fatto che stava sporcando il vestito buono della festa. E tra le lacrime aveva fissato a lungo la scatola di latta, appartenuta a suo nonno.
Alla fine, con uno sforzo, si era alzato ed era tornato a casa sua. Lo aspettava una valigia da preparare, dove avrebbe messo tutto di quel po’ che la vita gli aveva dato, fino a quel momento. Un vestito di ricambio, qualche mutandina, alcune paia di calze, la scatola ricevuta poco prima, una foto di sua madre e il timbro del pane, con la lettera A, formata dalle spighe di grano. I soldi di maestro Paolo li aveva in parte spesi per comprare il biglietto di sola andata, tramite un compare di sua madre che avrebbe fatto il viaggio assieme a lui. Quello che gli era avanzato lo aveva ben nascosto in un tasca interna al pantalone che Concetta gli aveva cucito qualche giorno prima.
“Franceschino” si era sentito chiamare una giorno, di ritorno dalla fontana “vieni un minuto dentro, per piacere” era la voce di Concetta.
La povera donna aveva parlato sottovoce, per evitare che suo padre sentisse. I due non si rivolgevano più la parola, Franceschino ricordava che la sua vicina gli aveva detto, con rammarico, di essere stata privata del saluto da suo padre.
Franceschino, a quel richiamo, si era guardato attorno e poi si era avvicinato alla porta di Concetta.
“Senti Franceschino, prima che te ne vai a Nuova York…” e la sua voce era stata interrotta dall’emozione “devo fare una cosa che mi chiese tua madre di fare!”
“Che cosa?” si era incuriosito lui.
“Poi vedrai, intanto mi serve il pantalone tuo buono, quello della festa!”
Franceschino l’aveva guardata, perplesso.
“Ehm… va bene, comare, come volete, e come faccio…”
“Domani fammelo trovare appeso al filo, capito?”
Franceschino, sempre più perplesso, aveva fatto un cenno di assenso e il giorno dopo aveva fatto quello che gli aveva chiesto Concetta. Quando il pantalone era riapparso al filo adoperato in comune da più abitanti del vicinato per stendere il bucato, Franceschino lo aveva preso, furtivamente, e lo aveva ispezionato di nascosto, cercando di capire in cosa consistesse il lavoro fatto da Concetta. Poi aveva trovato la tasca segreta, chiusa da un bottone, e dentro vi aveva trovato un altro po’ di soldi. Franceschino aveva sorriso e si era sentito stringere la gola, tanto l’affetto per quella donna splendida.
Ora, con la valigia quasi pronta, non aveva ancora avuto modo di ringraziarla, ma si era ripromesso di farlo appena uscito di casa. Intanto suo padre e suo fratello erano chiusi in un silenzio tombale e sembrava non volessero incrociare il suo sguardo.
Franceschino ricordava la faccia di suo padre, quando era giunta la lettera di suo zio Cosimo, suo padre l’aveva letta dopo di lui, essendo stata spedita a casa di nonna Giuseppina.
All’inizio Franceschino aveva temuto il peggio, pensava che suo padre potesse perdere le staffe, andare su tutte le furie, strappare la lettera di suo zio e ordinargli di non muoversi da Matera. In quel caso, Franceschino, aveva già deciso di scappare da Matera, all’insaputa di tutti. In qualche modo avrebbe fatto per arrivare in America. Per ogni evenienza si era appuntato su di un pezzo di carta di giornale, l’indirizzo di suo zio, trascritto con non poche difficoltà in quella lingua ancora sconosciuta. Quella precauzione non era servita a nulla. Suo padre, dopo aver preso atto di quella richiesta di zio Cosimo, di voler Franceschino a vivere lì con lui, lo aveva guardato per un secondo lunghissimo.
“E tu… vuoi andare in America?” gli aveva chiesto.
Franceschino aveva detto di si con la testa.
“Allora buon viaggio” gli aveva detto, passandogli la lettera. Poi si era girato e aveva ripreso a tormentare il tizzone di legna nel camino.
Franceschino era rimasto immobile, incredulo. Poi era uscito di casa ed era tornato da sua nonna. Le aveva raccontato tutto.
“Tuo padre, da quando è morta tua madre, è diventato un altro” lo aveva giustificato nonna Giuseppina.
