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Barabba

Barabba

Rione Cocuzzo 10
85100 Potenza
Racconti Umoristici Racconti
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Barabba

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Aveva mai visto un cane sorridere?
Sbriciolato sull’asfalto rovente del raccordo autostradale, Barabba esalò, senza malizia, un pensiero inopportuno.
I pochi testimoni, fingendo di non aver capito bene anzi, di non aver proprio sentito, continuarono a piantonare soprappensiero quella natura morta con moto e idiota affrescata senza grazia dalla sorte.
Qualcuno, forse per espiare l’inconfessabile cinismo che s’insinua anche nella pietà più limpida, ritenne giusto biascicare qualche litania rabberciata. Un estimatore occasionale, segnandosi devotamente, non poté fare a meno di calcolare il valore della moto al netto dei costi necessari per le riparazioni.
Intanto, due carabinieri incatramati nella loro divisa nera, stavano già prendendo i rilievi del caso. Impicciati dal metro serpentino d’ordinanza, sibilavano bestemmie contro il caldo, il regolamento e, soprattutto, contro quell’imbecille che aveva scelto proprio gli ultimi dieci minuti di servizio per sfracellarsi.
La sirena bitonale dell’ambulanza guaiva in lontananza fendendo l’afa indolente di un pomeriggio deluso. Quel suono acre, così inquietante quando il dolore è solo un’ipotesi, confermava invece l’imminente rimozione di tutti quei brutti pensieri che poco s’intonavano con lo spensierato cielo estivo. Poco distante, un randagio poco abituato alla carità si allontanò abbaiando tutto il suo turbamento per la domanda inopportuna di quel moribondo indiscreto.
Barabba insomma, si accingeva a crepare esattamente come aveva vissuto: ignorato.
* * *
Mi devo alzare; ho bisogno di pisciare. Aspetto un altro po’. Magari posso resistere. No, devo proprio pisciare; sono costretto ad alzarmi. Che palle.
Barabba, al secolo Gaetano Gambetta, iniziava sempre la giornata con la sua consueta nota d’entusiasmo.
Bloccata sulle sette e venticinque, la sveglia rossa a forma di cronometro, l’unico regalo di suo padre, aveva terminato da anni la sua corsa contro il tempo.
Ormai, gli bastava solo quell’erezione fatua provocatagli dalla vescica straripante per riuscire a distinguere il sonno dal nulla.
Inconcludente per natura e pessimista per vocazione, faceva sempre più fatica ormai per trovare fuori e dentro di sé un motivo valido, un movente plausibile, per giustificare ogni suo risveglio.
Meglio dormire, pensava, rimanere immobile, inconsapevole ed incolpevole di tutto.
La luce è nemica della sofferenza.
Ogni mattina, dalla finestra del bagno appollaiato a venti metri di cemento dal suolo, Barabba aguzzava la vista per vedere se il panorama avesse subito, in sua assenza, dei mutamenti. Il quadro, purtroppo, non cambiava mai: vedeva replicanti multi piani innalzarsi, con disposizione insolente, dal corpo incolto di una contrada trafitta più volte e non ancora finita.
Viste dall’alto, sconnesse e accidentate, le strade del quartiere somigliavano a lividi labirinti screziati di macchie lunari su cui il piede dell’uomo, per schifo o per paura, non voleva posarsi.
Al centro di tutto questo sconforto, nella sua ostinata terra di nessuno, c’era lui.
Barabba avvertiva sempre l’impulso di spalancare la finestra per urlare con tutto il fiato che aveva in corpo, ma lo sciabordio vorticoso del gabinetto gli annegava, ogni volta, la voce.
* * *
La frittata è nel fornetto. Prima di uscire spegni la lavatrice. I panni stirati sono nel cesto. Compra il pane. I soldi sono sul frigo.
Il quotidiano telegramma materno. L’unica forma di dialogo sopravvissuta al naufragio familiare. Con sua madre, Gaetano aveva in comune soltanto le chiavi di un appartamento.
Anna, quarantacinque anni sgualciti, venticinque da infermiera, viveva ormai stabilmente in ospedale.
