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C’è tutto un mondo intorno
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C’è tutto un mondo intorno

86039 Termoli (CB)
Fantasia e Fantascienza Racconti
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C’è tutto un mondo intorno

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Quel libro mi pesava come un macigno nel cuore. Più lo guardavo, più avevo la sensazione di aver rubato qualcosa, di essermi appropriata di ciò che apparteneva a qualcun altro. Forse avrei fatto meglio a riportarlo indietro. O forse no…
Non so perché mi ero avvicinata, quel giorno, sulla spiaggia del lungomare di Termoli.
Di solito evito di farmi abbindolare da quelle persone allegre e invadenti. Ho sempre guardato con supponenza chi si lancia sulle bancarelle improvvisate sulla sabbia, su quei bazar che appaiono e scompaiono come miraggi nell’aria liquida.
Quei clienti sudati, pance e schiene brunite dal sole, mi fanno pensare a vespe testarde che girano in cerchio attorno a invisibili odori, nascosti in qualche borsa o nel cestino dei rifiuti.
Come viandanti nel deserto corrono incontro a un’improbabile fata Morgana, bardata con abiti pesanti, insensibile alla canicola che ti fa sudare anche solo se ti azzardi a pensare troppo intensamente.
“Roba bella” mi aveva detto l’ambulante, investendomi con statuette e perline e cappelli di paglia e Dio solo sa quanta altra merce stipata tutto intorno.
Avevo scosso la testa per andarmene ma ero stata attratta da quella scatola di legno intarsiato, le sottili incisioni che ne percorrevano la superficie brillanti come serpi d’oro e argento purissimi.
“50 euro, prezzo buono”, aveva aggiunto l’uomo col copricapo multicolore, mentre esaminavo la scatola da vicino.
Affascinata come un bimbo davanti a un nuovo giocattolo, avevo preso meccanicamente il portafogli dal marsupio, cercando nel contempo di far scattare la serratura di quel mirabile portagioie intarsiato.
“Faccio io, bella signora”.
Prese la scatola e armeggiò alcuni istanti, un occhio da camaleonte puntato sulla folla di vespe in costume che ci sciamava intorno.
Il venditore imprecò nella sua lingua gravida di consonanti quando il meccanismo scattò, spaccandosi in due pezzi; dalla scatola caddero brandelli di specchio che mi affrettai a raccogliere insieme al mercante, in evidente imbarazzo.
Ma subito il suo volto si ricompose, e mi sorrise: “No problema”.
Infilò una mano nel suo vaso di Pandora di tela.
“Ecco qua!”
Mi porse un’altra scatola e con gesto felino mi sfilò dalla mano la banconota.
Un attimo dopo venne inghiottito dal nugolo di cavallette umane assiepato sotto le mura del castello Svevo.
Sotto l’ombrellone cercai di aprire la scatola, sicura che il meccanismo si sarebbe rotto all’istante come il suo gemello poco prima.
Invece, preciso come un orologio svizzero, l’oggetto rispose con un leggero click.
Sollevai il coperchio esitante, certa di trovare solo sabbia e vetri rotti, pronta a farmi risarcire.
Mi pentii subito di aver pensato male, davanti al piccolo capolavoro di artigianato: lo specchio, integro e lucido, finemente cesellato, era incastonato su un secondo sportello di legno, sotto il quale c’era un doppio fondo. Impiegai un po’ per capire come si apriva il secondo scomparto. Non c’erano tracce di meccanismi, provai a girare la scatola ma il pannello non si mosse.
Allora spinsi sullo specchio, che si riempì in breve di piccole spirali di sudore.
Buttai un occhio verso il venditore ambulante, decisa ad andare a chiedergli come fare per aprire il pannello.
Alzandomi la scatola mi cadde dalle mani sulla sabbia, oltre il cono scuro proiettato dall’ombrellone.
I riflessi brillanti prodotti dalla luce sugli intarsi di vetro erano stati ingoiati dall’oscurità, come se lo specchio fosse scomparso nel nulla.
Restai interdetta a fissare il contenuto del doppio fondo: un piccolo volume, con delle lettere in rilievo consumate e illeggibili, sulla copertina di pelle scura.
Sfogliai le pagine ingiallite, e compresi subito che si trattava di un diario; la calligrafia ordinata e minuta, arricchita da buffi arabeschi a ogni inizio di frase. Mi venne alla mente un antico codice miniato, del tipo di quelli redatti dai monaci nel medioevo.
Incuriosita lessi le prime righe:
Quella che stai per leggere, è la mia storia; ma è anche la storia di altri, di altri uomini e di altri mondi; forse, è anche la tua storia.
Le parole vergate dall’autore sconosciuto mi turbarono; richiusi il volume con la testa immersa nel ricordo di un altro diario, del mio, anzi dei miei diari.
