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Le sue orme sulla neve

Le sue orme sulla neve

Rione Santa Caterina
14100 Asti
Storie d'Amore Racconti
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Le sue orme sulla neve

visita su Google street view  

Aspettavo la neve quell’anno. Non so il perché. Ma mi era sempre piaciuta la mia città, avvolta da quell’incantevole candore. Vedere i soliti tetti rossi diventare poco a poco bianchi, togliere le due dita di neve dalla ringhiera del balcone; osservare i fiocchi scendere e tentare di contarli o di seguirne l’intero percorso dal cielo alla terra. C’era un qualcosa che m’affascinava in ognuno di questi gesti e sembrava davvero che tutto l’anno non aspettassi che quello. Anzi a dire meglio aspettavo solo quello, in quell’anno, perché forse avevo trascorso quei mesi in maniera opaca e spenta, senza nessuna vera emozione. Un grigiore insopportabile, di quelli che ti arrivano tra capo e collo; la noia forse, la solitudine, vallo a capire cosa è che mi rendeva grigio e insopportabile.
Dicembre era arrivato con un freddo glaciale che mi faceva rabbrividire ogni volta che uscivo per qualche commissione. Per fortuna che ho abitato sempre nel centro storico di Asti, città con un gran numero di negozi in rapporto alle persone. Infatti, solo nella mia zona, al confine fra il Rione San Paolo e quello di San Martino San Rocco, si trovavano botteghe, drogherie, market a tanto altro per qualsiasi commissione; e in più ci mettevo cinque minuti per andare da casa mia in qualunque posto. Dicevo però che il freddo di quel dicembre fu qualcosa di veramente eccezionale. Ma quando venne giù la prima neve, però, fu stupendo. L’aria sapeva di pulito e mi divertivo come un bambino a vedere l’impronta del mio piede rimanere impressa in quel bianco manto. Avevo in effetti un po’ la testa fra le nuvole quel mese, ma era chiaro che fossi in quello stato d’animo particolare, perché, perché…via, ero così! Scherzi a parte, avevo un’euforia in più nel quadro della mia vita. Samantha, la mia euforia, era un piccolo fiammifero dai capelli neri, di sedici anni. Dico piccolo fiammifero perché la sua persona era minuta, esile, ma non inesistente. Era molto carina di viso ed adorava parlare. Parlavamo molto quando eravamo insieme. Di tutto e di niente e camminavamo continuamente. Non stavo insieme a lei da tanto e, nonostante le nostre lunghe chiacchierate non ero convinto di conoscerla a fondo, ma le volevo un gran bene. Frequentavamo la stessa scuola, ma non la stessa classe ed era di un anno più piccola di me. Ancora ci ripenso ad uno di quei giorni, prima di uscire con lei, in cui, per scherzare, domandai alla sua amica di uscire con me. La poverina ci rimase così male che quasi pianse dal dispiacere, finché non riuscii a cavarmela in extremis e a far cadere tutto in un gioco. Io in realtà già l’avevo adocchiata fin dai primi giorni di scuola e, grazie ad amici in comune l’avevo conosciuta. Non so che cosa mi prendesse a me il vederla ogni mattina, questo prima di fidanzarci. Non so nemmeno come me ne innamorai, se di amore si trattò. Sì, devo dire adesso la verità, per quanto male possa fare. La mia storia con lei è stata anche un po’ la storia di tutti. Fin da quando ad un mio compagno di classe confessai il mio interesse verso Samantha, e da lì la voce si espanse e tutti si arrogarono il diritto di darmi una mano. Forse perché la conoscevano e sapevano che era una brava ragazza o perché essendo amici mi volevano dare una mano; ma anche se non l’ho mai detto, questa cosa mi diede piuttosto fastidio. Mi piaceva Samantha, è vero, ma essendo un tipo piuttosto all’antica, volevo fare le cose da solo, per conto mio. Forse ero anche egoista e non avrei mai voluto un vero aiuto dagli altri, quasi a non voler ringraziare nessuno, come se fossi geloso anche dei miei sentimenti, ma non volevo nemmeno dare un dispiacere a quelle persone che volevano darmi una mano con tutto il cuore. Durante l’intervallo, uno di quei momenti che all’inizio avevo per stare con lei, si creava una flotta di amici e conoscenti pronti per spronarci in maniera particolare a fare conoscenza. Sopportai questo genere di cose per non più di due settimane. Un giorno, un sabato, all’uscita di scuola, lasciando i miei compagni come dei fessi, mi precipitai da lei, che comunque era sempre in compagnia delle sue amiche. Me lo ricordo come se fosse ieri. Piccolina e con quei suoi lunghi capelli neri che mi facevano impazzire; quando la chiamai lei si girò verso di me e un bianchissimo sorriso le si aprì sul volto. Sulle prime rimasi un po’ stupito. Sapevo che aveva un certo interesse per me, e in quelle due settimane precedenti me ne ero accorto, eppure la sua naturalezza, nel sorridere e nel parlare, ancora una volta fecero colpo su di me:
–          Samantha? Samantha?
–          Ciao, ragazzo!
