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Zia Nunziatina
Scheda Verificata

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Zia Nunziatina

Secondigliano
80144 Napoli
Racconti Biografici Racconti
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Zia Nunziatina

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Su quel lato di Corso Secondigliano il sole arrivava più tardi. Me lo ricordo bene, ci passavo every day, andata e ritorno, per andare a scuola, terza media statale Giuseppe Moscati, si, proprio lui, il medico dei poveri, che un giorno lo avrebbero fatto beato e poi, ’e pé forza, santo, ma a quel tempo chi ci andava a pensare.
Me la ricordo come una mattina diversa, nonostante gli stessi passi, le stesse facce, le stesse voci. First at all, non stavo andando a scuola. E poi la mamma mi aveva detto della morte di zio Salvatore, il marito di zia Nunziatina, la sorella più grande di papà: “Gennà, tuo padre più tardi si prende due ore di permesso per venire ai funerali, io non mi posso muovere perché devo badare al nonno e ai tuoi fratelli, ci devi andare tu che sei il più grande a rappresentare la famiglia fino a quando non viene papà”. E la scuola? E papà? “A scola se ne parla dimane, Gennà, e pò che sò tutte sti chiacchiere?”.
Tutte sti chiacchiere? Io ’na parola e nu poco avevo detto, più che altro perché fosse chiaro che se non andavo a scuola non era certo per decisione mia. La verità è che allora non era come adesso, non c’era bisogno di dire tante cose, il libro dei perché non era stato ancora inventato, i sensi di colpa non si sapeva neanche cosa fossero. Vogliamo dire che era tutto più semplice? Diciamo che era tutto meno democratico, il risultato non cambia e almeno ci facciamo fessi con il pensiero. Spiegato maccheronicamente, come diceva papà, chi doveva comandare, i genitori, comandava, e chi doveva ubbidire, i figli, ubbidiva. E poi, anche se era già primavera, a Secondigliano l’autunno caldo non era arrivato ancora e la scala per noi continuava ad avere l’iniziale minuscola e otto – dodici pioli, a seconda delle necessità. Tredici anni, anche quando come me avevi la fortuna di avere genitori che non ti consegnavano, per ignoranza o per necessità, a un futuro job in black in qualche fabbrichetta di scarpe o di detersivi, erano insomma più che sufficienti per assumere, fino all’arrivo dell’autorità maxima, il ruolo di legale rappresentante della famiglia.
Posso confessare che quella mattina ero particolarmente contento? Fare festa a scuola, se non avevi la febbre a 40, era davvero una rarità con un padre come il mio, fissato per lo studio, quaderni e libri nuovi ogni anno perché i figli degli operai non devono sfigurare di fronte ai figli dei professionisti, insomma il classico padre modello “tu studia a papà che quando ti farai grande farai il concorso alla compagnia del gas, lo vincerai e ti dovranno chiamare signor Pellecchia e non come chiamano a me, don Ferdinando, compresi chilli muccusielli di tecnici che io, con la mia esperienza sul lavoro, non me li vedo proprio”.
Ma cos’è questo mormorio? Dite che da un ragazzo per bene di tredici anni questo non ve lo aspettavate proprio? Che essere contento della morte dello zio non sta bene?
Just a moment, please! Prima di tutto, io non ero contento della morte dello zio. Ero contento di non andare a scuola. Mio zio era morto prima. Poi, dopo, io ero stato contento. Mica era stato all’incontrario. E come facevo io a sapere che sarebbe morto. Fosse ’o Ddio. Sapete quante vite umane avrei potuto salvare? Sarei diventato una celebrità. Di più. Avrei avuto la possibilità, che Nostro Signore neanche a se stesso se l’è data, di decidere “a te t’avviso, pecché si nà brava persona, a te no, pecché si nu farabutto”. Ecco, adesso sì che per colpa vostra sto peccando di superbia, che è peccato grave, bisogna che mi ricordi di fare mea culpa.
