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Il Platano

Il Platano

Via Porto 106
84121 Salerno
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Il Platano

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Beatrice sonnecchia, mentre l’oratore continua a cantilenare la sua soporifera sapienza. «È un uomo attraente» si consola, vuole dare agli occhi un motivo per rimanere aperti.
«La cultura Maya, a differenza di quella Azteca…» interessante, ma quella sua fissità da psicofarmaco e quell’umettarsi le labbra fuori tempo, nel bel mezzo della frase, che provoca un avvitamento del senso, un punto e a capo continuo, sfiancante, senza nemmeno l’oasi dei tre puntini: Basta. Me ne vado.
Beatrice si alza, senza riuscire a non farsi notare. Ecco una cosa che proprio non le riesce.
È maldestra, sempre in rotta di collisione con persone, animali, oggetti, perfino con se stessa. Forse per questo ha scelto di fare l’archeologa.
«Mi trovo più a mio agio con i morti che con i vivi» continua a ripetere, suscitando un’ilarità che non finisce mai di stupirla. «Che ho detto di tanto divertente?» si chiede. È fatta così e il mondo continua a franarle addosso senza chiederle scusa, anzi, ostinandosi a ripeterle: “E stia un po’ più attenta”.
Beatrice se ne torna a casa. Ha ancora dieci giorni di ferie da trascorrere con i vivi prima di tornare nei mondi sotterranei dove finalmente rallenta e trova il suo vero ritmo, quel “maneggiare con cura” più adatto alla sua sensibilità assorta e visionaria.
La donna esce dal palazzo della Provincia e attraversa via Roma. A quell’ora a Salerno c’è un riverbero azzurro, è l’alito rarefatto del mare, evaporato sotto il sole caldo di ottobre.
Le bancarelle variopinte degli africani, semplici teloni stesi a terra, le fanno venire in mente sua madre. Beatrice la ricorda sempre a letto, nella stanza semibuia in cui lei riusciva a sgattaiolare solo all’alba, quando le donne di casa, la governante, l’infermiera, una ragazza che si occupava svogliatamente di lei, erano immerse nel sonno.
La bambina aveva finito per credere che fosse normale la sua vita solitaria, in quella casa enorme di fronte al mare. “Salerno, via Porto 106” rispondeva diligentemente quando in classe le chiedevano dove abitasse… “di fronte al vecchio platano” aggiungeva tra sé.
La piccola Beatrice si svegliava prestissimo, raggiungeva in punta di piedi la stanza proibita dove la mamma, bianca come la luna, l’aspettava sorridente. Era il loro segreto. Nessuno le aveva mai scoperte, nemmeno il padre, spesso fuori casa a commerciare in pietre preziose. La madre accendeva la lucina sul comodino e chiedeva: »Quale leggiamo, Bea, stamattina?».
Fiabe africane, il loro libro preferito. La donna aveva ancora negli occhi la fauna stilizzata e variopinta delle illustrazioni: animali in fuga o con le fauci spalancate, antilopi pigmee, damalischi di Hunter, giraffe dell’Angola, apalemuri dal naso largo, manguste del deserto, iene striate, dik-dik argentati, leopardi berberi…
Quando morì, lei aveva dieci anni. Non le permisero di vederla, al funerale le toccò immaginare come aveva fatto la mamma ad entrare in quel guscio di legno ingoiato dalla terra. Rimase con il padre, nella grande casa di via Porto 106, di fronte al vecchio platano.
Beatrice oltrepassa l’Imbarcadero, il bar delle sue serate giovanili al sapore di birra e chiacchiere politiche appassionate. Cammina spedita e caracollante, e presto è alla spiaggia di Santa Teresa. La percorre interamente con lo sguardo, legata a quei luoghi da rivoli sotterranei di memoria, come le vene scure nelle sue mani scarne.
S’inoltra finalmente sul marciapiede di via Porto e quando lo vede capisce che è a casa: il vecchio platano svetta come una sentinella spettinata dal vento.
È entrata da poco, quando sente bussare. Chi può essere a quell’ora di primo pomeriggio?
Gli occhi spalancati di Cloe, la dodicenne dai capelli rossi, vicina di pianerottolo, rafforzano il suo stupore.