Rispose una sua amica, Marianna, una tipa molto carina decisamente, ma un po’ invadente. Aspettavo invece che fosse Samantha a rispondermi. Ignorai l’amica di sana pianta.
–          Posso parlare con te un minuto?
La mia richiesta doveva essere molto particolare perché iniziarono a ridere, non solo lei, ma anche le sue amiche. Mi trovavo di fronte ad un grande imbarazzo e forse il mio fare goffo e sgraziato poteva rendermi un po’ un buffone. Presi però il coraggio a due mani e aspettai. Volevo chiedere, molto semplicemente, un appuntamento, niente di straordinario. Samantha, dopo quel piccolo sorriso, socchiuse gli occhi:
–          Va bene, posso fare qualcosa per te?
–          In un certo senso…Sì, avrei piacere…volevo, sì insomma…
Alla faccia della deficienza e dell’impacciataggine! Dovevo soltanto chiederle un appuntamento, mica farle una proposta di matrimonio! E fu lei di nuovo a spiazzarmi. Come se non avesse sentito una parola che una delle mie, mi domandò:
–          Possiamo uscire, se vuoi…oggi pomeriggio? Se non hai da studiare.
–          Oggi? Studiare? Sì e no, volevo dire: uscire sì, altroché…Era la stessa cosa che volevo chiederti adesso.
–          Bene: pensiamo le stesse cose allora: buon segno.
Mi faceva piacere vedere che comunque, nonostante fosse timida, avesse anche una certa vitalità. Rimasi come un tonto per cinque minuti con una strana paura addosso: la paura di sbagliare, di dire qualche cosa che non andava per il verso giusto, la paura di imbarazzarla di fronte alle sue amiche; eppure non era certo la prima volta che facevo questo con le ragazze. Ma era anche quasi un anno che non uscivo più con nessuna. La mia ultima storia, Monica, aveva segnato il passaggio tra “Sono un adolescente che se ne frega di tutto” al “Bravo ragazzo che pensa già al futuro”. Quattro mesi, una storia, ma sì definiamola seria, dai, ma che non è durata perché entrambi non sapevamo molto bene cosa volere. E poi eravamo finiti per diventare la coppietta-fratello-e-sorella. Va bene: non era la primissima esperienza sessuale, ma non voglio vantarmi di cose che, alla bilancia dei fatti risultarono scarse e poco stimolanti! Dunque il periodo inattivo mi aveva fatto pensare di essere “fuori forma”. Fu piacevole scoprirsi di nuovo romantico e forse innamorato, ma in che misura non lo sapevo ancora. Io abitavo nella parte vecchia della città, quella che è, come ho detto, il centro storico; Samantha invece abitava, non dalla parte opposta, ma in una zona più nuova e periferica. Avevo intenzione di passare il pomeriggio solo in sua compagnia, ma dove? Nella zona dove abitava lei? No, assolutamente no; nella zona dove abitavo io? No, nemmeno per sogno. Ma non volevo fare tante storie per un primo appuntamento, ma così, sul momento, sì insomma mi vennero degli scrupoli, forse addirittura inutili. Però prima di andare a casa ci scambiammo, i numeri di telefono, cosa che non avevamo fatto fino ad allora casomai qualcuno di noi due avesse avuto dei ripensamenti, ma decidemmo subito il da farsi.
–          A che ora va bene per te?
–          Diciamo…Alle quattro all’angolo dei Portici?
Samantha valutò la proposta; non sembrò molto convinta, forse era troppo presto come orario. Oppure non le piaceva il posto, ma ci avevo pensato bene prima di dirlo: era una zona centralissima della città da dove poi si poteva andare dove si voleva. E poi era sabato e come ogni sabato che si rispetti lo si doveva passare come un qualunque giovane astigiano: in giro, in centro. Almeno era questa la mia intenzione. La ragazza comunque mi rispose:
–          Per me va bene, basta che sei puntuale. Non sopporto i ritardatari.
Ero così all’apice della felicità che risposi con un flebile “va bene”, perché in realtà avevo solo voglia di urlare al cielo la mia gioia. Corsi veloce a casa come il vento. Forse è più corretto dire che volai; la scuola era abbastanza vicino a casa mia e non feci altro che contare le ore che mi separavano dal nostro primo vero appuntamento e per una volta senza nessuno intorno, ma solo io e lei. Comunque sia, Samantha non si poté proprio lamentare del mio ritardo. Sono forse disordinato e sconclusionato, ma ritardatario no. Ho già abbastanza difetti senza per questo aggiungerne altri alla mia lista. Arrivai con largo anticipo sotto i portici. Non mi ero vestito elegante, l’eleganza l’avevo sempre lasciata agli altri. Ero un ragazzo normale, come tanti altri che pazientemente aspettava una ragazza. Tutta lì la cosa: semplicissima, fin troppo. Ero in realtà agitato, ma questa agitazione me l’ero portata dietro fin da quando le avevo chiesto l’appuntamento: mentre mangiavo ero agitato, mentre mi lavavo ero agitato, mentre uscivo da casa mia ero agitato. E fui ancora più agitato quando, alla quattro precise, la vidi sbucare da dietro l’edicola che dava sulla piazza, a ridosso dei portici sotto cui attendevo Samantha.