Franceschino aveva pensato che avesse ragione. In effetti suo padre, dal giorno del funerale di sua madre, si era chiuso in un mutismo quasi totale. Parlava pochissimo e ogni volta che sua suocera andava in casa loro, per fare le veci di sua figlia defunta, la ringraziava. Usanza, fino a quel momento, sconosciuta da parte sua. La donna di casa era nonna Giuseppina, ormai, ma un’altra cosa strana stava accadendo. Franceschino aveva notato suo padre iniziare a svolgere qualche faccenda domestica. Apparecchiava la tavola, sistemava il letto, svuotava in cantero e la cenere dal camino. Cose che prima non avrebbe mai osato fare.
“Tuo padre” gli aveva spiegato sua nonna “è quello che è, ma voleva molto bene a tua madre e secondo me non se la troverà un’altra donna da mettere in casa” e aveva accennato un sorriso sdentato “e per questo che pian piano vuole imparare a fare le cose da solo!”
Franceschino aveva provato gioia per quelle parole che sperava diventassero realtà. Questo, però, non era bastato per fargli cambiare idea sulla sua partenza.
Zio Cosimo aveva fatto chiaramente capire quanto fosse diverso il mondo a Nuova York. Lì, se volevi fare il pane con le tue mani, lo potevi fare, nessuno avrebbe detto niente.
“… qui, se sei onesto e ti azzecca di lavorare” aveva scritto, con quel suo italiano stentato di natura, non per colpa dello slang americano “il lavoro te lo buttano appresso!”
Era bastata quella frase a Franceschino per rafforzare maggiormente il suo intento.
La valigia era pronta.
Franceschino guardò il vecchio orologio a corda sulla mensola vicino il letto matrimoniale. Erano le nove. L’appuntamento con Pietro, il cugino di sua madre, era alle dieci, davanti la chiesa di Sant’Agostino. Voleva, però, avviarsi subito perché desiderava passare da casa di comare Concetta e compare Angelo e dare un ultimo saluto al forno di Paoluccio.
– Così, zio Cosimo, si è fatto così tanti soldi – disse all’improvviso suo padre, senza girarsi – da potersi permettere di pagarti il biglietto per Nuova York?
Franceschino ebbe un tuffo al cuore, per la tensione improvvisa. Cosa voleva dire suo padre con quelle parole? Sapeva forse dei soldi di Paoluccio, di sua nonna e di Concetta? Lui si augurava di no, ma anche se fosse stato, questa volta non si sarebbe fatto mettere i piedi in testa. Era disposto a scappare, piuttosto che sottostare.
– Si – rispose, secco, tirando giù la valigia dal letto.
Franceschino rimase un attimo a guardare le spalle del suo unico genitore. Sperava si girasse, per salutarlo, ma non lo fece. Era quello il suo modo per dimostrargli il suo disaccordo per quella scelta di partire.
Poi girò lo sguardo a suo fratello, così preso dal lucidarsi le scarpe della festa, da non degnarlo nemmeno di uno sguardo. Franceschino, con il cuore avvolto dal quel gelo, guardò un ultima volta quella che era stata da sempre la sua casa. Lì c’era tutto quello che ricordava della sua vita. Guardò un ultima volta il letto dove aveva visto sua madre spegnersi giorno dopo giorno e immaginò di vederla ancora lì, sorridente, che lo salutava.
Franceschino prese respiro, non volendo piangere.
– Arrivederci, papà – disse alla fine – ti scriverò!
Suo padre mosse leggermente il capo, in segno di assenso. Benito si decise a guardarlo e lo salutò con un leggero movimento della testa.
Un secondo dopo Franceschino era fuori di casa, per sempre.

Quando entrò in casa di Concetta, per salutare lei e suo marito, solo in quel momento lasciò le lacrime libere di uscire senza impedimenti. Tra le braccia di quella donna, buona come una madre, Franceschino aveva scaricato tutto il fardello delle sue emozioni.

Matera, settembre 1970.

Benito era in piedi, davanti al caffè Tripoli, situato in piazza Vittorio Veneto, probabilmente da sempre.
