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Profumo di pane
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Profumo di pane

63857 Amandola (Fermo)
Diari e Memorie Racconti
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Profumo di pane

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Da bambina ci ero venuta centinaia di volte qui al paese. E ricordo come, ad un certo punto, mi era anche venuto così a noia da non poterlo neppure più sentire nominare.
Amandola, un piccolo borgo a ridosso quasi dei Monti Sibillini.
I muri medievali e l’arco di ingresso su cui campeggiava un enorme orologio erano gli ultimi baluardi dell’antica cinta muraria della città. Cozzava la vicinanza dei vecchi portici con le costruzioni moderne che si spalmavano lungo il viale verso i monti, verso il vecchio cimitero, che concludeva la sua lunga corsa davanti al Santuario mariano dell’Ambro.
Si, da piccina ero arrivata quasi a odiare quel posto dove venivo forzatamente portata, a mo’ di pacchetto postale, per andare a trovare parenti di cui all’epoca non conoscevo né nomi, né volti.
Non parliamo poi della visita di rito al camposanto dove la mia mente acerba non capiva il perché dell’obbligo a baciare la foto di un uomo che non ricordavo e che, probabilmente, non avevo mai conosciuto.
Quel ritratto dall’aria indecifrabile ed austera, col mento verso l’alto come un vecchio militare impettito o un antico nobile decaduto, mi risultava freddo; freddo come il marmo su cui era stampata.
Ricordo le giornate interminabili in cui gli adulti si raccontavano gli accadimenti di tutto un anno (si, le visite erano annuali); il lavoro, la salute, i figli… “Oh Gesù come sono cresciuti!”… certo che crescevamo. Cos’altro avremmo dovuto fare a 5-6 anni?
Noia. Questa era la parola con cui in futuro avrei definito quelle andate al paese natio dei miei genitori. Noia talmente profonda che m’avrebbe portato via pian piano da quel mondo che (ancora non lo sapevo!) rappresentava una parte di me.
Appena possibile, mi allontanai da quei rituali, dalle solite chiacchiere, dai sorrisi forzati e dalle bugie tipo “Non sai quanto sono contenta di vederti!”; parole dette con garbo, si, ma che non venivano dal cuore. E si sentiva nei toni; si vedeva nei comportamenti.
No, non ero affatto contenta di tutto questo; non amavo quel mondo; quei panni provinciali e bigotti, crescendo, mi andarono sempre più stretti.
L’ultima volta che vi misi piede prima di volare alla scoperta del mondo? Non me lo ricordo in realtà.
So solo che il tempo (galantuomo, come dicono i vecchi saggi), dopo tanti anni riportò i miei passi su quelle strade, le stesse dove aveva camminato la mia famiglia.
Guardai con occhi diversi quelle stesse mura, quello stesso arco con lo stesso vecchio orologio che scandiva il passare del tempo.
Ricordo che un sorriso malinconico mi stirò le labbra guardando i portici sotto i quali, allineati, c’erano ancora il bar, il tabaccaio, l’edicola…
E anche il cimitero mi parve più accogliente. Tristezza e vuoto nel cuore, osservando le due tombe di marmo nero poco distanti l’una dall’altra, ma c’era al contempo qualcosa che mi rendeva forte, che mi faceva sentire fiera di appartenere a quella terra.
C’era la crescente consapevolezza che, per quanto possiamo cercare di dare a noi stessi l’opportunità di crescere, ci sarà sempre qualcosa che ci riporterà là, dove la nostra anima affonda le sue radici.
E come quelle di una quercia, le mie affondavano solide in quella terra che i miei avevano arato e seminato, raccogliendone per infinite stagioni i frutti.
Appartenevo alla cinta dei Sibillini e alla natura selvaggia delle Gole dell’Infernaccio.
Erano miei i raggi di sole che filtravano tra i rami fitti degli alberi; la voce del Tenna che saltava sui sassi, piccolo e timido alla sorgente; la cima tondeggiante della Sibilla, con i suoi misteri arcani e la Grotta delle Fate, e quella aguzza e scabra del Priora, con il suo castello scavato nella pietra dai venti e dalla pioggia.
Ora adoro quella terra; la sento profondamente mia.
E’ gioia negli occhi e nel cuore svegliarmi con lo starnazzare stridulo delle oche e il sole che accarezza il profilo delle montagne e dei paesi che si ergono sulle colline.
Sedere all’ombra della loggia di pietra della casa dove mia madre è nata, lasciando lo sguardo libero di spaziare su campi, boschi e cielo azzurro che sembrano uno di quei disegni che si fanno da bambini, dove tutto ha un contorno preciso ed il colore trasborda; far si che la mente corra su vie e sentieri di pensieri sconosciuti; questo mi restituisce serenità e mi avvolge in un tutt’uno con il mondo che mi abbraccia.
Ritrovo il gusto dei sapori antichi; della pasta e delle torte fatte in casa; del vino rosso e corposo del Piceno; l’aroma forte del tartufo bianco dei Sibillini.
Odori e sapori che risvegliano la memoria; il vecchio forno dov’era la stazione ancora cuoce dolci e pane. Il profumo mi inebria, risvegliando ricordi lontani.
“Mamma mi compri la pizza?”
“Si tesoro; compriamo anche il pane. Senti come profuma?”
Si, lo sento; lo sento ora come allora. Il profumo del pane è sempre lo stesso, è casa. Non cambia mai.

 

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