–          Sei di parola vedo!
Mi salutò con un dolce sorriso e un misto di soddisfazione nel vedermi che l’aspettavo. Aveva una giacchetta di pelle nera, sotto cui spiccava una maglia di lana rossa, i jeans piuttosto attillati e aveva un bel cerchietto nero sulla testa per non farsi scompigliare i capelli dal leggero vento che tirava quel pomeriggio. Piuttosto raggiante, tuttavia mi imbambolai un attimo sul come salutarla: avevamo sì raggiunto un certo livello di confidenza, molto più del salutarci con uno smunto “ciao” ogni volta che ci si incontrava, ma ero indeciso se sarebbe bastato meglio darle tre baci sulla guancia, come era in uso a quel tempo tra ragazzi e ragazze (va bene: mica sto parlando del medioevo, ma fine anni novanta!). Stupidamente, agendo quasi meccanicamente invece di scegliere spavaldamente tre schioccanti baci e un abbraccio casto o salutarla a voce, misi la mano avanti per stringere la sua, comportandomi così da perfetto idiota. Ero uscito molte volte con molte ragazze, ma non mi ero mai sentito imbarazzato come in quel momento. Lei, con evidente voglia di scherzare, e pensando allo stesso tempo che io volessi prenderla in giro, mi allontanò con un piccolo schiaffo la mia mano e aggiunse:
–          Ma smettila dai. Salutiamoci come si deve!
E vidi lei, piccolina e minuta che si alzava sulle punte per potermi baciare meglio. Mi fece piacere in più di un senso.
–          Meno male… sono così imbarazzato!
–          Ma come? Ci conosciamo già da un po’ io e te. A scuola mica sei così.
–          Perché, come sono a scuola?
–          Direi…prestante!
–          Ma non mi sembra mica…cioè…non lo so! Do questa impressione forse?
–          Altroché! Ma non te la prendere a male, io lo dico in senso buono!
Mi sollevai sapendo che non pensava di me che io fossi il solito presuntuoso deficiente; tentavo, è verissimo di farmi vedere da lei, ma questo io non glielo dissi mai. Lo facevo apposta, ad esempio, ad alzare la voce, quando sapevo che c’era lei che mi guardava. Avevo un forte batticuore quando mi passava accanto e mi salutava con la mano leggera, sorridendo, guardandomi dritto negli occhi. Sembrava lo facesse solamente per me. Comunque sia passammo un bel pomeriggio da soli io e lei. Parlammo di tante cose quel giorno, ma se dovessi ricordarmi ora di cosa parlammo proprio non lo so dire. So soltanto che ridemmo e io, dopo una buona mezzora passata al bar, decisi che era il momento di fare una passeggiata. Girando per le vie più strette della città andammo ad inerpicarci su quelle piccole vie in periferia, ancora tutte costellate da vecchie case rotte. A freddo, ripensandoci, forse inconsciamente decisi per quello strano giro solo per poter star un po’ da solo con lei; in quel momento invece mi sembrò la cosa più naturale del mondo. Lei però sembrò leggermi dentro perché mi chiese.
–          Dì un po’: non avrai brutte intenzioni, spero!
–          Ma no, dai non scherzare!
–          E come mai andiamo solo per strade dove non c’è nessuno?
Guardandomi attorno notai che aveva ragione. Lì per lì non seppi cosa rispondere. Sorrisi soltanto e le dissi, molto naturalmente:
–          Perché a me piace molto la calma. E per parlare questi posti sono il massimo!
–          Ci vieni spesso?
–          Sì, sempre da solo però.
Mi affrettai a precisare. Non volevo sembrare il tipo che adescava le ragazze e se le portava via. Ma lei, evidentemente attenta alle mie parole, replicò:
–          Ma se sei sempre da solo con chi parli?”
L’imbarazzo scese ancora di più e divenni più rosso del suo maglione. Rise vedendo che non sapevo cosa rispondere. Ma invece di prendermela le dissi:
–          Mi piace il tuo sorriso!
–          E a me quelli a cui piace la calma!
L’idilliaco momento però non durò molto, almeno quel giorno. Doveva ritornare in fretta a casa e, accorgendosi del ritardo mi chiese solo di accompagnarla di nuovo in piazza, perché lì il padre l’attendeva per portarla a casa. Affrettammo quindi il passo e arrivati in piazza ci salutammo senza troppe cerimonie. Il sabato era passato, ma la voglia di vederla no e mi ritornarono più volte nel corso della serata tutti i momenti che avevamo passato assieme.