Era domenica mattina e il sole di settembre era ancora caldo. La piazza era un brulicare di gente, come d’uopo a passeggio in quello che ormai era il ritrovo di tutti i materani. I Sassi, ormai, non erano altro che un groviglio di case in totale stato di abbandono. Dopo vent’anni tutta la popolazione si era trasferita in case moderne, popolari e non. Dopo la visita di De Gasperi, avvenuta per ben due volte, si era finalmente messo in moto il meccanismo che a più riprese era stato annunciato e mai avviato, con l’intento di cancellare la vergogna dei Sassi. Il modo in cui vivevano le famiglie dei Sassi era stato considerato indegno, per un essere umano, e quindi tutti dovevano lasciare quelle case malsane.
“E’ una vita che viviamo qui dentro, come vermi” aveva detto Benito a suo padre, quando la gente aveva iniziato a trasferirsi nei quartieri nuovi “e adesso si sono accorti di noi?”
“Hai ragione” aveva replicato suo padre, mentre tagliava il pane “adesso se ne sono accorti che esistiamo pure noi!” e poi era iniziata la solita prosopopea su Mussolini.
Il Duce di qua, il Duce di là. E Benito, si era subito pentito di aver parlato.
In casa, ormai, suo padre era il padrone indiscusso, fungeva da marito e da moglie. Non aveva voluto saperne di risposarsi e aveva imparato a fare quasi tutto, in casa, persino stirare. Per il bucato e i rattoppi c’era chi se ne occupava a pagamento.
C’erano stati giorni bui e tristi, ma lui non aveva mollato e Benito lo aveva aiutato, assieme a sua nonna Giuseppina. Quando quest’ultima, quasi sedici anni prima, era morta, Benito e suo padre si erano trovati in un momento di incertezza, non avendo più alcun riferimento. Neanche in quella occasione suo padre aveva voluto riavvicinarsi a Concetta, la loro vicina. Lei sarebbe stata felicissima di aiutarli e Benito lo sapeva, ma non poteva osteggiare la volontà di suo padre. Lui, però, lo aveva fatto a sua insaputa.
“Buongiorno, comare” le aveva detto un giorno, fermandola all’imbocco del vicinato “posso chiedervi un favore?” aveva poi chiesto, dopo anni senza rivolgersi la parola.
Il viso di Concetta si era illuminato a giorno e persino il suo vestito nero ne aveva tratto vantaggi. La sua vicina era a lutto per la morte di suo marito, consumato dalle polveri respirate negli anni nella fabbrica di mattoni.
“Buongiorno, figlio mio” aveva risposto lei “che ti serve?”
“Ieri ho strappato il pantalone buono… se potete dargli due punti!”
“Ma certo, come no” e aveva sorriso felice “portamelo domani, va bene… quando vuoi!” aveva aggiunto, facendogli capire di aver intuito che, di tutto quello, suo padre non sapeva nulla.
Poi si erano salutati.
Il giorno dopo il pantalone era già tra le mani di Concetta. Quando alla sera era tornato a riprenderlo, lei lo aveva fatto accomodare e gli aveva offerto un po’ di liquore al limone fatto con le sue mani. Nonostante le reticenze, Benito si era ritrovato seduto in quella casa che un tempo era stato il rifugio segreto di suo fratello Franceschino.
“Ho avuto notizie da Franceschino” aveva detto all’improvviso Concetta, mentre versava il liquore, con un leggero sorriso in volto. Benito l’aveva guardata e aveva fatto un leggero cenno con la testa. All’epoca erano passati solo tre anni dalla sua partenza e suo fratello non aveva scritto un rigo a suo padre, nonostante glielo avesse promesso. E solo per quel motivo, il suo risentimento nei confronti di suo fratello era cresciuto.
“Dice che sta bene” aveva proseguito la donna “e ha pure cominciato a lavorare in un forno… è quello che ha sempre voluto fare!”
A quella frase Benito aveva sentito le budella ardergli, e non solo per colpa del liquore che stava centellinando. Il giorno in cui aveva scoperto il segreto di suo fratello, spiandolo mentre impastava il pane con le sue mani, proprio in quella casa, lo ricordava come fosse il giorno prima.
Concetta, invece, sembrava aver dimenticato l’accaduto. In fondo, per lei, la cosa importante era sapere che Franceschino stava bene.
Per lui era diverso. Benito non aveva mai metabolizzato tutto quello che era successo.
E in quel preciso istante, mentre sorseggiava il suo Amaro Lucano, nonostante vent’anni lo separassero da quel giorno, sentiva ancora un moto di stizza.
