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Dimmi la verità
Scheda Verificata

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Dimmi la verità

Località Rocca Calascio
67020 Calascio (Aquila)
Storie d'Amore Racconti
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Dimmi la verità

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Mi dovevi una spiegazione, Riccardo. Esigevo una risposta. Qualcosa che mi confortasse, che mi scaldasse durante la notte. I medici ripetevano che si manifesta in mille modi, la bestia proteiforme. Che ti assale quando meno te l’aspetti e ti fa sragionare. Avevo bisogno di certezze, cazzo: sono malato? Sono davvero un caso disperato? Dovevi starmi vicino, non lasciarmi da solo. Rinunciare alla cena della vigilia. Rimanere con me. Tutta la notte. Abbracciati. Stretti fino a soffocare la bestia nel corpo. Uniti fino al domani. Se fossi riuscito a vincere il panico almeno nel giorno di Natale, ne sarei stato fuori. Definitivamente fuori. E saremmo potuti tornare insieme.
Avevo bisogno di certezze. Lo sapevi, Riccardo. Te l’ho confessato subito, da quando abbiamo deciso di metterci insieme. Non ti ho mai nascosto nulla, anche se tu non mi ascoltavi, sempre pronto a defilarti dall’eccessiva intimità, non resistevi più di qualche ora nella casa che condividevamo. Il tuo modo d’amare, certo. Distratto da richiami delle sirene che risuonavano nelle stanze e che solo tu percepivi. Eppure quando c’eri, quando ti fermavi, la casa tornava a riempirsi della tua essenza, si illuminava di un alone sconosciuto. Non la notavi anche tu la differenza, com’era facile parlare senza preoccuparsi di soffocare quell’eccessiva intimità? Quante volte, Riccardo, ti ho ripetuto che non potevo brancolare nel buio, che avevo bisogno di certezze. Per una volta era necessario prenderti la responsabilità di dirmi come stavano le cose: perché le gambe mi tremavano e cuore e polmoni si fermavano all’improvviso? Per quello che chiamano panico? Subdolo, strisciante, ammiccante come le lucine intermittenti che addobbavano la casa, il giardino, gli alberi. Se quella sera fossi rimasto con me, avresti potuto spiegarmi che cos’era quella bestia che tornava sempre a Natale. Invece mi davi le spalle, facevi finta di sistemare il camino. Cazzo, avevo bisogno di certezze. Ma da te nessuna risposta, Riccardo. Non ti sei mai voltato a guardarmi, nemmeno una volta a sapere come mi sentissi. Se non volevi abbracciarmi, potevi almeno guardarmi.
Ti avevo promesso che non avrei reagito male. Qualsiasi verità avresti voluto confessarmi. Non mi hai abbandonato per sfizio. Non hai lasciato la casa per capriccio. Sapevi qualcosa che non volevi dirmi, che non avevi il coraggio di affrontare con me, che nascondevi anche a te stesso. Altrimenti non si spiega perché te ne sei andato senza dirmi la verità e perché tornavi qui quando si faceva opprimente il richiamo della famiglia e l’unico modo che conoscevi per placarlo era risalire all’origine del dolore. Sempre ad armeggiare davanti al camino. Che ti sei messo in testa? Di stupirmi? Poi hai preso una bottiglia di vino dalla dispensa e ti sei seduto accanto a me. Ho respirato il tuo fiato acidulo che mi alitavi in faccia, mi ero inebriato anche della tua razione di rosso. Era come se mi avessi sputato in faccia e io a leccarmi le labbra con l’umido della tua saliva viscosa che sapeva di vino e di troppo tabacco. E da quegli umori aspettavo finalmente la verità, quella che ti ostinavi a proteggere. Non era lei, Riccardo, che dovevi proteggere. Eravamo noi due, noi come unica entità che necessitavamo di  protezione. Altrimenti come avremmo potuto sperare di tornare insieme? Avremmo dovuto abbandonare almeno per quest’anno le famiglie. Ci hanno separato a ogni festa, avrebbero continuato a farlo se gliene avessimo offerto l’opportunità. Era necessario trascorrere un Natale per conto nostro, almeno uno. La bestia sarebbe sparita, se solo fossimo riusciti a stringerci senza mai lasciarci, dall’oggi al domani, a svegliarci stanchi per lo sforzo di restare incollati. Potevi immaginare come sarebbe stato bello lasciare le imposte aperte, spegnere la luce e far entrare solo l’intermittenza delle luci degli addobbi che coloravano il giardino? Potevi immaginare come sarebbe stato ridicolo provare a contare i secondi che passavano tra un colore e l’altro? Ero sicuro che se avessimo provato a giocare insieme, il panico si sarebbe spaventato della nostra felicità, si sarebbe sentito un intruso e sarebbe sparito da noi, almeno per il Natale.