 
Se per caso ho detto che la mia storia con Samantha è stata la storia di tutti un motivo c’è ed è piuttosto importante. Nei giorni successivi i miei amici mi bersagliarono di continue domande su com’era andata il sabato, se l’avrei sentita di nuovo e – pace – se me l’ero portata a letto. Mi sembrava quasi incredibile con che morbosità si fossero attaccati a me. Rivedendo poi Samantha a scuola, parlando con lei, mi disse la stessa cosa delle sue amiche. Io a dire la verità non davo molto peso ma anzi, volevo godermi con calma questa dolce amicizia che stava nascendo tra me e lei. Sì, perché nei giorni successivi uscimmo ripetute volte nel pomeriggio. La scusa buona che trovava lei, o più spesso io era quella di aiutarla con le materie in cui lei era carente. La scusa non reggeva molto, visto che anche io ero più carente di lei, non in certe materie, ma in tutte. E così successe poi come succede sempre: dai e dai, se due persone si trovano bene fin dall’inizio, prima o poi trovano talmente irresistibile la voglia di buttarsi uno nelle braccia dell’altra che alla fine ci si mette insieme. Successe questo quando dopo tre settimane dalla nostra prima uscita, io mi sentii abbastanza sicuro e convinto di poterle chiedere di stare insieme a me. I miei compagni, con cui alle volte uscivamo assieme a lei e alle sue amiche, non mancavano occasioni per spronarmi, per farmi mettere con lei e di insomma unire al più presto possibile due che secondo loro, erano già belli che fidanzati. Riaccompagnandola a casa, per una volta tanto, da sola, prima di lasciarla andare nel suo appartamento, buttai una battuta:
–          Sai che la tua amica pensava che fossimo già fidanzati?
–          Ah, sì… guarda che strano…anche io lo pensavo.
La sua risposta mi sorprese molto. Ma mi sorprese ancora di più lo slancio con cui mi abbracciò dopo quella frase e chiudendo gli occhi mi porse il viso. Io già ero pronto per fare un discorso di quelli memorabili, di finire in bellezza e invece la semplicità, la fragrante bellezza di una piccola ragazzina dagli occhi vispi e dal sorriso morbido mise al tappeto qualunque mio proposito. Quella sera, invece di parlare, la nostra prima serata insieme, la passammo mano nella mano, abbracciati, sotto al portone di casa sua. Senza parole da dire.
 
Come spesso capita, una volta fidanzati si trascurano un po’ gli amici per stare da soli. Credevamo che, dopo quel periodo di rodaggio, attorniati da amici e parenti che non vedevano l’ora che io e Samantha convolassimo a giusto fidanzamento, meritassimo un po’ di tempo per noi e volevamo far crescere il nostro rapporto sotto una luce diversa e tranquilla. Ma i nostri posti preferiti, a differenza di altri, erano i cantieri. Sì, avete letto bene; i cantieri dei palazzi erano i nostri ritrovi quotidiani, e in quel periodo, ad Asti, ne sorgevano a bizzeffe. Tra i palazzi vecchi di centinaia di anni si inserivano tonnellate di cemento e mattoni, gru, paranchi, carriole e mattoni rotti. Quando il giorno declinava presto, al sabato, giorno di riposo per i manovali, io e lei ci inerpicavamo lungo le scale ancora nuove, attraverso le stanze spoglie, a cavalcioni sul davanzale di una futura finestra. Sulle scale, tra gli attrezzi sparsi dei muratori; parole e sguardi si accoppiavano frenetici mentre nel freddo pungente di quel luogo scarno ci abbracciavamo nei nostri vestiti pesanti. Intanto la neve fuori copriva il rumore della città. Stando ad osservare da un terzo piano di un palazzo, guardavamo ora la Madonna del Portone diventare bianca o la Torre Rossa innevata in cima. Il vento entrava all’interno al palazzo e faceva oscillare i cartelloni posti all’entrata, la rete arancione, i paletti mal messi che talvolta cadevano.
 
Parlavamo tranquillamente, ridevamo e ci scambiavamo pensieri. Insieme a carezze ed effusioni perché non siamo mai stati santerellini e quando si poteva ci si appartava per … ma comunque dicevo che quando poi si faceva tardi ritornavamo sui nostri passi, divertendoci a camminare appaiati e, in quel periodo che era caduta la prima neve, andarci sopra e vedere i nostri passi segnati.
Un giorno di questi, senza sapere nemmeno come, mi svegliai con uno strano senso di oppressione che non mi lasciò per tutta la giornata. Erano da poco terminate le scuole per le vacanze di Natale (E Natale e Santo Stefano lo avevo passato lontano da lei, causa parenti invadenti) e io e Samantha potevamo stare da soli per i fatti nostri tutto il tempo. Sentivo dentro di me che qualcosa opprimeva la mia felicità, la mia voglia di fare e di stare con lei. Fin dal mattino avevo questa strana sensazione, ma alla sera, quando la incontrai, non volli farle sapere nulla. Pensavo fosse solo una sensazione passeggera, dettata da chissà che cosa; eppure me la sentivo, che ronzava nella testa e volteggiava nei miei pensieri. Mi si aprivano immagini tristi e spoglie come gli alberi che osservavo insieme a Samantha. Era come se io vedessi me stesso da solo osservare con amarezza quei luoghi che qualche giorno prima avevo visitato insieme a lei. Mi spaventai; sentii un freddo intenso e non certo per l’inverno. Vedendomi scurito in viso Samantha mi chiese:
–  Oggi sei strano! Non hai detto una parola!
– Non posso sempre parlare.
– Ti vedo triste: è successo qualcosa?
– No, niente.
Avrei voluto dire: “Ancora niente”, perché era quello che pensavo. Mi girai, dopo averle risposto, la guardai e sforzai il sorriso che mi venne fuori.