Quel ventennio aveva portato una miriade di cambiamenti. Nell’intera città, facendola diventare una Matera moderna, piena di vita, nonostante le vecchie case dei Sassi fossero ancora tutte lì, come una ferita mai rimarginata. Dei tuguri, un tempo case, si diceva tutto e il contrario di tutto. C’era chi parlava di abbatterli, chi di valorizzarli, chi semplicemente di riutilizzarli. Niente di tutto quello a Benito, però, interessava.
Suo padre era cambiato assieme alla città.
Era invecchiato troppo in fretta, ma paradossalmente solo nello spirito, non nel corpo. La campagna l’aveva lasciata a lui, nonostante Benito avesse trovato un buon lavoro al vecchio Mulino Alvino, passato in mano alle famiglie Quinto e Manfredi. Era operaio, addetto all’impacchettamento della pasta e questo gli lasciava il tempo, al sabato e la domenica, di lavorare le terre. Il trattore che aveva comprato, poi, gli rendeva il lavoro ancora più agevole. Suo padre aveva tenuto per se l’orto in contrada Serra Paducci.
“Almeno così passo il tempo” aveva detto. E quando il tempo permetteva ci andava a piedi e vi tornava a piedi.
Il temperamento, però, si era addolcito, e Benito era certo che l’inizio di tutto era stata la partenza di suo fratello e il suo avvilente silenzio, anno dopo anno.
L’argomento “Franceschino” non era mai uscito fuori una volta, dalla sua bocca, e questo non aveva fatto altro che sedimentare pensieri e dispiaceri che, con il tempo, si erano ispessiti a tal punto da renderlo malinconico.
Persino la casa popolare, avuta nel quartiere di Spine Bianche, non aveva rinvigorito il suo modo di essere. E questo, di contro, aveva alimentato in Benito altro astio nei confronti di suo fratello.
– Ciao Benito – disse una voce alle sue spalle, all’improvviso – un caffè?
Era Michele, un suo amico d’infanzia e ora suo collega di lavoro, questi, però, si occupava di consegne. Guidava il camion, girava per tutta la provincia, lasciando la Pasta Lucana in gran parte dei negozi di alimentari.
Benito si voltò, accennando un sorriso all’amico.
– No, grazie – e gli mostrò il bicchiere con dentro metà del suo amaro.
– Come vuoi – replicò l’altro e subito dopo entrò nel bar. Benito notò che sotto il braccio portava il giornale, La Gazzetta del Mezzogiorno.
I tempi erano cambiati anche nelle abitudini alimentari della gente. Ormai era sempre meno la gente che faceva la pasta in casa e quello aveva portato al boom dei pastifici che producevano pasta essiccata con metodo industriale, abbattendo i costi, enormemente.
– Oh, Benito! – Michele era uscito quasi correndo dal bar e con il giornale aperto gli si era parato davanti – guarda qui, ma questo non è tuo fratello?
Benito ebbe uno scatto. Prese il giornale dalle mani dell’amico, barattandolo con l’amaro, in un gesto automatico.
– Hai visto… è finito sul giornale! – disse ancora, l’altro.
Benito, con il cuore a mille, prese a leggere con attenzione, sentendo la tensione irrigidirgli tutto il corpo.
All’improvviso lo chiuse e senza dire una sola parola, lasciò l’amico sul posto. Esterrefatto e a passo spedito si avviò alla sua Fiat 600 nuova di zecca, per tornare a casa e mostrare il giornale a suo padre.
– Ehi… Benito… il giornale! – gli urlò dietro Michele, ma Benito, nonostante lo avesse sentito, era già con la testa altrove.
Donato era appena stato a messa, come sempre, nella chiesa dell’Annunziata, situata nel quartiere di Piccianello. Nonostante, la nuova costruzione non sfiorasse nemmeno la bellezza della precedente, demolita per un capriccio dell’Arcivescovo, sedici anni prima, Donato si sentiva piacevolmente affezionato a quel posto e al prete di quel quartiere, Don Giovanni Mele.
Donato, in chiesa, non ci era andato molto volentieri, in passato. Con la morte di sua moglie e la partenza di suo figlio minore, aveva sentito lentamente sempre più il bisogno di avvicinarsi a Dio.
“Forse perché gli anni passano e manca sempre meno al mio incontro con Lui” aveva scherzato un giorno, con Don Giovanni, alla fine della funzione, chiacchierando assieme ad altri suoi coetanei.