In quella che un tempo era stata la sua casa, tornava unicamente il tempo necessario per raccattare bollette scadute e sbrigare le poche faccende domestiche.
Al riguardo molti condomini, in primis i dirimpettai, a più riprese s’erano presi la briga di confezionare teorie adeguate ai dettami speculativi del vicinato contemporaneo.
Tutti però, per tardiva riservatezza ma più probabilmente solo per mancanza d’indizi pruriginosi a carico della coinquilina, avevano deciso di archiviare il caso.
Alcuni, avevano verificato come fosse complicato computare con esattezza la durata e la frequenza dei turni lavorativi di un’infermiera.
Altri, si erano concessi il lusso di sentenziare che, in fondo, non c’era poi nulla di male se una vedova con un figlio ormai grande desiderava rifarsi una vita.
La verità invece era meno intrigante della loro indiscrezione: la contumace già da tempo, infatti, a fine turno non faceva altro che sfilarsi di dosso gli indumenti da infermiera per indossare la divisa da volontaria.
Per anestetizzare lo spasimo che le stritolava l’anima, Anna aveva bisogno di sprofondare nell’angoscia sconosciuta, di sfinire il suo corpo tra le stimmate d’altri calvari.
Ogni giorno, s’inoculava la consueta dose di sofferenza e speranza, la prima per sfogarsi la seconda per ingannarsi; un nodo scorsoio a tensione variabile che solo una parvenza di fede le impediva di sciogliere in maniera definitiva.
* * *
Gaetano non ricordava più l’ultima volta in cui aveva visto sua madre sorridere o indossare un vestito che non fosse nero.
Niente e nessuno avrebbero potuto donare un po’ di vitalità a quella donna a tinta unita. Perfino la candida uniforme ospedaliera addosso a lei finiva per somigliare ad una malinconica sindone ospedaliera.
Dopo una serie di controlli incrociati, Gaetano aveva stabilito che era l’epidermide materna a deprimere, con la sua pigmentazione luttuosa, ogni capo d’abbigliamento e non il contrario. Lo aveva definito l’incurabile caso della vedova Jekill e dell’infermiera Hyde.
Dal mobilio già piuttosto spoglio, erano scomparse anche le poche fotografie scattate ad uno sposalizio in bianco e nero; un ricordo che ormai non avrebbe più potuto mantenere quella promessa pronunciata in un lontano pomeriggio di luglio.
La morte aveva separato ciò che l’uomo aveva osato unire.
* * *
Gino Gambetta, metalmeccanico interinale, nella vita aveva avuto solo due passioni: la fisarmonica e la grappa.
Musicista dilettante ma alcolista provetto, ogni notte smaltiva la sbronza sognando di abbandonare la vita grama della fabbrica per iniziare una folgorante carriera da solista in qualche orchestra di liscio.
Per assecondare questa sua aspirazione, assordava i giorni disoccupati provando e riprovando, con dita sempre in evidente stato d’ebbrezza, melodie recalcitranti.
Fedele inoltre all’unico comandamento disposto a santificare quella sua musa alcolizzata, Gino non mancava mai di congestionare le viscere d’ogni festa comandata con il suo ormai celebre concerto per fisarmonica maltrattata.
Tutte le volte poi che non era in vena d’illusioni allegre, ma non troppo, Gino decorava a tempo pieno un oscuro bar del quartiere.
Era uno di quei tipici dimenticatoi a gestione familiare frequentati da clienti a consumazione fissa che hanno perso da tempo la voglia di bofonchiare anche le solite meditazioni sul clima.
Anna amava quell’uomo introverso che parlava poco e balbettava con la musica. Alla stesura dei testi, in fin dei conti, aveva sempre provveduto lei.
Ogni giorno e senza soluzione di continuità, avvertiva l’irrefrenabile bisogno di raccontare a qualcuno, tutti gli avvenimenti, i problemi, i dilemmi e le contrarietà che erano entrati in collisione con la sua esistenza. Gino era il partner perfetto per i suoi psicodrammi.
Era una spalla affidabile anche quando la sua capacità d’ascolto poteva dar adito al sospetto di non essere sempre così direttamente proporzionale alla prolissità della moglie. Pazienza. Quel sistema limbico incontinente, non avrebbe in ogni caso tollerato di essere interrotto da un’altra vita.