– Tu ti sei stancato di me?
Fu una domanda apparentemente senza senso né giustificazione, quella che mi fece. Mi lasciò di sasso. Non mi era passato di mente quel genere di pensiero, per nulla, ma sembrava che quel mio stato d’animo potesse darlo a vedere. Ero preoccupato, sembrerà strano, di qualcosa, anche se non sapevo nemmeno io di cosa. Era chiaro in particolare che lei invece era preoccupata per il nostro rapporto. Di solito ero molto affettuoso, molto simpatico. Scherzavo sempre con lei. Quel giorno mi sentivo attaccato a lei come in nessun altro giorno. Avrei voluto abbracciarla e tenerla stretta a me, finché la sera non fosse calata del tutto. Avrei voluto parlare con lei fino a che la neve non avesse ricoperto ogni cosa; ma mi sentivo bloccato da una forza senza spiegazione, senza nome. Ma quella domanda era senza senso, era inutile, per me, ma doveva significare ben qualcosa invece per lei, visto il tono di preoccupazione che venne fuori dalla sua bocca. Puntai i piedi, strusciai la punta come se volessi spegnere una sigaretta. Presi a cacciare l’aria dalla bocca. Il calore del mio corpo, come una ciminiera, si sparse nell’aria e in un attimo svanì. Lei attendeva ancora una mia risposta, appoggiata ad una finestra. La gru gialla era immensa e immersa dalla neve. Un vecchio palazzo, come un vecchio grinzoso, sembrava osservarci. La piccola Madonna d’oro che troneggiava sulla chiesa splendeva grazie alle luci. Era calata la sera.
– No, non mi sono stancato di te.
– Sembra quasi di sì. No, forse ho sbagliato dai; non me lo so spiegare, ma forse è solo una mia impressione, scusami.
– Ma di cosa ti scusi? Non c’è niente da scusare.
– Hai mai pianto veramente?
– Sì, almeno credo.
– Non parlo del pianto perché ti sei fatto male, ma del pianto liberatorio o per la tristezza o per… per qualcosa.
– Non ci ho mai pensato a dirti la verità. Ma perché me lo chiedi?
– Stamattina ho pianto. E non so nemmeno perché. Ho pianto appena mi sono svegliata.
– Ti era mai successo prima?
– Non così. Io sto bene con te, perché mi trovo a meraviglia, non ho grossi problemi, ma mi sentivo lo stesso sola.
Era tenera la sua voce. Gli occhi brillavano e continuammo i nostri discorsi, ma ero sempre più preoccupato. Quella mattina si sentiva sola… stava forse cambiando qualcosa? Non lo so. Non volevo che andasse via, sentivo però che in qualche modo stava scivolando via, stavo iniziando a perderla. Sentii un nodo alla gola quando cercai di spiegare che cosa sentivo, ma non ci riuscii. Non passò neanche un’ora che lei mi disse che doveva andare con suo padre, non so dove.
–          Sì, oggi ci lasciamo prima. Scusami, devo andare. Oh! E’ tardi, scappo.
–          Aspetta, ti accompagno io!
–          No, non ti preoccupare per me. Ho detto a mio padre che mi trovavo in zona e mi aspetta alla Torre rossa…
Un bacio tenero e scombinato. Gli stessi sorrisi di sempre e poi via: la vidi correre per il cortile imbrattato dagli attrezzi e coperto di neve. I suoi passi rimasero ben visibili. Osservai lei andarsene di corsa; osservai le impronte una ad una. Non mi mossi minimamente; non feci neanche cenno di accompagnarla. Rimasi fermo e immobile, rimasi freddo, non so il perché. Sono rimasto a lungo senza un perché. Intanto si era alzato un vento gelido, sibilante ed è iniziato a nevicare quando scomparve dalla mia vista. Aspettavo la neve quell’anno, non so perché. Aspettavo la neve ma quando quel giorno la vidi cadere ogni fiocco sembrava un battito del mio cuore. Alle mie spalle il vento continuava ad urlare senza sosta. Sentii sbattere una porta, anche se lì porte non esistevano ancora. Intanto la sera calava e per più di un’ora rimasi immobile, ad osservare le sue impronte sulla neve.
 
Difficile? No, non lo è stato. Me lo aspettavo? No, non credo, non penso. Sarei stato un menagramo, un pessimista, in caso contrario. Di colpo, un freddo e duro dispiacere ti arriva addosso e ti scuote dentro; in quello che hai di più prezioso. Non senti più niente dentro, non hai più volontà, non hai niente per cui vivere. Solo vuoti, di occhi, vuoti di memoria, vuoti interiori. Spezzato, con le mani intrecciate in penose preghiere che ti paiono inutili e pensi ad una marea di “Se”.
Se l’avessi accompagnata. Se fossi stato con lei. Se non avessi fatto questo, se non avessi detto quest’altro. Tutte le supposizioni ti vengono fuori e non ti aiutano, il perché delle cose arriva sempre dopo; dopo che hai pianto, dopo che hai svuotato la tua rabbia con gli altri, dopo che hai dato la colpa a tutti e a tutto. Dopo il perché salta fuori, mai prima. Prima hai solo confusione.