“Dio è sempre stato vicino a te” gli aveva risposto il prete, con i suoi modi amichevoli “eri tu che non Lo vedevi” e Donato aveva incassato il colpo, limitandosi a scuotere un po’ la testa.
Don Giovanni, con molta probabilità, aveva ragione.
Negli anni vissuti nei Sassi, quando Franceschino e Arcangela erano ancora in casa con lui e Benito, il suo carattere era molto più intollerante, praticamente su tutto. E quell’aspetto del suo carattere si era accentuato durante la malattia di sua moglie.
“Era perché ti sentivi forte nel corpo” gli aveva spiegato Don Giovanni “ma impotente davanti la malattia di Arcangela” aveva concluso, guardandolo un attimo al di sopra della penna, mentre redigeva alcuni documenti per due novelli sposi.
“Voi dite?” aveva chiesto lui.
“E certo!” era stata la risposta decisa dell’altro.
Il suo maggior pentimento, per quel suo comportamento in quegli anni, Donato li aveva, però, nei confronti di suo figlio Benito. Questi era cresciuto caratterialmente uguale a lui, in quanto da lui indottrinato a una certa filosofia di vita, strascico di un fascismo fumante, sotto le sue stesse ceneri. E Benito, purtroppo, aveva mantenuto con gli anni quel suo modo di essere rude, aggravato da un carattere insicuro, figlio di una esistenza vissuta all’ombra di suo padre. A riprova di questo c’era il fatto che avesse pochi amici e nessuna donna che le facesse il filo. I suoi modi ruvidi non erano piacenti, era chiaro come il sole, ma lui sembrava non volerlo capire. Benito aveva superato da un po’ i trent’anni, ma non riusciva ad essere un uomo migliore e Donato se ne rammaricava.
Forse, aveva pensato spesso, era in parte colpa della sua scelta di non risposarsi.
“Forse una madre gli avrebbe fatto bene” si era confidato un giorno con Don Giovanni, mentre lo aiutava a rimettere a posto le panche in chiesa.
“Beh… non puoi dirlo” aveva risposto il prete “magari non sarebbero andati d’accordo e tuo figlio si sarebbe chiuso ancor più in se stesso, chi può dirlo.”
E ancora una volta aveva dovuto dar ragione a quell’uomo di grande fede e umiltà.
Dopo la morte di Arcangela non erano state poche le proposte di matrimonio, com’era d’uopo accadesse nei Sassi. In particolare, quando a rimanere soli erano gli uomini. Era cosa comune che un uomo, da solo, non avrebbe fatto molta strada, per niente avvezzo alle faccende domestiche, ma Donato non aveva voluto mai accettare quelle proposte partite da altri. Il vero motivo, probabilmente, era depositato in fondo al suo animo ed era legato all’enorme affetto che aveva provato per sua moglie. In parte anche perché, quando aveva conosciuto sua moglie, era stata una cosa nata e coltivata da loro, senza l’aiuto di nessuno, in totale clandestinità, a dispetto delle arcaiche regole dei Sassi.
“Io ti voglio… perché ti voglio io, non mio padre o mia madre!” e con quella frase, Arcangela, aveva conquistato il suo cuore, dimostrando di essere una donna forte e decisa.
Questo aspetto del carattere di sua moglie, però, non aveva portato solo vantaggi, anzi spesso si erano scontrati sempre e soprattutto quando Donato aveva seguito Mussolini nel ventennio del suo governo.
“Speriamo bene” gli aveva detto una notte, nella penombra del loro letto “non è che sono tanto convinta che questa guerra in Africa ci aiuterà” aveva poi aggiunto, riferendosi all’invasione dell’Etiopia.
Donato, quella volta, aveva sentito il sangue ribollirgli in ogni tratto delle sue vene. Non tollerava nessuno che parlasse così, tanto meno sua moglie. E poi, per un militante con convinzione, non solo per obbligo, del Partito Fascista come lui, era davvero pericoloso sentir parlare così la donna sposata.
“Che ti sei impazzita?” le aveva urlato, incurante del sonno di suo figlio Benito, di solo un anno “non ti voglio più sentir parlare in questo modo, hai capito?”
“Ho capito” aveva replicato lei, stizzita “basta che non alzi la voce!”
E da quel giorno Arcangela e il fascismo erano diventate come l’acqua e l’olio, era impossibile da tenere legati l’una all’altro.