Sommerso dall’egotismo ridondante di quella donna così autoreferenziale, aveva imparato a sopportarne i monologhi come un fatto naturale, la sua parte di debito coniugale.
Gino, infatti, aveva capito da tempo di poter fare tranquillamente a meno delle parole.
A conti fatti, aveva convenuto più volte con se stesso, anche nella fabbrica di profilati d’alluminio dove lavorava ad intermittenza, non lo pagavano certo per tenere discorsi.
Il fatto che gli interinali non abbiano alcun diritto è cosa ormai nota.
Lo ingaggiavano, trattamento di fine rapporto e ferie non godute comprese, per sostituire vacanzieri, infortunati, furbetti e intoccabili.
Asservito alla sua condizione di precario sempre in cerca di stabilizzazione, Gino era costretto ad accettare di tutto: straordinari massacranti anche per due o tre settimane di fila, turni assurdi, notturni e festivi a ciclo continuo.
Per quelli come lui, tutele sindacali e norme per la sicurezza sul posto di lavoro erano solo belle parole ascoltate in televisione sempre dopo l’ennesimo incidente.
Gino rischiava la vita spesso proprio al posto di quegli stessi sindacalisti che poi davanti ai cancelli lo istigavano allo sciopero di classe contro lo sfruttamento padronale. Doveva adeguarsi a tutto questo con la testa bassa e soprattutto senza aprir bocca.
Meglio suonare s’era detto alla fine, riesumando la fisarmonica e un vecchio sogno di gioventù. Avrebbe comunicato al mondo i suoi radi pensieri adoperando melodie dimenticate accompagnate magari da qualche bicchierino di stravecchia.
* * *
Anna non riusciva nemmeno ad immaginare di poter vivere senza quella creatura fonoassorbente. Gino era il suo ormeggio silenzioso, l’unico frangiflutti in grado di reggere l’urto del suo disarmonico marasma emotivo.
Lei, in cambio, era disposta a sopportare per il resto dei suoi giorni le vocazioni artistiche e gli eccessi etilici del coniuge, o almeno, fino a quando avrebbe avuto abbastanza voce in corpo e fatti da raccontare.
S’era pure abituata ai pensieri criptati di quell’ectoplasma con cui era coniugata.
Per consolidare il suo teatrino familiare, Anna aveva soddisfatto anche l’unica clausola vincolante che Gino era stato in grado di imporle con due parole: un figlio.
Gaetano, in quanto ad afasia era tutto suo padre, ma non essendo tuttavia obbligato ad onorare alcun tipo di contratto matrimoniale, aveva sempre liquidato gli approcci espettoranti materni con una sbrigativa alzata di spalle.
A sua madre, in realtà, voleva un bene profondo, ma aveva deciso di rimanere a distanza di sicurezza da quel baratro verboso. Non voleva fare la fine di suo padre.
Per Anna, aver messo al mondo un figlio in apparenza così insensibile, era stata una gran delusione. Per lei, in sostanza, significava essere costretta a prendersi cura a fondo perduto anche di quell’anomalia genetica.
Certi giorni, era arrivata addirittura a rimpiangere la fallita sterilità terminando sempre la sua bestemmia con l’immancabile “…che Dio mi perdoni”.
Il loro, non era certo un rapporto caratterizzato da luminose connotazioni edipiche.
In realtà, Gaetano dei colleghi e dei pazienti di sua madre, conosceva tutto e nei minimi dettagli: biografia, carattere, reddito, famiglia, malattie, amanti, dispetti, litigi e riappacificazioni ma non sapeva quale fosse il suo colore preferito o cosa pensasse del mondo.
Del padre invece, avrebbe potuto tranquillamente elencare tutte le frasi da lui pronunciate negli ultimi diciotto anni su uno scontrino fiscale.
Di queste solo un paio però, erano davvero degne di essere ricordate.