Volevo impazzire. Non ci sono riuscito. Mentre guardavo l’ultimo suo viaggio non avevo più niente in testa. Non ho avuto nemmeno il coraggio di guardare quel letto di legno, dove avrebbe riposato. A testa bassa così, passai giorni e giorni. Una botta, uno scivolamento: “E’ colpa di quello che non gli ha dato precedenza!”, “No, è stato lui che non rispettato lo Stop!”, “Troppa imprudenza!”, “Andavano forte tutti e due!”, “E’ colpa dell’altro ti dico!”, “Aveva ragione lui!”. Troppo semplice, ora, dare colpa a questo e ragione all’altro. E’ inutile attribuire mancanze e sfortune a chi non c’è più. Era finita. La sua semplice vita non esisteva più. Solo questo riuscivo a capire e a non capire contemporaneamente. Un giorno l’avevo vista correre sulla neve e poi… Il niente era piombato la mattina successiva. Perché la sera prima non ci eravamo sentiti per telefono. Non era ancora rientrata con il padre, questo mi disse la madre. E non lo venni a sapere da una telefonata lacrimante, ma da terzi. Intanto la sera prima le notizie si accavallavano senza senso. Ho sentito dire… mi è parso che…; nomi, luoghi e situazioni che mi parevano familiari continuavano ad arrivarmi all’orecchio. Il senso di inquietudine del giorno prima non era terminato, era stato semplicemente soppresso. Non mi accorsi di nulla. Eppure si dice che se due persone hanno un legame particolare, tutti e due sentono le sensazioni dell’altro o quantomeno sentono se succede qualche cosa di grave. Sentivo solo disagio; come quando la incontrai e poi quando si allontanò. Forse dovevo capirlo. Perché poi non capii più quel che mi accadde. Non vidi nessuno dei miei compagni di scuola quel giorno; girai solo come un cane nel freddo invernale perché volevo stare da solo. Pensavo che ne avrei parlato a Samantha la sera dopo; forse lei avrebbe potuto aiutarmi, dato che era la mia ragazza e avevamo sempre parlato. Le strade erano sferzate dal vento e colpite da un po’ di nevischio. Arrivato a casa seppi tutto dalla televisione, da un notiziario locale che, come a farlo apposta, scandì chiaramente i nomi di Samantha e del padre, insieme ad altre due persone, coinvolte in un incidente la sera prima. Stavano percorrendo la statale quando una macchina in direzione opposta ha cominciato a sbandare non si sa bene per cosa. L’auto dove c’era anche Samantha, almeno così diceva il notiziario, non aveva potuto fare nulla. Ma l’automobile era quella, l’avevo riconosciuta. Anche perché fecero vedere la foto del padre. Non mi venne neanche da gridare, non ebbi alcun sussulto, almeno esteriormente; rimasi a guardare, immobile come il giorno prima. Faceva freddo, ma non troppo perché la neve aveva ripreso a cadere; anche io. Pensandoci bene non credo di avere avuto una reazione normale. Non sapevo più quel che facevo. Sapevo solo una cosa: la sua vita, la sua semplice vita non esisteva più.
 
Come in preda ad un sogno rimasi imbambolato per tutte le feste. Non mi ricordo nemmeno quanti mi telefonarono per testimoniarmi la loro incredibile sofferenza; non me lo ricordo più e non mi importava più. Tentai soltanto di non ricordare più, di non tornare indietro con la memoria. Spesse volte, anche se ho ricordi vaghi, in quei giorni tentavo, almeno in parte di afferrarmi ai ricordi più vecchi della mia infanzia, ma senza successo. Tutto mi sapeva di finto e vuoto, privo di emozione, e passai, dopo quel giorno, più di due settimane in completa catalessi.
 
Gennaio era finito. L’anno nuovo non portò nulla a cui non fossi preparato. Ritornai a scuola con non so che convinzione. I miei amici furono schivi e a dire la verità molto discreti con me. Stessa cosa con le amiche di Samantha, che in parte erano diventate anche mie amiche. Nessuno voleva guardarmi negli occhi e io, ne fui felice. La solitudine, questa volta obbligata, mi aveva portato un po’ di pace, dopo il caos dell’incidente. Passeggiavo tranquillo e sereno, per quanto era possibile, lungo Via Carducci. Mi piaceva quella via; era solitaria e nascosta agli occhi della gente. Era come se fosse stata la sorella minore di C.so Alfieri. Passava quasi parallela al corso e l’accompagnava verso la sua fine a Piazza Porta Torino. Si immetteva poi in una piazzetta piccola e spoglia, da cui partivano vie strette che si inerpicavano tremende su per costeggiare le Mura. C’era una piccola via, che si allungava in salita in modo tortuoso, che usciva da Via Varrone. Meccanicamente, quasi senza rendermene conto mi avviai e con un senso di oppressione mi ricordai di esserci già stato il mese prima, con Samantha. Descrivervi il mio stato d’animo d’allora non sarebbe cosa gradita a me. Non siate sadici, non chiedetemelo. Non chiedetemi neanche come mi sentii quando riconobbi quel palazzo in costruzione, dove l’avevo vista l’ultima volta. Un mese era passato e tutto sembrava già diverso. Già gli infissi sulle porte, un cancelletto messo alla bell’e meglio, cavi elettrici, tubazioni, la facciata intonacata. Quasi tutto era cambiato, ma avanzai ugualmente, rischiando anche di farmi male con gli attrezzi lasciati in giro dagli operai. Camminando, tentando di ricordare, percorrevo gli stessi passi. E’ strano a spiegarsi, ma ora che mi viene alla mente non ho ricordi di pianto, quando invece avrei avuto tutte le giustificazioni possibili. Non mi ricordo di una lacrima. E stavo male, stavo veramente male, quando ci pensavo, ma non piangevo. Non sono mai stato un duro dalla scorza d’acciaio e comunque per quanto un possa essere duro certe cose ti segnano nel profondo. Eppure non venne fuori una lacrima dai miei occhi. Né prima, né durante, né dopo. Qualcuno, dopo Capodanno – questo me lo ricordo – venne a chiedermi come stavo e via dicendo: mi disse anche:
–          Chissà quanto avrai pianto!