«Mia madre non risponde» dice la ragazzina, le mani a pugno nelle tasche del pullover, «posso guardare dal suo balcone? Magari è fuori a stendere i panni…»
Beatrice la guarda come se avesse di fronte il fantasma di Ramses II.
«Allora, posso?»
«…Certo, certo…» si riscuote, si sposta, la fa entrare.
In quel momento due carabinieri escono dall’ascensore, accompagnati dal portiere.
«Sei qui Cloe? Questi signori ti devono parlare» dice Albino sorridendo, senza riuscire a dissimulare completamente una certa preoccupazione.
La bambina non si muove. Beatrice continua ad urtare contro lo stipite della porta nel tentativo di far guadagnare qualche centimetro di pianerottolo alla sua visuale.
Potrebbero rimanere lì per sempre, se non intervenisse il portiere, sorridendo imbarazzato: «Signora Beatrice permettete che entriamo un momento? Non sono cose da dirsi sul pianerottolo».
Si accomodano nell’ampio salone abbracciato da una libreria che costeggia completamente il muro, sia in altezza che in lunghezza: un’opulenza letteraria avvolgente. Sembra che scorra una cascata di parole, silenziosamente, ininterrottamente, da quella parete a terrazze.
Beatrice e Cloe siedono sul divano rosso e i carabinieri sulle poltrone di fronte. Albino preferisce restare in piedi a tormentare il cappello, mentre i carabinieri cominciano il loro resoconto.
La mamma di Cloe è scivolata quella mattina sul pavimento dell’androne, lucidato a cera da Albino. Zoppicando, si è trascinata al suo lavoro di colf, poco distante, ma una volta lì si è accorta di non potercela fare ed è stata accompagnata in ospedale. Frattura della tibia: dieci giorni di degenza. La signora, argentina, rimasta vedova, non ha parenti o amici a cui affidare Cloe. Sembra impossibile, ma la donna stessa ha indicato Beatrice per quel compito.
Se lei rifiuta, bisogna avvisare i servizi sociali.
Alla fine del breve resoconto, gli occhi di quattro persone fissano la donna, muti e imploranti. Albino le chiede di accettare, per liberarsi al più presto dei carabinieri. Il fatto di aver messo due gocce di cera sull’androne gli brucia sulla coscienza. Cloe è terrorizzata all’idea dei servizi sociali: non sa nemmeno cosa siano e questo contribuisce ad aumentare il suo spavento. Per i carabinieri è già ora di pranzo: perché complicarsi la vita con inutili scartoffie?
Beatrice si alza, si avvicina alla finestra: la ruggine autunnale splende sulle foglie del platano. Vorrebbe dire di no, ma finisce per pronunciare qualcosa che sembra sì.
I giorni che seguono sono più semplici del previsto.
La presenza di Cloe è solo una leggera increspatura sulle acque immobili della vita di Beatrice. La ragazzina governa la sua vita di dodicenne con disinvolta semplicità: l’igiene personale, i compiti, la strada per andare e tornare da scuola, i panni sporchi, le visite alla madre. Persino stirare e lavare i piatti potrebbe fare da sola, se la governante della signora non lo impedisse. Cloe allora le fa compagnia, solo lei la capisce, perché parla spagnolo.
La padrona di casa, la vede a pranzo e a cena; un giorno le dice: «Ti manca tuo padre?».
Stefano è morto da un anno. Cloe non risponde, chiede a sua volta: «E a te? Manca tuo padre?».
«Passato… tanto tempo fa» risponde la donna con quel suo modo ellittico di parlare.
«E tua madre?» incalza Cloe.
«Poco, me la ricordo così così. Lei invece era brava…» Beatrice prende una mela dalla fruttiera di porcellana e abbandona la stanza.
Ogni giorno Cloe, per andare e tornare da scuola, si immerge nel traffico cittadino, nell’ansito greve dei pullman costretti a fermarsi e a ripartire, nel gracidio insolente di auto e motorini. Ogni tanto guarda verso le banchine, verso i carghi, i rimorchiatori, i container sollevati dalla bocca di un drago arrugginito.
La ragazza è una presenza leggera, una foglia autunnale luminosa dopo la pioggia, salda come quell’ultimo platano che resiste a frastuono e inquinamento.