Torniamo a noi, anzi a zio Salvatore, che in fondo era vissuto più di ottanta anni ed era un tipo assai particolare. Cosa vuol dire particolare? Vuol dire che la domenica mangiava prima la carne e poi i maccheroni per paura, – si, diceva proprio così –, che se veniva qualcuno a trovarlo doveva offrirgli una parte della carne che spettava a lui. Vuol dire che era manesco e che non so quante volte – negli anni in cui papà, mammà, io, mio fratello Armando e la zia Giovannina, la sorella zitella della nonna, la mamma di papà, siamo stati di casa sotto a zia Nunziatina, in una camera 4 metri per 5 scarsi, cucina e gabinetto compreso -, ho visto zia Nunziatina correre giù per invocare l’aiuto di papà: Ferdinà, curre, saglie ’ncoppa, Salvatore sta vattenne ’e guaglione e ha dato dduje paccheri pure ’a mme”. E papà correva e metteva a posto la cosa. Non saprei dirvi né come e né perché, ma era l’unico che riusciva a fermare quel mezzo alcolizzato nulla facente di mio zio, scusate, pace all’anema soja, ma quando ce vò, ce vò.
Insomma ero arrivato a poche centinaia di metri dalla casa di zia Nunziatina quando scorgo i primi manifesti listati a lutto. Leggo: “dopo una vita dedicata al lavoro e alla famiglia, serenamente come visse si è spento Salvatore Scippacercola”. Azz. Una vita dedicata al lavoro e alla famiglia. Ma si mò mò aggio furnute ’e dicere che era nu scanzafatiche ca beveva e vatteva mugliere e figlie? Ma per favore. Questi fanno come nella poesia di Totò, come si chiama, ’A livella, na vota ca sò muorte non ci sono più differenze. Per carità, da un certo punto di vista, se parliamo di ricchi e di poveri, di fortunati e di sfortunati, di belli e di brutti, va bene, diciamo pure che è giusto. Ma da un altro punto di vista, quello dei fetenti e delle persone per bene, degli uomini e dei caporali, come diceva sempre ’o Principe, no, non va bene affatto. E allora che scriviamo sopra il manifesto quando da qui a cient’anne, salute a nnuje, muoiono la zia e le figlie? Io da quando me le ricordo hanno lavorato sempre dieci, dodici e anche quattordici ore al giorno a tagliare e a cucire, con le loro vecchie Singer, giubbini per quel loro conoscente che aveva una piccola fabbrica a Melito. Figuratevi che le mie cugine lavoravano così tanto che, pur essendo delle belle ragazze, non hanno mai avuto il tempo di innamorarsi, di fidanzarsi, di sposarsi. E che gli scriviamo a loro, “dopo una vita passata a s’accidere ’e fatica per mantenere se stesse e quell’essere inutile del padre che si mangiava prima la carne e poi i maccheroni sono morte come due cretine senza aver conosciuto l’amore e il divertimento?” Ma fatemi il piacere. Secondo me ha fatto bbuono zia Nunziatina. Anche a tanti anni di distanza, quando ci penso, me la vedo ancora davanti agli occhi mentre ogni domenica, domenica dopo domenica, gamba claudicante, passo necessariamente alternato, la sua brava sediolina pieghevole appesa al braccio, va al cimitero per allietare il deceduto consorte con ingiurie, sberleffi e anatemi di ogni tipo: “Salvatò, tu m’è dato ’a morte pé ’na vita sana, ma mò sì muorte tu e invece io stong fresca e tosta. Te ricuorde quante sofferenze ce fatte patì a mmè e a è figlie toje? Mò, a te, te stanna mangiann ’e diavoli e nuje stamm ngrazie ’e Dio. Sei stato un fetente, Salvatò, si stato fetente assai, e mò Nostro Signore te la deve far pagare. Uè, mi raccomando a Te, che sei l’Essere perfettissimo Signore e Creatore del cielo e della terra. Nun fa sconti, è stato troppo fetente. E mò addà pagà fino all’ultimo. Ci vediamo domenica prossima, Salvatò. Io ccà vengo. E a te ccà te trovo”.