Voltandomi verso di lui, come se fossi estraneo a tutto ciò che mi era intorno, risposi semplicemente:
–          No, non ho pianto.
Evidentemente avrà pensato che ero stato così forte da trattenere le lacrime. Eppure penso che la forza di una persona si veda dalle lacrime che uno sa versare. Chi per dolore o per gioia, le persone che hanno la forza di piangere si scoprono non fragili perché non nascondono ad alcuno i propri sentimenti, ma forti perché non si vergognano di mostrarli. E il perché non avevo pianto era rimasto un mistero insormontabile anche per me, io, il suo ragazzo. Non ero un familiare, questo è chiaro, ma le ero affezionato, le volevo bene… mi stavo anche innamorando di lei… e allora? Perché non piangevo! Forse era una difesa mia personale. Un muro esteriore che nascondeva un dolore che non si poteva dimostrare con le lacrime a nessuno. Non ero preparato, lo ammetto, a quanto mi accadde, ma chi lo è a questo mondo? Eppure questa cosa del pianto mi fece soffrire ancora di più di quanto non soffrissi già. E le parole di Samantha che mi chiedeva se avevo mai pianto veramente! Quelle me le ricordo: oh sì. Ecco, ora dirò una cosa e non so se faccio bene a farlo; mi prenderete per matto o chissà. Ma in quel posto in cui mi trovavo in quel giorno di febbraio – e in tutta la città – la neve era caduta varie volte da quel dicembre; tante persone, per ragioni di lavoro, avevano insudiciato con le loro scarpe stracciate il terreno coperto dalla neve e non si avrebbero mai potute riconoscere le varie impronte dalle altre. Invece, io, riuscii a distinguere chiaramente e dico chiaramente, una lunga fila di impronte, dello stesso piede, partire dall’androne del palazzo fino al cancelletto fatto di pali e di reti arancioni. Non erano impronte da uomo, ma di una scarpa molto piccola, femminile; sì le riconobbi: erano le impronte di Samantha. Erano rimaste li, fin da quando passò l’ultima volta. Quasi non ci credevo. Controllai varie volte. Ogni volta mi stupivo di più. Non riuscii a connettere in maniera totale e scappai. La paura che provai è indescrivibile. Non ne parlai con nessuno anche perché pensai di essermi sbagliato, di aver visto male, di essere naturalmente sconvolto. Forse erano di qualcuno altro, certamente. Come potevano rimanere per tanto tempo le impronte di chiunque. Ma con un senso che qualcuno potrebbe anche definire sadico, per giorni e giorni ritornai in quel luogo e, comunque, ogni volta vidi ancora quella lunga fila di impronte sulla neve, quelle che di solito rimangono per poco tempo e poi svaniscono quando qualcosa ci passa sopra. Le fissavo e le ammiravo. Non tentai neanche più di spiegarmelo. E pensai che mi avrebbero preso per pazzo se avessi detto qualcosa. Andai lì ancora più sovente, mi appostavo, aspettavo l’uscita degli operai, vedevo che passavano nello stesso punto dove avevo visto le impronte e poi mi mettevo con la faccia contro il cancelletto: non mi potevo sbagliare, quelle impronte, tali e quali a quelle che avevo visto la prima volta erano ancora lì. Di giorno e di sera. Un giorno, mentre le guardavo esterrefatto ancora di più, sentii qualcosa dentro di me e mi ricordai delle ultime parole di Samantha:
– Ti sei stancato di me? – Ancora quella domanda.
– Come potrei stancarmi di te?