In quel momento, però, Donato, seduto sulla sua poltrona, lasciando riposare le membra, pensò che forse, sua moglie, avesse visto giusto e non solo sulla guerra in Africa, ma su tutto quello che era l’ideologia del Duce.
“Sei stato l’unico del Partito che non ha avuto niente” gli aveva detto Arcangela, alcuni anni dopo la fine della guerra, con tono di monito.
“Invece a te Mussolini ti è sempre andato di traverso, è vero?”
“E mica mi sbagliavo!”
Quella volta, Donato, aveva taciuto.
Slacciò le scarpe e infilò le ciabatte. Poi si alzò e le portò nella scarpiera, come d’abitudine. Odiava lasciare le cose in giro per casa e alla stessa maniera aveva educato suo figlio.
Donato, dopo la morte di sua suocera, l’ultima donna ad essere entrata nella sua casa nei Sassi, aveva imparato a fare tutto da solo. Eccezion fatta per il bucato, per il quale pagava Giuditta, una ragazza che viveva qualche vicinato oltre il suo, e per i lavori di cucito, per i quali di affidava a Margherita, una ragazza, conoscente di sua moglie. Se il suo orgoglio non glielo avesse impedito, avrebbe riallacciato i rapporti con la sua vicina, Concetta, soprattutto dopo che la poverina era rimasta vedova. Non ci era riuscito. E dopo aver avuto la casa popolare non si erano mai più visti. Alcuni anni dopo aveva saputo che Concetta si era trasferita in un paese nelle provincia di Bari, dove viveva una sua figlia.
Nella nuova casa Donato aveva sopperito al problema del bucato acquistando una lavatrice nuova di zecca. In poco tempo aveva imparato a usarla. E di conseguenza aveva imparato anche a stirare. Lentamente, con il passare degli anni, il pensiero di avere un’altra donna in casa gli era completamente passato.
Donato avrebbe voluto andare a sedere ancora un po’ alla sua poltrona, ma lanciò una occhiata all’orologio appeso in cucina. Erano le dodici e mezza passate. L’ora del pranzo si avvicinava. Quella mattina aveva preparato un ottimo sugo di carne.
“Il muscolo del vitello da un sapore ottimo al sugo” aveva imparato per esperienza “ma anche lo spezzatino non è male!” andava ripetendo a suo figlio, sperando imparasse a badare a se stesso. Donato sapeva che non gli restava tantissimo da vivere e in lui c’era la sincera preoccupazione che Benito rimanesse senza una moglie.
Donato iniziò a preparare l’occorrente per il pranzo, cominciando con l’apparecchiare la tavola.
In quello stesso istante sentì la porta aprirsi. Benito stava rientrando.
– Papà! – chiamò, stranamente e mezzo tono – dove stai?
Prima ancora che rispondesse, Benito entrò in cucina trafelato. In mano aveva un giornale che gli stava mostrando.
– Papà… leggi!
– Che cos’è? – gli chiese Donato, allontanando il giornale per combattere la presbiopia accentuata.
Il titolo e il sottotitolo riuscì a leggerli.
– Un materano sfida gli hot dog americani con il suo pane. Il successo è immediato per l’italiano, “Io e il pane siamo una cosa sola!” dice il panettiere venuto dalla città dei Sassi – a quelle parole lette, Donato, sentì una fitta al cuore, una piacevole fitta.
– Prendimi gli occhiali da quella parte – chiese a Benito, indicandogli il soggiorno, ma senza staccare gli occhi dalla Gazzetta.
– Si…
Donato allontanò ancora i fogli, cercando di iniziare a leggere, ma ottenendo solo lettere sfuocata.
Benito gli porse gli occhiali e tutto apparve nitido.
Era un’intervista telefonica a suo figlio Franceschino. Alla fine dell’articolo c’era anche una foto di suo figlio, in piedi, davanti una panetteria con in mano una pagnotta di pane, nella tipica forma di quello prodotto a Matera.
Donato sentì gli occhi riempirsi di lacrime nel vedere suo figlio diventato un uomo. Erano vent’anni che non aveva notizie di lui.
La foto ritraeva Franceschino vestito in maniera elegante, alla moda, con sopra un grembiule bianco. Il suo viso era il ritratto della serenità e della spensieratezza. Alla mano sinistra Donato notò la fede nuziale. Era sposato.