Dove ci siamo bloccati? Non ne abbiamo mai parlato seriamente. Non me ne hai dato il tempo: hai sbattuto la porta, mentre ero in cucina. Non potevi farla franca. Quella sera non potevi svignartela senza raccontarmi in che punto la relazione si era incrinata. Sbuffavi con la solita aria di sufficienza. Non avevi ancora bevuto abbastanza per coprire l’odore di fumo che usciva con il fiato. Dove ci siamo bloccati, Riccardo? Fissavi le luci intermittenti della porta, rischiavi di ipnotizzarti senza neanche avermi baciato. Avevo bisogno che rimanessi vigile per la resa dei conti. Lo sapevi meglio di me che tutto era iniziato la prima notte insonne. Non credevo a chi ci metteva in guardia sul fatto che ci si può scannare per la carenza di sonno e di aria. Male sopportavo quelle malelingue che invidiavano il mondo che avevamo costruito intorno a noi. Però presto si è manifestato quel maledetto respiro a vuoto. Incameravo aria che disperdevo in zone inutili del corpo. E quella sensazione di buio pesto intorno. Avevo bisogno della tua luce. A letto, insieme, ti scuotevo come un corpo privo di vita. Imploravo affinché ti svegliassi. Riccardo, Riccardo, soffoco, non respiro. Ma tu non reagivi. Eri privato della spina dorsale, contrito come un sacco vuoto, inerte, grezzo come la iuta. Non riconoscevi il tocco di chi ti accarezzava da cinque anni. Dormivi o facevi finta per non essere disturbato. Oppure eri drogato dal vino della cena, come se avessi fatto uso di polverine stravaganti. Già in quella notte insonne mi sopportavi a malapena. Non ti importava del cuore che sentivo in gola, del tremolio infinito alle gambe. Non potevo morire nel letto accanto a te, non potevo finire così. Non avrei sopportato di presentarmi a te, stanco e prosciugato dal panico. Allora il tum tum sconsiderato del sangue si era trasformato in grido di dolore. Un grido penetrante, che aveva frantumato il sonno drogato. Abbiamo smesso di dormire da quella notte, prossima a un altro Natale, carica di separazione, di incomprensione, di richiesta di famiglia.
Avevo bisogno di certezze, cazzo. Eri davvero distante quella sera, che cosa aveva di tanto attraente il camino? Non avevi bevuto abbastanza da scioglierti? Avrei potuto offrirti un altro bicchiere, se solo mi avessi lasciato avvicinarti senza avere quella reazione che detestavo, quella reazione umiliante di ritrarti alla mano che ti sfiorava. Ti sei voltato per scusarti con un sorriso. Avevi gli occhi rossi come il calice, rossi di alcol e di fumo del camino. Ti sei immobilizzato, cristallizzato come per incanto. Aspettavo una risposta, Riccardo: dove mi porterà la malattia che non ha nome, alla quale tu non vuoi dare un nome? Non azzardarti a uscire da questa casa senza dirmi la verità. Bastava poco. Lo dovevo sospettare. In fondo scappavi sempre di fronte alle malattie. Alla malattia di tua madre, che le ha sottratto la parola per un mese intero e tu piangevi sul mio grembo, che ritenevi miracoloso. Eri disperato all’idea di non poter più sentire la sua voce, di aver perso l’occasione di raccontarle quello che nascondi nella tua zona oscura, perché lei non avrebbe risposto, non avrebbe mitigato uno sguardo insostenibile con la diplomazia delle parole. Parlavi con me invece, ti sfogavi, ti laceravi all’idea che quel cervello malato sarebbe toccato in sorte pure a te, per fattori genetici o per pura empatia materna. E non sopportavi nemmeno me quando non riuscivo a reggermi sulle gambe e ti imploravo di sostenermi. Non perdevi l’occasione di inventarti una scusa per scappare a casa tua, rifugiarti in un nido malato pure quello, abbandonarmi a una malattia che non volevi affrontare. Ci pensavo spesso, mentre mi divertivo a deformare la tua immagine attraverso il liquido denso del calice: se non dovessi più guarire, ti spaventerebbe accogliere tra le braccia un mucchio di ossa amorfe e gettarle alla rinfusa nella fossa comune di un futuro incerto? Lo avresti sopportato, Riccardo? Ne dubitavo, amore mio, se hai giocato d’anticipo, scappando non appena ti hanno informato del nome della malattia: è panico? E’ psicosi? È pazzia? Avrò il diritto di saperlo, Riccardo. Avremmo fatto bene a rimandare l’ultimo addio, a tornare a letto insieme a fissare il futuro dalla finestra e le luci intermittenti del Natale malato, a raccontarmi la verità. E’ il panico quello che mi rende invalido in questi giorni di avvento? E’ davvero invincibile come penso? Non ci siamo spostati di un millimetro dalla posizione originaria. Bloccati, congelati davanti a quello specchio dell’armadio, negli occhi ancora le immagini del nostro gioco di scambiarci magliette e camicie, dopo aver ingaggiato una battaglia degli stracci fino allo stremo. Abbiamo incollato gli sguardi vitrei sulla superficie riflettente e la tua domanda risuonava a tradimento nella stanza, inaspettata. Te l’ho fatta ripetere due volte, perché non capivo: sono davvero brutto, mi hai chiesto.
