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Fiori chiari, fiori oscuri

Fiori chiari, fiori oscuri

Via Fiori Oscuri
20121 Milano
Storie d'Amore Racconti
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Fiori chiari, Fiori oscuri

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Da piccoli nostra madre ci portava a far visita a nonna che abitava molto lontano da noi, quasi dall’altra parte del mondo per come la vedevamo allora. Bisognava attraversare tutta Milano da un capo all’altro e poi addentrarsi per quelle sgorbie stradine di campagna che parevano tanti ghirigori composti alla rinfusa sul foglio verde e giallo della pianura non ancora industrializzata a morte. Ogni volta ci sembrava un viaggio avventuroso, tutti e cinque stipati stretti stretti nella vecchia cinquecento che fu dello zio Alfredo e che mamma prendeva solo in quelle occasioni, paurosa com’era di guidare tra le altre macchine. Quando era sulla strada stava sempre in un cantuccio, attenta a non toccare con le ruote la linea di mezzeria che altrimenti chissà quali catastrofi si sarebbero abbattute su di noi. Come nella vita, cercava di passare inosservata, di non dare altro ingombro oltre a quello leggero del suo corpo, e già quello le sembrava un abuso.
Appena arrivati nonna ci accoglieva davanti all’uscio della vecchia casa campagnola, in quel cortile sempre in disordine e ingombro di cassette e attrezzi agricoli. Da quando nonno era morto nessuno più si occupava di rimettere a posto le cose e quelle stavano lì come in attesa, incapaci di darsi un ordine da sé. Nonna conservava sempre un viso furbo da gente di campagna, con un sorrisetto appena accennato tra il reticolato fitto delle rughe che sembrava l’anticamera di qualche scherzo architettato ai tuoi danni. Ci abbracciava forte e sentivamo sulla sua pelle certi odori sconosciuti e selvatici, ogni volta mischiati assieme in maniera diversa. Aveva sempre qualcosa da fare. Certe volte la trovavamo seduta a sbucciare patate o fave, altre volte spaccava ceppi enormi con quella grossa ascia che faceva paura solo a guardarla e non capivamo come riuscisse a mandarla su e giù tanto facilmente, con quella corporatura minuta. Una volta la trovammo impegnata a tirare il collo a una gallina. In quell’occasione non ci corse incontro come il solito, perché la disgraziata non ne voleva sapere di spirare e non si poteva lasciarla a quel modo, a metà tra la vita e la morte. Così continuò ad allungare quel povero collo, mentre ci diceva ciao bambini, con la faccia tesa nello sforzo. Lucia ne rimase molto turbata, ricordo che pianse un intero pomeriggio e rifiutò ostinatamente di guardare in faccia nonna fino a che ce ne tornammo a casa. Rimasi turbato anch’io ma mi sforzai di non farmene accorgere, per evitare che i gemelli mi prendessero in giro fino alla fine dei tempi.
La casa di nonna era fresca d’estate e calda d’inverno, piena di un sacco di cose interessanti. I muri erano affumicati dal calore dell’imponente caminetto di pietra che troneggiava al centro della parete più grande. Tutto intorno c’era una serie interminabile di pentole e pentolacce e utensili, appesi al muro con grossi chiodi neri che sembrava la bancarella di una fiera antica. D’estate, sul tavolo di quercia costruito da nonno, c’era sempre un canestro con la frutta fresca appena colta dall’orto e ricordo che profumava come nessun’altra cosa al mondo. Subito noi bambini ci avventavamo su quelle delizie e in breve tempo riuscivamo a ingurgitare tutto il contenuto del cesto, tanto che nonna e mamma sorridevano compiaciute, come se d’improvviso il mondo avesse ritrovato l’equilibrio perduto e tutto fosse tornato al proprio posto. D’inverno ci avvicinavamo cauti al grande camino dove scoppiettavano rabbiosi i rami di quercia, tenuti al riparo nella legnaia. In brevissimo tempo i nostri volti erano rapiti dalle danze ipnotiche della fiamma cangiante, che baluginava veloce sulle gote arrossate e brillava negli occhi spalancati. Allora nonna ci raccontava qualche storia di quando era giovane e con nonno si difendevano da quel mondo affascinante e crudele, fatto di colori meravigliosi e di fame nera come la notte. Erano sempre storie drammatiche e inverosimili ed io, per quanto piccolo, sospettavo che nonna ci mettesse dentro molta della sua immaginazione. Il piacere di ascoltarle, però, placava ogni urgenza di logica e realismo.
Più di tutti c’era un oggetto in quella casa capace di attirare la mia attenzione in maniera quasi totale e che esercitava su di me un fascino magnetico. Il vecchio pianoforte verticale appartenuto a nonno. Nero e ricoperto da una patina opaca, stava da un lato, quasi come un estraneo che preferisce rimanere in disparte ad ascoltare i discorsi altrui, troppo timido per farsi avanti a dire la sua. La prima volta che nonna ci fece vedere come funzionava ricordo che rimasi folgorato. Le vibrazioni che sentivo uscire da quel grosso cassone di legno laccato mi parevano un miracolo. Nonna ci invitò a schiacciare i tasti per sentirne il suono e Lucia indietreggiò spaventata, disse che gli pareva un’enorme bocca con i denti di fuori e corse via. Io e i gemelli rimanemmo a pestare con le piccole dita quei pulsanti magici capaci di produrre sempre un tono diverso. Loro con il furore solidale dei bambini che fanno lega, io con una maggiore consapevolezza. Da quel giorno, ogni volta che tornavamo da nonna cercavo di piazzarmi sullo sgabello rettangolare per rinnovare la magia dei tasti musicali. Nonna si accorse che ero il più interessato dei quattro e mi spiegò che quel pianoforte aveva una storia leggendaria, essendo sfuggito a tre tentativi di furto e alla seconda guerra mondiale. Una notte, mi disse una volta, gli aerei ci volavano sulla testa come mosche impazzite e le bombe facevano tremare i muri e ci tenevamo stretti gli uni agli altri per farci più coraggio di quel poco che avevamo. Allora nonno si sedette al pianoforte e iniziò a suonare un valzer di Chopin e poi una sonata di Liszt, e poi altre polke e mazurche, finché tutti quanti ci levammo di corpo quella paura tremenda e ci mettemmo intorno a lui per ascoltare quella musica meravigliosa. E le bombe non le sentimmo più.