Dite che pure zia Nunziatina era un personaggio? E chi lo nega. Ad un certo punto della storia della famiglia l’abbiamo soprannominata Highlander perché è stata l’ultima dei Pellecchia della sua generazione a passare nel mondo dei giusti, quando ormai i 90 anni se li era lasciati alle spalle da un bel pezzo, ma il suo vero nome d’arte era tutto un programma: “Ciuccio ’e fuoco”. Si, zia Nunziatina era un personaggio unico.
Con papà, il più piccolo dei fratelli, unico maschio sopravvissuto, amato e coccolato dalle quattro sorelle, c’era stato una volta un siparietto tragicomico di quelli che sembrano usciti dalle commedie di Eduardo.
La scena: il letto di morte di zia Assunta, la seconda sorella di papà. I Personaggi: papà e Zia Nunziatina. L’azione: papà che piange inconsolabile la sorella; zia Nunziatina che arriva claudicante, ansimante, piangente a metà, abbraccia papà, prende a piangere a dirotto, lo abbraccia più forte, si stacca, lo guarda e gli dice “Ferdinà, simme rimasti io e te, mò devi morire sulamente tu”. L’epilogo: papà che rimane dapprima esterrefatto, poi la guarda, la tocca come a spingerla via, si tocca come a cercare conforto là dove non batte il sole, prende aria e poi finalmente sbotta: “Nunziatì, ma pecché, nun può murì primme tu, ca tieni pure vintanne cchiù ’e me?”. Se avesse potuto, credo che anche zia Assunta sarebbe scoppiata a ridere; di certo non se la prese per il sorriso che illuminò per qualche istante i volti di tutti i presenti.
Zia Nunziatina era fatta così. Era l’essenza della bontà. Pensate che il giorno di San Gennaro si faceva più di due chilometri a piedi per portarmi in regalo una scatola di biscotti e festeggiare il mio onomastico. E che dire dell’uovo di papera sbattuto che mi preparava una mattina sì e una no quando passavo da lei prima di andare a scuola? Già di per sè, l’uovo era il doppio di quello di gallina, poi ci metteva due cucchiai di zucchero e un goccio, così almeno diceva lei, di marsala, roba che se a scuola mi avessero fatto il controllo antidoping mi avrebbero sbattuto fuori almeno per un trimestre: “Bevi a zia, bevi, che tu devi crescere e l’ovetto ti fa bene”. Azz., lo chiamava ovetto. Ancora oggi quando mi chiedono da chi “ho preso” il mio 1 metro e 97, non so se dare la colpa al papà di mamma, 1 metro e 83, un’altezza esagerata per i suoi tempi, o alle uova sbattute di zia Nunziatina. Eppure, cose da non credere, una donna con queste caratteristiche aveva una capacità unica di dire la parola sbagliata al momento giusto, quello buono per creare scompiglio, provocare un equivoco, insomma far scoppiare un casino. Le veniva naturale far litigare tra loro le persone, persino quando l’intenzione era quella di mettere una buona parola. Faceva una sola eccezione, e la faceva per la famiglia Pellecchia. Le Scippacercola, le sue figlie, da adulte erano diventate, come diceva lei, “parenti laschi”. I Pellecchia no.
Ho ancora davanti agli occhi la scena il giorno della morte di mio padre. Matteo, il terzo, ci raggiunge nella sala mortuaria e ci dice che sta arrivando Highlander. Le vado incontro assieme a Daniele e Michele, i figli gemelli di Armando, due ragazzi formato marcantonio che al tempo non avevano ancora 13 anni. Zia Nunziatina ci vede. Si ferma. Mi abbraccia. Piange. Si volta verso uno dei ragazzi e gli chiede “tu sei un Pellecchia”. “Sì – risponde lui, timido -, sono il figlio di Armando, lui è mio fratello Michele”. Lei guarda un po’ qua, un po’ là, si soffia forte il naso, fa “due Pellecchia, bravi, crescete e moltiplicatevi”, mi infila il braccio sotto al braccio, fa un cenno con la testa e ce ne andiamo da papà.

 

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  1. Carmine
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    Bellissima, ti fa capire la vita quotidiana.e i grandi sacrifici fatti da i nostri genitori .in quella CHe e stata una era dove non c’erano cellulari tv e pc.ma cera quella che negli ultii anni si sta perdendo cioè la famiglia.

    6 anni fa

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