Donato continuò a fissare il suo volto, trovando molto dei tratti somatici di Arcangela, ma qualcosa c’era di suo. I capelli neri e folti, sopracciglia marcate e occhi chiari e luminosi. Era davvero un bel ragazzo. Prima di metter su famiglia doveva aver avuto una schiera di donne dietro di lui. L’occhio di Donato fu poi attratto dall’insegna, sopra la testa di suo figlio.
Paoluccio’s bread.
Franceschino aveva intitolato la sua panetteria a Paoluccio, il fornaio dove aveva lavorato, ormai vecchio e stanco, relegato a Sant’Agostino, in quella che era diventata una vera e propria casa di riposo, intitolata a Monsignor Brancaccio.
Donato distolse lo sguardo e sentì un dolore al petto. Franceschino aveva intitolato a quell’uomo la panetteria, era assurdo!
Iniziò a leggere.
Franceschino, in America semplicemente Frank, raccontava di aver imparato a fare il pane guardando sua madre e poi con l’aiuto di una vicina di casa, Concetta. Tutto questo mentre lavorava come ragazzino nel forno di mastro Paolo, al quale aveva rubato i segreti della cottura. Al giornalista che gli chiedeva se era quello il motivo per cui aveva intitolato il forno al suo mentore, Franceschino aveva risposto che il vero motivo non stava solo nell’aver avuto da quest’uomo parte dell’insegnamento, ma da lui aveva avuto anche i soldi per comprare il biglietto ed emigrare in America.
Donato si sentì mancare. Il cuore sembrò essersi fermato assieme al respiro. Distolse gli occhi dal giornale e fissò il vuoto a lungo. Gli sembrava incredibile che suo figlio avesse ricevuto aiuto da Paoluccio.
– Hai letto, papà – disse Benito – i soldi glieli ha dati Paoluccio, hai capito?
– Si… ho letto, ho letto… – rispose Donato, ancora con lo sguardo perso nel vuoto.
Franceschino lo aveva ripagato così di quelle percosse ricevute e dell’essere stato allontanato dal forno, contro la sua volontà, lasciandosi aiutare da un estraneo, piuttosto che da lui.
– E a te non ti ha nominato proprio! – aggiunse, amareggiato, Benito – dopo tutto quello che hai fatto per lui!
Donato alzò lo sguardo a suo figlio, rivedendo se stesso, quando Franceschino era ancora a casa con loro.
– No… io non fatto niente per lui – disse Donato, triste – anzi… non gli ho fatto fare quello che davvero voleva fare!
Benito lo guardò basito, senza capire.
– Si, ma tu sei suo padre… tu lo hai campato fino a che non è partito… e questo è il ringraziamento? – e con una mano colpì il giornale, all’altezza della foto. Poi si girò a andò nel soggiorno, stizzito. Pochi secondi dopo la TV era accesa.
Donato sedette e terminò di leggere. Quando ebbe finito si sentì per certi versi sollevato. Nonostante lui non fosse l’artefice del successo e della serenità di suo figlio minore, era felice di quello che aveva scoperto leggendo, oltre ad averlo visto, anche se solo in foto.
Donato aveva un sorriso stampato in volto e con quello stesso sorriso maturò in lui, in quel preciso istante, un’idea che voleva assolutamente mettere in pratica, prima di morire. La salute ce l’aveva, i soldi anche, quanto bastavano.
Era fattibile.
Donato si alzò e si affacciò nel soggiorno.
– Benito, domani mi devi fare un piacere.
– Che piacere? – chiese l’altro, stravaccato sul divano.
– Devi andare a prendere due biglietti per l’America. Andiamo a trovare tuo fratello.
Benito rimase a fissarlo per un secondo lunghissimo. Il suo sguardo palesava tutto il suo disaccordo, ma Donato non avrebbe sentito ragione.
– Ci devi venire pure tu… e non voglio sentire storie!
E senza attendere replica, rientrò in cucina, ancora con il sorriso stampato in volto.
Donato era felice. E l’indomani sarebbe passato dal Brancaccio a trovare il vecchio e malato Paoluccio. Lo avrebbe ringraziato e gli avrebbe fatto vedere la foto del giornale.
Come pochi erano riusciti a fare, suo figlio era emerso dalla miseria di un vicinato del Sasso, perché credeva nel suo sogno di fare il pane con le sue mani.

FINE

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