Per questo, e per tanti altri motivi che non so e non voglio spiegare, quel pianoforte conquistò la mia anima. Non che avessi una particolare predisposizione a suonarlo, né imparai mai a farlo per davvero. Semplicemente mi sedevo sullo sgabello e schiacciavo i tasti uno dopo l’altro, per sentire i suoni che producevano i martelletti contro le corde all’interno. Plink, plink, plink. Ero come un entomologo che studiava il comportamento di quel particolare esemplare di una specie sconosciuta. Subito mi accorsi che se pestavo più forte il suono che ne scaturiva era prepotente, come se avesse urgenza di uscire nell’aria. Al contrario, se schiacciavo appena i tasti, il suono era poco più di un sussurro che sembrava soffiarmi dolcemente nell’orecchio. Per questo si chiamava Piano-Forte, e rispondeva alle sollecitazioni con una sua propria sensibilità.
Era una cosa viva.
Un giorno, appena arrivato, andai rapido a sedermi allo sgabello. Aprii delicatamente il coperchio della tastiera e sollevai la sciarpa di velluto che preservava quel sorriso di denti bianchi e neri. Per istinto iniziai a suonare il primo tasto sulla sinistra, producendo una nota bassa e greve. Subito dopo, per porre rimedio allo squilibrio provocato da quel tono cupo, richiamai il suo opposto e cioè il primo tasto da destra, la nota più acuta possibile. Continuai a premere alternativamente i tasti dall’una e dall’altra parte, scalando verso il centro della tastiera e producendo due scale alternate e contrapposte. A mano a mano che mi avvicinavo verso il punto d’incontro mi sembrava di assistere all’evolversi di due forze contrarie e di uguale potenza che si avvicinavano al loro culmine, pronte a sfidarsi nel momento di massima intensità. E il culmine arrivò, tra un do e un re, con le onde sonore che batterono petto contro petto proprio al centro della tastiera, per poi rimbalzare indietro come pupi siciliani dopo un assalto. Uno scontro titanico risolto in un secondo. Dopo l’urto le dita ritornarono a schiacciare gli stessi tasti in un percorso all’incontrario e mentre le braccia si allargavano lentamente verso gli angoli più lontani della tastiera, i suoni mi sembravano carichi di una nuova consapevolezza, come quella che possiedono i fiori quando iniziano ad appassire. Sentivo le note che si allontanavano lentamente le une dalle altre, irrimediabilmente ostili e inconciliabili, e mi colse una sensazione angosciosa. Era qualcosa che aveva a che fare con il distacco e il mio animo di bambino riusciva a percepirne il freddo e la dolcezza.
Ogni mistero infantile, anche il più inspiegabile, trova la propria giusta dimensione attraverso lo scorrere degli anni e spesso c’è bisogno che passi molto tempo prima che i pezzi vadano a incastrarsi perfettamente nelle forme che gli sono proprie e che li attendono nell’ombra accoglienti come trappole. E quindi c’è un motivo se solo adesso si riaffacciano in me tutti questi ricordi, come di ritorno da uno smisurato volo di boomerang. Ci ho pensato appena ti ho intravista tra la gente, mentre mi vieni incontro sul pavimento liso di Via Fiori Oscuri, lucido come una tastiera di pianoforte. L’andatura decisa che pare una marcia contro un nemico invisibile e per la quale tante volte ti ho preso in giro, come se non avessi troppo tempo da perdere lungo le vie squadrate di Milano. Mi ricordo le nostre passeggiate marziali ai navigli, tu impettita come un piccione del Duomo, io ad arrancare mezzo passo dietro e settembre che ci soffiava contro lunghe nuvole, sfilacciate e bianche. E mi ricordo i nostri pomeriggi a Corso Buenos Aires, sempre avanti e indietro a parlare di libri e di politica e tu che mi guardavi fisso quando ti chiedevo di andare a casa mia, negli occhi un fondo di delusione per quelle richieste che ti dovevano apparire così fuori luogo. Non ho mai capito cosa si agitasse sotto quegli occhi marroni, non ho mai colto il tuo segreto. Mi sono solo adeguato.
Anche adesso, istintivamente mi adeguo a questo tuo strano passo dell’oca, in simmetria perfetta dal corridoio opposto di Via Fiori Chiari. Uno due, uno due, e mentre ci avviciniamo sento distintamente le note salire d’intensità in vista del punto di contatto. Non posso fare a meno di provare le stesse sensazioni che avvertivo da bambino davanti a quel vecchio pianoforte, la stessa spasmodica attesa nell’approssimarsi del culmine. Già distinguo perfettamente i lineamenti freddi del tuo viso e penso alla nostra storia d’amore come a un incontro di scale alternate e contrapposte che si sono avvistate da lontano e corse incontro quasi con furore, fino a raggiungere l’apice. Fino a ritrovarsi faccia a faccia. Petto contro petto. Cuore contro cuore. All’incrocio con Via Brera.