Quando torna a casa gli passa accanto, lo tocca: il tronco rugoso le ricorda il padre.
Stefano amava gli alberi, ogni sera le raccontava storie di querce nodose, di sequoie con le chiome tanto larghe da potervi abitare, di platani romantici come cavalieri. Le scriveva su un quaderno a fiori, senza evitare le parole difficili: lei capiva tutto, il padre era un affabulatore bravissimo.
Questa sera Beatrice è nel salone, legge un libro. La ragazzina è appena tornata a casa, la saluta e si accinge a fare i compiti, sedendosi al tavolo di mogano al centro della stanza.
La donna solleva lo sguardo. Cloe la fissa.
«Mia mamma ha detto che non devo chiamarti Beatrice e devo darti del lei.»
«No, no, perché, più bello Beatrice, giusto, giusto?» e sistema maldestramente gli occhiali sul naso.
Cloe riprende a studiare. Le piace quella donna goffa che parla come se le parole le sfuggissero di bocca.
Anche a Beatrice piace quella ragazzina che non si lascia intimidire dalle sue stranezze. È forte, come diventa a volte chi ha perso un amore perfetto. Insostituibile. È successo anche a lei, ma, al contrario di Cloe, lei è diventata fragile, di carta velina.
La donna si smarrisce nei suoi pensieri e si ritrova all’improvviso dietro lo stesso tavolo, all’età di dieci anni, a fare i compiti sotto la guida del padre.
Rivede la stanza avvolta dal fumo. La sigaretta accesa dell’uomo le si para davanti come allora, con la stessa arroganza disgustosa.
«Cosa cerchi su quel vocabolario, Bea?» Poi di colpo mellifluo: «Lascia che ti aiuti… su, siediti in braccio a me…».
Il suo alito di nicotina la stordisce, il suo ansito la paralizza.
Perde in un attimo ogni memoria di dove si trovi, il passato e il presente si mescolano, le illustrazioni delle fiabe africane prendono vorticosamente ad annebbiarle la vista, minacciose…
Il libro ancora aperto le scivola dalle ginocchia con un rumore sordo. Piange, attraversata da una piena di dolore.
Cloe corre ad abbracciarla.
Ha un sapore inedito quell’abbraccio. Beatrice si ritrova di colpo la bambina che ascolta fiabe nell’abbraccio della mamma, si sente protetta, in un mondo incantato dove gli orchi perdono sempre.
«Perché piangi?» chiede Cloe?
«…Mio padre…» riesce a biascicare, «quando studiavo…»
«Ti sei ricordata di quando studiavi con tuo padre? Ti manca? Anche a me manca tanto mio padre.»
Beatrice ammutolisce rapida.
«Prima di morire, mio padre ha scritto per me una fiaba bellissima, la leggo sempre quando mi manca troppo. La vuoi sentire?»
Lei annuisce, asciugandosi gli occhi e tirando su col naso.
La ragazzina ci mette un attimo: andare a casa e tornare col suo bottino, come un buon pane caldo da dividere con la nuova amica.
Si accoccolano, strette l’una all’altra, sul divano.
Cloe apre il quaderno con la copertina a fiori e comincia a scandire le parole del padre.
«C’era una volta un anziano platano. Il suo tronco era scorticato in molti punti, ma la chioma accoglieva ancora stormi di uccelli che con le loro chiacchiere assordavano il cielo e solleticavano le foglie. Era un albero solo; viveva sul marciapiede di una vecchia strada. Di fronte a un lato del suo tronco c’era un porto brulicante di uomini e container, dall’altro lato scorreva una strada satura di strepiti meccanici di giorno e luci lunghe sull’asfalto di notte. Non era una casa giusta per un albero, ma lui non si lamentava, continuava a vivere come un albero: accoglieva gli uccelli, colorava le sue foglie in autunno e d’estate se le appendeva in testa ad asciugare.
Respirava nel vento, il vecchio platano, quel bel respiro profondo degli alberi, immobili come i ricordi, fruscianti come stelle trepide sul corpo del mare.
Un giorno cominciò ad ammalarsi, accadde piano piano. Le foglie divennero un po’ meno verdi, si stancavano a giocare con il vento, dal tronco si staccavano pezzi, qua e là, sembrava un leopardo: ferito.