La prima, era stata pronunciata da Gino nel corso dell’unica lite coniugale sostenuta con sua moglie. Nell’occasione, a causa della conclamata refrattarietà muliebre, aveva affermato la testuale prelibatezza di sapienza popolare: «È inutile parlare con te, perché tanto se ti dico una cosa per intero, tu n’ascolti solo la metà e se te ne dico mezza tu non ascolti per niente…».
Per anni poi, Gino aveva elargito ogni mattina al figlio sempre lo stesso ammonimento: «Mi raccomando. Vai piano!».
Gaetano, all’epoca alunno delle elementari, non era mai riuscito a decifrare il senso di quell’assurda ed inspiegabile apprensione paterna.
Soprattutto, aveva cercato di capire perché l’artefice di quel prodigio antimeridiano avesse continuato per anni, festivi esclusi, ad essere così ostinatamente refrattario a comprendere che lui a scuola ci andava in autobus.
Probabilmente, aveva supposto con tristezza, quella era stata soltanto la stordita dimostrazione d’affetto di un uomo che non riusciva ad andare a tempo neanche col suo cuore.
* * *
Gino Gambetta, stanco di stagioni stonate e di silenzi mal retribuiti, una domenica mattina aveva seguito il suo assolo più riuscito. Lo trovarono in soffitta, impiccato ad una trave del sottotetto.
Sopraggiunti sul posto con la solita lentezza riservata ai casi di periferia, due infastiditi poliziotti avevano brillantemente stabilito che il suicida per eseguire lo stacco fatale quasi certamente aveva usato una fisarmonica rinvenuta a poca distanza. A rivelarlo erano state le evidenti tracce lasciate sullo strumento dalle scarpe della vittima.
Nessuno però notò un fatto che in altri casi avrebbe eccitato la mente anche dei criminologi meno telegenici oltre ai soliti occultisti sempre a caccia di demoni musicali.
Prima di lasciarsi dondolare nell’aria come l’asta di un metronomo malinconico, Gino aveva espiantato i tasti neri dal corpo della sua creatura.
Con tutta probabilità, il suo era stato soltanto un maldestro tentativo d’eutanasia praticato su uno strumento da troppi anni agonizzante. A chi avrebbe potuto interessare però il testamento tonale dell’ennesimo disperato a tempo determinato?
Il solito trafiletto ipocrita nella cronaca locale e via.
I condomini, appresa la notizia di quella duplice esecuzione, finalmente mangiarono sereni.
Del funerale paterno Gaetano ricordava l’essenziale: la bara modesta, la chiesa semivuota e l’odore inconfondibile dell’unica corona. Una cosa, però gli era rimasta scolpita nella memoria: lo sguardo eloquente di sua madre.
Quegli occhi per lui erano stati la conferma del fatto che Dio, anche quella volta, aveva scelto di salvare Barabba.
* * *
Che colpa ne ho io se papà è morto? Mica l’ho ammazzato io. Ma che le ho fatto? «Mangia. Lavati. Dormi. Alzati. Esco» solo questo sa dire ormai. Quelle rare volte che sta in casa o stira o cucina vale a dire l’unica cosa che sa fare e l’unica cosa che non sa fare. Riesce sempre a farmi sentire fuori posto, un ospite indesiderato.
Barabba desiderava tanto poter riuscire ad odiare sua madre, l’inconsolabile vedova Gambetta. Avvertiva il bisogno di frantumare in qualche modo l’amore lancinante che provava per quella donna eclissatasi nel dolore, che di materno aveva conservato solo i doveri. Tutto inutile. Ogni volta anzi, che avvertiva come imminente il sopraggiungere del rancore scopriva che c’era un altro dentro di se, si stava già proditoriamente affannando a progettare la grande impresa per la conquista dell’agognato ricongiungimento.
Così, mentre lui si macerava nella sua rabbia silenziosa, l’altro concepiva improbabili discorsi chiarificatori, vere e proprie dichiarazioni d’amore filiale.
Era sempre l’altro che fantasticava di andare a vivere con lei in un posto di mare o in ogni caso il più lontano possibile dal verde amaro delle montagne; oppure organizzava un sontuoso giro del mondo senza scommettere sul loro ritorno.
Magari, vaneggiavano entrambi, potremmo portare con noi anche Abarth e Zio Pino. Già, magari.