Se mi avessi dato una spiegazione sul mio male di vivere, ti avrei confessato perché quella mattina non ho risposto alla tua domanda: sono davvero brutto? Come facevo a dirti la verità, Riccardo, io che fremevo per ascoltare la tua? Era evidente anche a te, tu che vedevi la tua immagine riflessa nello specchio del gioco mattutino. Vedevi, ma non registravi. Cancellavi con un colpo di spugna quel teschio che ti faceva ribrezzo e hai cominciato a gettarmi addosso non solo magliette e camicie, ma anche oggetti più pesanti: dovevo pagare pegno per averti sottratto il sonno prezioso con i miei attacchi di panico. C’era bisogno di chiarezza. Altrimenti saremmo diventati un mucchio di ossa confuse. Ossa anonime. Sarebbe stato questo il  nostro destino, se non avessimo trascorso insieme il Natale e al diavolo le famiglie che non ci volevano considerare, che in questi cinque anni hanno fatto di tutto per separarci. Se non ci fossimo raccontati la verità,  ci avrebbero gettati in una fossa comune, avemmo inciampato in mille altri teschi e avremmo continuato nella solitudine di due vite che non avrebbero mai comunicato. Avremmo potuto ancora salvare carne e sangue, se tu avessi ammesso che per colpa della separazione i miei battiti notturni erano impazziti. Gli esperti sostengono che gli attacchi di panico peggiorano con il tempo. Come potevo sradicarli, Riccardo, se nemmeno tu mi spiegavi che cosa significavano il cuore in gola, le gambe tremolanti, l’anima prosciugata? Aspettavo che mi sputassi in faccia la verità, cazzo. Avevo bisogno di chiarezza, allora. Che mi sputassi in bocca quelle parole che avevano il gusto del vino e del tabacco.
Abbiamo fatto la scelta giusta, decidendo di partire, di concederci il tempo necessario per scoprire la verità e la bellezza. Tre giorni tutti per noi. Palazzi, strade, vicoli ci hanno aiutati a dimenticare il panico, l’insonnia, l’ossario, la miserabile fine. Persino le notti insieme sono tornate a funzionare. Persino il dormire nello stesso letto e io che ti guardo e penso che è così semplice raccontare la verità e riprendere le abitudini di prima. La malattia, cui devo dare ancora un nome, non è così potente da dividerci. Riuscirò a dimostrartelo, a farti cambiare idea. Questi tre giorni insieme non sono un tranello. Sono reali, tangibili, come il tuo corpo che ho vergogna di accarezzare da sveglio e aspetto la complicità della notte per toccarlo, come non ho mai fatto per una vita intera. Però Riccardo, però …
Ti svegli con quell’idea fissa: saliamo sulla torre alta e fiera in mezzo al borgo, lassù si ripara la bellezza. Mi lascio trascinare dal tuo entusiasmo ritrovato. Procedo spedito, chiedendo alle tue gambe di seguirmi alla stessa velocità. La torre sembra chiusa al pubblico. Un cartello indica il telefono di un vicino, un misterioso possessore delle chiavi di quest’antico scrigno della storia. Tu insisti, un sacro fuoco sconosciuto ti spinge a salire in cima alla torre, alla scoperta di un dettaglio o di un segnale o di qualsiasi altra cosa. Presto scopriamo che il vicino misterioso non è poi così misterioso. Abita nella strada accanto alla torre, in solitudine, anche in questi giorni di Natale. Ha una gran voglia di chiacchierare e di sbandierare con orgoglio la scelta di isolarsi dal resto del mondo, di restare in questo borgo affascinante e discreto, anche quando la maggior parte degli abitanti ha deciso di abbandonarlo. Ci racconta di essersi autoproclamato custode della bellezza. Il nostro insolito terzetto ai piedi della torre è sovrastato dalla giornata perfetta, dal silenzio a singhiozzo, dal vento che piega gli alberi sulle case. La bellezza sta pure nelle nuvole striate, spalmate come tempera bianca da dita sapienti. Il guardiano della torre rigira tra le mani una grossa chiave arrugginita. Serve a sbloccare un lucchetto antelucano per aprire una porta in legno, agganciata a cardini fuori misura. Dentro, uno spazio di pietra, scalini consumati che annunciano la fatica di arrampicarsi in cima. Il custode ci lascia da soli nel silenzio singhiozzante. I gradini sono instabili, pietra resa scivolosa da piedi antichi. La scala inizia ad avvitarsi su se stessa: dammi la mano, Riccardo, ho paura di salire fin lassù. Ti stringo la mano e tu non sai far altro che rispondere: mi fai male. Pazienza, Riccardo, ho bisogno di stringertela fino a spremerne il sudore.


