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Il ritratto del mio Maestro

Il ritratto del mio Maestro

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Il ritratto del mio Maestro

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Marzo 1946
Compito in classe della 5ª Elementare

“Il mio maestro si chiama Don Casimiro. È un uomo molto intelligente e buono che nasconde dietro la sua burberità un grande cuore. Quando lui ci parla io non mi stancherei mai di ascoltarlo perché sa dire tante belle parole che mi fanno battere il cuore. Il mio maestro ci parla sempre del Re perché ci dice che solo così si può mantenere alto il prestigio della nostra Patria. Ma io non capisco queste cose e gli voglio bene perché ci tratta a tutti come figli e ci fa sentire molto felici. Le sue parole sono come le carezze e anche quando ci rimprovera ci fa sentire allegri. Il mio maestro assomiglia a Garibaldi con la sua grande barba grigia e i baffi che si arriccia sempre con le dita, e anche per il suo sguardo sincero nel quale c’è tanta dolcezza. Ma rassomiglia anche a Giuseppe Mazzini perché ha la testa calva come lui. Però il mio maestro mi piace di più perché ama la campagna come me e veste semplice come i contadini, ma soprattutto perché ci sa spiegare molto bene le lezioni. Il mio maestro è molto onesto e generoso, e ci tratta a tutti con imparzialità e affetto smisurato” .

Quando Don Casimiro corresse i temi, arrivato al mio, ebbe uno dei suoi scatti imprevedibili, ma questa volta di gioia. Si alzò dalla sedia piantando sulla cattedra il trincetto che usava per gli innesti ed aveva sempre in tasca e deponendolo davanti al calamaio all’inizio delle lezioni, con il quale ci minacciava scherzosamente se non studiavamo o facevamo baccano in classe, esclamando:
“Bravo!, Bravo!, per la madonna, bravo Luigino!… Sentite tutti, silenzio, silenzio ho detto… Bravo, bravo, così si scrive. Luigino: vieni, vieni qui, prendi, leggi tu stesso…” E mentre io leggevo con la tremarella addosso, con voce rauca dall’emozione, Don Casimiro mi cingeva le spalle con il braccio sinistro, accarezzandosi la barba, e fissando la scolaresca con fierezza.
Quell’anno che volevo non passasse mai, invece mi sfuggiva come un aquilone rubatomi da un soffio di vento, proprio nel momento più bello. Eravamo nel mese di marzo del 1946: mancavano circa tre mesi alla chiusura delle scuole. Intanto fervevano i preparativi per le prime elezioni. La campagna politica aveva portato qualcosa di nuovo che attraeva fiumane di persone nei centri cittadini, per ascoltare i discorsi degli uomini di partiti che predicavano giustizia, progresso sociale, pane e lavoro. La gente già aveva dimenticato la guerra, infervorata nei nuovi ideali, nel desiderio di eleggere un governo migliore a garanzia di una nuova vita fatta di benessere e di pace. La propaganda elettorale addobbava la città a festa. Il sole regnava sovrano nel cielo avviluppato da un panno zuccherino che raddolciva il colore vivace dei fiorellini già sbocciati sugli alberi e fra le macerie. Le rondini preparavano i nidi nelle fessure secolari del castello, e stormi di passeri si davano convegno sui ruderi delle case ricche di becchime. A sera, la gente si riuniva in piazza, mentre dal campanile della chiesa di Santa Maria rintoccavano le ore vespertine, e conversavano accaloratamente dei prossimi accadimenti, scambiandosi le impressioni e le simpatie circa i candidati all’Amministrazione Pubblica, e sui partiti che rappresentavano. Tacendo, strillando, gesticolando, applaudendo gli oratori che si scalmanavano in promesse di pane e lavoro, case per i senza tetto, nuove strade e il rispetto delle leggi di Dio. Una sera parlò Don Casimiro che si presentava a capo di una lista di tendenza monarchica. E accorsi a sentirlo, piazzandomi sotto il balcone dell’edificio dirimpetto al vecchio Palazzo del Principe. Quando Don Casimiro fece la sua apparizione, fiero, solenne, girò lo sguardo sulla massa di persone che lo fissavano in silenzio, ansiosi di sentirlo parlare. Molti di essi erano stati suoi scolari e ne parlavano sempre con ammirazione. Don Casimiro, più o meno, disse:
“Concittadini… non mi dilungherò in parole inutili. Abbiamo appena superato la guerra che ha portato tanto sfacelo alla nostra Cara Italia…Guardatevi intorno: macerie, macerie e quanti figli della Nostra Patria sono caduti sul campo di battaglia, in un supremo sacrificio per gli ideali inoppugnabili che rappresentano il patrimonio storico e glorioso della Nostra Cara Italia, tanto offesa e tradita, distrutta… Quanti figli, quanti padri di famiglia sono morti!… Li vedo combattere arditamente sui fronti, con la testa insanguinata, cadere sotto il tiro nemico, invocando il nome delle madri, delle spose, dei figli; il nome di Dio, portando in alto il Tricolore d’Italia! E quanti morti ancora sono sepolti sotto le macerie!…Vecchi, giovani, donne e bambini, massacrati dalle bombe, inumanamente…E perché?, perché?, io mi domando…”
Nella piazza si fece un silenzio assoluto. Le donne piangevano, e gli uomini avevano gli occhi rossi, come me, d’altronde. “L’Italia è stata ridotta a un cumulo di rottami, un immenso camposanto in cui i superstiti peregrinano di maceria in maceria, invocando invano i nomi dei loro cari perduti, avviliti, disperati, senza speranza… Bisogna rifare l’Italia!…”
Un vocio concitato dilagò fra la folla, come lo starnazzare di migliaia di anatre selvatiche assiepate in uno stagno. Un solo grido si levò:
“Falce e martello! Vogliamo falce e martello! Basta con le chiacchiere, vogliamo pane e lavoro, i nostri figli hanno fame… Fuori la monarchia! Evviva la Repubblica”, abbasso il Duce!, abbasso il Re!…” Don Casimiro barcollò, come se fosse stato colpito da una mazzata in testa. Rimase silenzioso, fissando quella folla che si era scalmanata, agitando i pugni in segno di minaccia. Don Casimiro si fece forza e la sua voce risuonò cupa, decisa. La folla tacque per un momento.
“Concittadini, Concittadini cari! Vi dico solo: badate al vostro voto. Un grave pericolo ci minaccia… L’Italia sarà sommersa da una valanga di lestofanti, di uomini senza Dio e senza scrupoli al servizio dello straniero, che si maschereranno dietro ai partiti, solo per i loro illeciti interessi, e distruggeranno quanto in Italia c’è di più sacro…” La folla lo interruppe concitata: “Falce e Martello! Vogliamo pane e lavoro! Abbasso il Re! Abbasso Mussolini! Evviva la Democrazia Cristiana! Evviva Stalin! Evviva la Repubblica! Evviva Vanga e Stella! Vogliamo pane e lavoro…” E con tanti altri sproloqui continuarono a gridare, inveire, fischiare, minacciare: ormai non li calmava più nessuno…

 

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