Non abbiamo più niente da dirci.

Non abbiamo più niente da dirci, e mentre me lo dici già ti volti ed io faccio altrettanto, anche se qualcosa da dire ce l’avrei, per esempio che amavo sfiorare con un dito il profilo del tuo volto e indugiare sulla curva dolce del naso e sull’arricciatura morbida delle labbra. Avrei voluto dirti che ho capito perché tra i tanti posti che potevi scegliere, mi hai dato appuntamento proprio a questo incrocio, dove tutto è cominciato e dove tutto finisce. Per esempio, mi sarebbe piaciuto dirti che ti ho amata per davvero e che se non fosse per la malinconia e il freddo e la tristezza, quando finisce un amore è quasi bello come quando comincia. Se non fosse per la solitudine sarebbe quasi più bello. Invece non ti dico niente, consapevole del fatto che qualsiasi parola possa uscire dalla mia bocca non sarebbe altro che un infantile scarabocchio su questo quadro definitivo e chiuso e quindi taccio e vado avanti su questo corridoio lucente e levigato, lungo esattamente ottantotto tasti. Uno tu, uno io.
Mentre mi allontano sento le tue note sempre più deboli, quasi un sussurro all’orecchio, e le mie altrettanto, irrimediabilmente ostili e inconciliabili. Resta solo una scia di suoni sempre più lieve che già evapora verso l’alto, nella luce lattiginosa di una mattina invernale qualsiasi nel cuore di Milano.


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