Smetti di aiutarmi, senza preavviso. Forse è l’effetto del luogo magico, oppure l’incantesimo della torre: sembri una statua di sale. Inizi pure tu a stringere le mie mani, ma con dita straniere, irriconoscibili dopo cinque anni. Proseguiamo la scalata del torrione senza voltarci, senza trasmetterci conforto. Avanzi spedito anche nei punti perigliosi, dove il corpo è costretto a restringersi per oltrepassare l’ostacolo. Mi trascini a forza. Soffoco dentro a quella prigione di pietra. Intorno a me ci sono il buio della torre e le correnti che si infilano nelle feritoie e mi schiaffeggiano il volto. E’ inevitabile, lo stavo aspettando. In un battibaleno si scatena di nuovo il ritmo anomalo dei battiti e il tremolio alle gambe. Ti imploro di aiutarmi, Riccardo, di venirmi in soccorso. L’eco delle pietre urla il tuo nome, ma tu sembri drogato, assente. Ti strattono, mi avvicino. Niente. Rimani in trance, procedi come un mucchio di ossa guidato da forze superiori.
La terrazza che gira intorno alla torre è ormai prossima. Strattono la tua camicia di lino, mi afferro all’unico appiglio familiare. Non voglio uscire allo scoperto. Non sono pronto ad affrontare il rumore degli alberi piegati sul borgo. Invece mi trascini oltre l’ultimo gradino per rivedere la luce. Mi colpiscono la cecità e lo sbandamento per l’aria troppo violenta. Il vento mi caccia fuori dalla bocca la disperazione. Riccardo ti prego, guardami. Ti scongiuro, fermami. Stringimi quella mano, trattienimi. Da solo non ce la faccio, non riesco a controllare il panico. Parlami, dimmi qualcosa. Accade tutto così, senza preavviso?
Le orecchie hanno deciso di abbandonare i suoni terreni. Le gambe hanno deciso di avere sofferto abbastanza. Il cuore ha deciso di essere stanco di correre a vuoto. E’ panico questo? Adesso puoi dirmelo, adesso puoi dirmi la verità. Rispondimi Riccardo, poi non ti tormenterò più. E’ il panico di una mente sfinita, che non aspetta altro che il gesto estremo per riposare? Nell’assenza della tua mano non sento più singhiozzare il vento. Mi guida una sordità nuova. C’è il silenzio assoluto e ci sono le sferzate delle correnti insidiose. La mia anima si trascina svuotata verso l’orlo del bastione. Apro la bocca per gonfiarla, come una mongolfiera che si erge in cielo prima di spiccare il volo. Sono carico abbastanza per provarci. E’ il giorno giusto, pieno di vento, per volare. Ti fermi alle mie spalle, ancora ubriaco di altitudine. Non fai un gesto per trattenermi, rimani lì a osservare la scena. Salgo sul bastione guidato dal panico. Decido di imitare la mongolfiera e di scaraventarmi in mezzo alla terra verde di frescura, laggiù in basso, ai piedi della torre per esserne inghiottito insieme alle radici. Riccardo, sei ancora in tempo per dirmi la verità.

Tra una chiacchierata e l’altra, davanti a un monitor, i due ragazzi si innamorano. Una sera Francesco confessa a Michele di essere un prete. Gli racconta un’esistenza inquieta fatta di fughe e pentimenti e la fatica di amare perché ai preti è vietato. Col crescere dell’intimità, Francesco riversa su Michele il fallimento di una vita nascosta nella religione per oscurare la sua omosessualità. Michele lo spinge ad abbandonare il clero, vuole una storia d’amore alla luce del sole. È stanco di nascondersi. Lo ha fatto per i lunghi e difficili anni vissuti in famiglia, alle prese con Sergio, il fratello omofobo, e con una madre che ha deciso di non conoscerlo veramente a fondo. Michele lotta così tra l’istinto di escludere il fratello dalla sua vita e il desiderio di renderlo partecipe dei suoi sentimenti. Questo rapporto ambiguo con Sergio si insinua nella relazione instabile tra Michele e Francesco e ne sconvolge gli equilibri, trascinando gli eventi a una svolta drammatica che segnerà il destino dei protagonisti del romanzo.

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