Il platano si accorse di essere malato quando aveva già cominciato a morire. Voleva salutare tutti i suoi amici, voleva che qualcosa di lui rimanesse quando sarebbe partito per il paradiso degli alberi; sarebbe andato lì, ovviamente, gli alberi non vanno mai all’Inferno.
Il giorno della partenza si avvicinava, lo capiva da come lo guardava il cielo che, sempre più spesso, teneva accese le stelle tutta la notte per fargli compagnia. Lo capiva, perché adesso gli uccelli quando tornavano sui suoi rami abbassavano la voce per non disturbarlo. Lo capiva, perché il vento lo abbracciava senza scuoterlo, adesso.
Era autunno, non ce l’avrebbe fatta a fiorire un’ultima volta. Questo stava pensando quando una voce stridula lo riportò sulla strada.
Quella voce pretendeva udienza: ora.
Era una nuvola, sembrava seccata.
“Dico a te, sei diventato sordo?»”
Il platano la guardò. “Che c’è Millegocce, perché urli, ho mal di chioma, potresti abbassare un po’ la voce?”
“E tu allora apri bene la corteccia che ho qualcosa da dirti. Da quanti anni bevi l’acqua che io gentilmente ti porto?”
“Tanti.”
“Credi che io sia una nuvola gentile?”
“Oh sì, certo, un po’ nervosa forse, ma gentile…”
“Allora faresti qualcosa per me, che non ti ho chiesto mai nulla in cambio della mia enooorme gentilezza?”
Millegocce parlava così, allungando qualche lettera di qualche parola.
“Sì, ma fai presto, vedi Millegocce… io sto morendo.”
“Lo sapevo, ecco pronta la scuuuusa per non aiutarmi.”
“Non è una scusa: guardami e capirai che non sto mentendo.”
“Sciocchezze, quello che ho da chiederti è semplice e non ti ci vorrà molto ad accontentarmi. Devi. Fiorire. Adesso. Poi ti spiegherò.”
“Mi dispiace Millegocce, io non fiorisco in autunno, credo proprio che non potrò accontentarti.»
Ma quella nuvola insolente strepitò, minacciò, si lamentò e tanto disse e tanto ridisse che il vecchio platano promise: ci avrebbe provato.
Lo aiutarono tutti, sembrava che si fossero messi d’accordo: Millegocce, il Sole, Compare Vento, perfino l’Aria Grigia. Tutti lo aiutarono a compiere quel prodigio.
Pochi giorni dopo, era novembre, sulla sua chioma di nuovo verde, erano spuntati dei fiorellini rossi. Ce n’era uno in particolare, più grande di tutti che si faceva spazio tra le foglie e, invece di penzolare come gli altri, se ne stava dritto e fiero sul ramo più alto: era un fiore femmina, bellissimo.
L’albero visse ancora un po’, nessuno sa quanto. Millegocce si incaricò di distribuire i fiori di novembre a tutti gli amici, in segno di gratitudine e affetto.
Quando il platano partì per il paradiso degli alberi, Millegocce disse a Fiore Rosso: “Salta su.”
Compare Vento li trasportò lontano, nessuno sa dove, ma si mormora che da quel fiore sia nata una bambina bellissima, che ama gli alberi e crede nella leggenda del platano che fiorì in autunno per darle la vita.»
Rimangono a lungo in silenzio. A un certo punto Cloe rimette in moto il tempo, dice: «Scendiamo, Beatrice, andiamo a dare un po’ d’acqua al nostro platano, è così solo in tutto questo frastuono».
Non la smettono più di discutere sul colore da dare alla parete.
Gli operai hanno appena finito di smontare la libreria, sono visibilmente esausti.
Vince Cloe, come al solito: la mura bianche e il soffitto rosa. Il divano rosso e quell’enorme tavolo barocco arrogante sembrano di un altro mondo adesso, niente a che vedere con il cielo rosa appena immaginato.
È il dieci marzo, hanno dieci giorni di tempo, Cloe compie tredici anni il venti di quel mese, stanno preparando la festa di compleanno.
Dopo la festa, Beatrice mette sulla scrivania nuova la foto regalo di Cloe: è un fiore di loto bianchissimo che emerge da uno stagno fangoso.
 

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