II
 
La rovina del povero è la sua miseria. Egli è ossessionato dai creditori e odioso anche ai suoi stessi familiari. Numerosi invece sono gli amici e le donne del ricco. Perdonate dunque il fratello che pecca; vuol godere anche lui dei buoni frutti della terra e di quelli favoreggiati dalla provvidenza. Non temete. Un giorno tutto vi sarà reso, forse. Dal Vangelo secondo Abarth.
Sandrino Marchetta, in arte Abarth, era forse l’unico amico di Barabba. Lo pseudonimo traeva origine dalla sua notoria passione per le A112 modello, per l’appunto, Abarth.
La leggenda narrava che il debole per la piccola derivata di serie, gli sarebbe venuto vedendo Il poliziotto sprint. Molto più verosimilmente, quel particolare tipo di fissazione gli era stata tramandata per via ereditaria.
Erano in molti coloro che al riguardo rammentavano ancora un fatto capitatogli molti anni addietro. Il giorno del suo ottavo compleanno, infatti, il piccolo Abarth era stato avvicinato nei pressi del campetto parrocchiale da uno sconosciuto sceso da una seconda serie bianca. Dopo averlo chiamato per nome, l’uomo gli aveva consegnato un pacchettino contenente un modellino di una terza serie e carezzato fuggevolmente la testa. Era andato via senza neppure attendere un eventuale cenno di riconoscenza. I soliti bene informati, sostenevano che il tizio in realtà fosse il padre naturale.
Il suo, non era un semplice interesse d’estimatore ma un vero e proprio chiodo fisso su quattro ruote che più volte lo aveva portato dritto in carcere.
Tra i tanti arresti subiti a causa della sua tara genetica, l’ultimo era stato iscritto di diritto nella casistica dei più tragicomici tentati furti d’auto della storia del crimine moderno. Le cose probabilmente dovevano essersi svolte pressappoco così.
Nell’ora più gelida della notte più glaciale dell’anno, passando per una strada secondaria del centro, Abarth aveva avvistato un magnifico modello quarta serie della sua fissazione compulsiva. Deciso ad impossessarsene, s’era messo ad armeggiare con il solito mazzo di chiavi per rendersi subito conto che il ghiaccio aveva bloccato la serratura. Dopo aver tentato inutilmente di sbloccare il meccanismo a colpi di fiato, aveva probabilmente pensato di ricorrere ad un metodo forse poco elegante ma di sicuro effetto: pisciarci sopra. Purtroppo, non aveva considerato i tempi fisiologici e la stagione.
Non riuscendo, infatti, ad assecondare celermente il suo stratagemma, Abarth doveva aver verosimilmente stabilito di aspettare il momento buono con il suo grimaldello in mano. Il freddo intenso aveva fatto il resto.
All’alba due guardie giurate lo avevano trovato semi-assiderato e con l’uccello surgelato puntato ancora sull’obiettivo.
“Se ti avvilisci nel giorno della sventura, ben poca è la tua forza”, aveva sentenziato dal suo letto d’ospedale.
* * *
Rubare auto d’epoca non era l’unica occupazione di Abarth.
Secondo, infatti, il suo scompigliato lessico allegorico, erano da intendersi come buoni frutti favoreggiati dalla provvidenza i proventi ricavati dalle truffe e dai furti messi a segno.
Sandrino aveva cominciato la carriera di malvivente da piccolo.
Gli esordi lo videro mettere a segno un numero incredibile di micro furti nei supermercati. Alimentari, preservativi e intimo femminile i prodotti da libero asporto più gettonati.
Sandrino col taccheggio aveva trovato il modo più efficace per sostentare la famiglia e per rifornire sua madre, una prostituta logora e depressa, di corredi professionali e prodotti di consumo.
La buona donna non approvava la condotta del ragazzo, anzi. Desiderava per lui un futuro diverso da quello che invece vedeva prefigurarsi minacciosamente all’orizzonte.
Come se non bastassero già le sue apprensioni materne, forse a causa di non meglio diagnosticati disturbi psichici, da tempo la meschina covava in seno un gran desiderio religioso: espiare in qualche modo i tanti sensi di colpa innescati dal mestiere nel suo animo mantenutosi, a dispetto di tutto, piuttosto pudico.