Era stato anche a causa della mia abitudine di conservare i miei pensieri, le mie sensazioni sulla carta, che il mio matrimonio era fallito. Giorgio non aveva mai accettato quei quaderni conservati gelosamente in ordine cronologico fin dall’infanzia; non capiva come potessi restare così legata al passato, ai ricordi, alle fantasie ridicole che mio padre (è tutta colpa sua diceva con cattiveria, anche se non lo aveva mai conosciuto) mi aveva trapiantato nella testa. Per Giorgio, che leggeva solo giornali di economia o saggi scientifici, era inspiegabile come una persona adulta potesse restare ancorata alle fesserie create da un genitore perennemente assente; un uomo che con la scusa del lavoro, aveva scelto di essere egoisticamente libero girando il mondo a caccia delle fate, restando per pochi giorni all’anno con moglie e figlia, condannate a vivere nel lusso aspettando il suo ritorno; e i suoi soldi, l’unica cosa che donava regolarmente oltre alle storie assurde che inventava, a uso e consumo di una figlia cerebrolesa.
Per fortuna è morto presto, altrimenti finivi come lui, crepando alla ricerca del Graal o degli elfi dei boschi…
Eppure io amavo Giorgio, era buono, in fondo, anche se non capiva quello che sentivo, quello che credevo. L’ho odiato solo una volta, quando lo trovai a bruciare i miei libri e i quaderni.
Così ci liberiamo una volta per tutte di quel fantasma!
Ma è bastata quell’unica volta, una sola sorsata d’odio profondo. Aspettavamo il nostro primo figlio e lui voleva che crescesse senza grilli per la testa.
Guardai le fiamme divorare le pagine, divorare la mia anima.
Quel giorno desiderai intensamente la sua morte, e in un certo senso il desiderio venne esaudito, purtroppo.
Persi i sensi, cadendo come da una torre senza fine, fissando le lingue rosse che mi scavavano il cuore.
Il giorno dopo avevo abortito. Era una femmina, l’avrei chiamata Angelica.
Perché?
Forse è meglio così, non eri pronta per essere la madre di mio figlio…
Lasciò la clinica con gli occhi rossi, ardenti come le fiamme in cui erano bruciati i miei ricordi, la mia vita, il nostro matrimonio.
Ritornai al presente consapevole che dovevo restituire il diario al venditore, anche se ero certa che non fosse suo; chissà chi l’aveva scritto?
Dopo averlo riposto nella scatola mi alzai per raggiungere l’angolo di spiaggia dove aveva esposto la sua mercanzia, ma dopo pochi passi mi accorsi che non c’era più.
Cercai di scorgerlo attraverso gli ombrelloni e i bagnanti stipati sulla riva, ma non ce n’era traccia.
Ma com’era possibile sparire in quel modo, in così poco tempo, con tutto quel carico di roba?
Provai a chiedere ad alcuni bagnanti, ma nessuno seppe rispondermi, per lo più si limitavano a guardarmi perplessi e a regalarmi sorrisetti idioti.
Tanto per cambiare, stavo facendo la figura della pazza.
Indugiai lungo la riva, camminando avanti e indietro come un viaggiatore sui binari, in attesa del treno. Ma quel treno era scomparso, un miraggio perduto tra le onde o sotto la sabbia; eppure quella visione mi aveva lasciato un dono, anche se ancora non lo sapevo.
Nei giorni successivi lasciai il diario nel portagioie, dentro l’appartamento, passando il tempo a fissare la scatola chiusa, senza il coraggio di aprirla, nonostante la curiosità che mi stava divorando, letteralmente.
Avevo continuato così, dilaniata in quella dicotomia, fino all’altra notte, quando mi sono svegliata a metà di un sogno; avevo sognato una bambina, e mio padre.
Lui le leggeva un libro, quello stesso libro.
C’è tutto un mondo intorno, le sussurrava nel sogno.
Allora ho aperto la scatola, e ho iniziato a leggere…
Ma che fai, leggi a quest’ora? Devi assolutamente farti vedere da un dottore…
Sono stata in trance per tutto il tempo in cui leggevo, bevendo le pagine come fossero fatte d’acqua, immergendomi sotto la superficie tiepida, fatta di suoni, di colori, di sogni.
Anche adesso mi sento in un limbo, sotto la scogliera indicata dal libro.
Il cuore della notte è il mio cuore, che rimbomba sopra alla risacca; il mare veste il mio corpo nudo; la formula descritta nel diario è il mio unico verbo.
Sei pazza da legare.
Sì, forse lo sono, ma non importa, voglio soltanto sognare.
Entro nella grotta e tolgo il libro dalla busta di plastica.
Ma ora ho paura, hai ragione, sono pazza.
“Tu no pazza…”
L’ambulante mi guarda negli occhi, ignorando il mio corpo nudo.
“Ma tu chi sei?”
“No importa mio nome, leggi ora…”
Sospiro, e inizio a leggere.
Dopo l’ultima sillaba alzo gli occhi a cercare quell’uomo, ma trovo solo una luce in fondo alla grotta.
La luce si allarga fino a circondarmi del tutto.
All’inizio c’è un immenso silenzio, poi vengono le voci, e i colori, e il vento.
Ci sono piante e uccelli colorati, e i folletti, e le fate.
Mio padre sorride, indicandomi la bambina del sogno, accanto a lui.
“Ciao, mamma…”
“Ciao, Angelica.”
È bellissima.
Mi prendono per mano, e li seguo nella luce.

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