Quelle impronte divennero una cosa ancora più sofferente della perdita a cui ero andato incontro. Ci soffrivo. Ci soffrivo per quella domanda, non solo perché erano quasi come un segno di sfiducia sua, cosa che poi non è vera, ma perché a quella domanda non le avevo dato risposta. Non mi aveva lasciato il tempo di risponderle. Dio, già; non ho mai chiesto l’aiuto suo. Non sono ateo, ma la mia fede è quella di tanti altri, cioè che prende ciò che gli passa la vita. Non avevo mai pregato sinceramente e anche dopo l’incidente non rivolsi mai la mia mente nella preghiera, anche perché forse in fondo in fondo non ci credevo tanto. Ma dopo aver visto per innumerevoli volte quelle piccole impronte di scarpa mi rivolsi al cielo, tentando di avere una spiegazione. Nessuno poteva, forse, rispondere. Ero anche convinto di stare delirando e di essere diventato matto oppure pensai anche che fosse la mia immaginazione a farmele vedere. Tuttavia non ebbi il coraggio di andare lì, di toccare quella neve, di calpestare quelle impronte. Non ero ancora pronto forse. Era un segno? Non bastava forse che un incidente me l’avesse portata via? Non bastavano le lacrime maledette che non uscivano da questi occhi miei? Non bastava avere sensi di colpa perché appunto non avevo pianto e quindi, in realtà voleva dire che non me ne fregava nulla?
– Ti sei stancato di me? – Ancora quella domanda. Ancora senza una risposta.
Mi ricordo anzi adesso che ci penso bene, che ne parlai con Samantha di questa cosa: fu circa una settimana prima dell’incidente. Parlavamo delle cose che ci rendevano tristi e allegre. E lei mi disse che quando era triste piangeva spesso, io risposi che al contrario suo, non piangevo mai, anzi raramente.
– Se non piangi, come faranno gli altri a sapere che sei una persona meravigliosa e che ci tieni a qualcuno?
Mi prese in castagna perché non seppi cosa rispondere. Evasi il discorso molto abilmente e parlammo di altro quel giorno. E fu l’unica volta che entrammo in quell’argomento. Intanto però quelle impronte rimanevano lì, ad osservarmi, a farmi rivivere le sue ultime ore con me.
– Ti sei stancato di me?
Le risposi l’ultimo giorno che andai lì. C’era ancora un sottilissimo strato di neve e comunque le impronte erano lo stesso quelle di sempre, marcate, sempre di Samantha.
–           Ma perché non andate via! Perché non sparite di qui! Possibile che non vi sciogliate,
possibile che non ve ne andiate, che rimaniate sempre qui e io ogni volta devo vedervi? Dovete per forza ricordarmi quanto sono stato forte quel giorno. Dovete farmi per forza rivivere ogni maledetto momento?
Il mio grido si sarebbe sentito in tutte le case. Era sera e una luce fioca di un riflettore illuminava però bene il cortiletto. Gridavo e mi sentivo bruciare dentro. Sentivo un fuoco nelle gambe e con rabbia diedi un pugno contro una palizzata di alluminio. Avevo cercato di non pensarci, di non volerlo, ma ecco che qualcosa mi illuminò. Io non avevo partecipato al funerale e non avevo mai trovato il coraggio di andare a trovarla al cimitero. Evitavo di passare nella zona in cui aveva abitato. Però forse, in quel momento, il ricordo del suo sorriso e dei suoi occhi pungenti o forse il ricordo del calore del suo corpo che mi diede forza. Avevo vissuto come in trance senza accettare nulla, lasciando che tutto passasse come acqua, senza nemmeno rivolgermi a lei col pensiero. Volevo essere da solo quando da solo non lo ero mai stato. Sentivo ancora dentro di me quella domanda, insieme ad un’altra:
– Ti sei stancato di me?
– Se non piangi, come faranno gli altri a sapere che sei una persona meravigliosa e che ci tieni a qualcuno?
Aspettavo la neve quell’anno; lei aspettava ancora una mia risposta. Ecco cosa era: ora non potevo non farlo. Il ricordo del suo sorriso mi disse che la risposta l’avevo dentro di me. Mi inginocchiai davanti a quel manto bianco e dissi sottovoce:
– No, amore mio, non mi sono mai stufato di te. È solo che non accetto che tu te ne sia andata così. Com’è possibile? Mi hai lasciato solo il tuo ultimo passaggio su questo dannato posto. Non ho capito che poteva continuare benissimo e che mi stavo innamorando piano piano, dolcemente. Dolcemente come te, Samantha. Non mi sono mai rivolto pronunciando quella parola e non lo so nemmeno io perché. Ma lo sai, adesso sì, che non riuscivo, almeno non così. E ora so perché mi hai fatto quella domanda. Non ti ho mai detto: ti amo. Tu lo hai fatto mille volte e non mi hai chiesto di ricambiare quella parola.
 
C’era rabbia e frustrazione, frutto di giorni vuoti, stanchi e inaccettati. Tutti i ti amo insieme a quello che non avevo detto o fatto con lei lo riversai in quella frase. Non avevo accettato la sua fine? Era come se non ci credessi fin dall’inizio, anzi peggio; io mi sentivo in colpa, maledettamente in colpa per quello. Non avevo accettato che io non potessi più averla con me. Ero stato ancora una volta egoista. Almeno fino a quel momento. Non mi ero reso conto che l’amore arriva, ma non svanisce, ma si modifica. La risposta alla sua ultima domanda arrivò. L’accontentai. E in quell’attimo le lacrime vennero fuori, insieme al sorriso. Ridevo mentre piangevo. E cadendo a terra sulle impronte le sciolse. L’amore arriva come un’impronta sulla neve. Poi svanisce, ma il ricordo di dove sei passato rimane.
 


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