Per questi motivi e soprattutto per obbedire, così diceva, all’ordine impartitole personalmente dalla statua di una Madonna di strada, desiderava avere un prete in famiglia.
Sandrino fu mandato in un seminario del nord.
La vita claustrale non era fatta per lui. Detestava studiare ed era refrattario a qualsiasi forma di disciplina. Tentativi di fuga, catture e punizioni erano all’ordine del giorno.
In tutto questo scompiglio, il ribelle ebbe tuttavia il tempo per rendersi conto di possedere la vocazione per i sermoni e un vero e proprio talento naturale per il canto, sebbene facesse le due cose in maniera e per scopi affatto ortodossi.
Ricorreva ai predicozzi per estorcere soldi ai suoi timorosi compagni di corso.
La foga mistica del suo eloquio era così spaventosamente evocativa, che alla fine i giovani penitenti pagavano sempre con gioia e gratitudine il prezzo della redenzione.
L’attitudine alla predicazione sarebbe diventata in seguito la manifestazione più riconoscibile del suo buffet delirante oltre che l’inconfondibile tratto stilistico della sua attività criminale. Tentare di comunicare con lui senza finire risucchiati nelle sue psicofarse teologiche, difatti, era pressoché impossibile per chiunque, Barabba compreso.
Dove però i suoi incipienti disturbi della personalità trovavano terreno fertile per esprimersi al meglio era il canto. Interpretava spesso i canti liturgici in maniera a dir poco stralunata, sostituendo le liriche religiose con testi profani.
Ironia del caso, a costargli l’espulsione dal convitto diocesano alla fine più delle pie estorsioni fu proprio la sua originalità canterina.
Nel corso della messa di natale in cattedrale, tra l’imbarazzo del vescovo e dei fedeli, aveva intonato sul tema di Adeste fidelis, Bello e impossibile di Gianna Nannini.
Abarth era stato rispedito a casa con il carisma del criminale e una missione in testa che, se portata a termine con successo, avrebbe impedito alla madre ogni eventuale recrudescenza mistica: toglierla dal marciapiede.
Non cantava più, ma in compenso era solito presentarsi alle vittime dei suoi raggiri travestito sempre da sacerdote.
Con la bocca, l’uomo sazia il suo stomaco, egli si sazia con il prodotto delle labbra. Amen.
* * *
La nostalgia è l’ultima compagna della vecchiaia.
Lo sapeva bene Giuseppe Durante, per tutti semplicemente Zio Pino. Alloggiava in una malandata casa rurale ad un piano sul confine estremo della speculazione edilizia. La piccola catapecchia sembrava una reliquia contadina scampata all’ennesimo diluvio di cemento scatenato dal dio dei subappalti.
Sarebbe stata abbattuta in ogni caso. Non avendo mai avuto notizia di potenziali eredi disposti a rimpiangerlo, Giuseppe, infatti, aveva venduto l’immobile conservandone però il godimento fino alla fine dei suoi giorni. Probabilmente le ruspe avrebbero rimosso il cadavere dell’unico usufruttuario insieme alle macerie del suo ultimo domicilio conosciuto.
Giuseppe aveva superato già da un pezzo il limite che separa la speranza di vita dall’inquietudine di morte. A sentire lui però, mancava ancora tanto. Andava ormai per i sessanta o almeno, questo sosteneva.
Era arrivato un tardo pomeriggio di settembre cavalcando un Falcone rosso fiammante. I barbagli infuocati del monocilindrico, riverberati dalle esalazioni bollenti del motore, avevano intensificato la luce declinante del sole autunnale.
Questa immagine poetica d’ispirazione futurista, balenò nella mente di Barabba con la potenza del tuono.
L’amicizia, come l’amore, nasce a volte anche per il fascino cromatico di un istante.
Impegnato nella solita seduta contemplativa in bagno, era quasi caduto da sopra il cesso a causa di quell’improvvisa vertigine.
Zio Pino condivideva la sua casa con Cassius, un botolo nero che aveva adottato subito dopo il suo arrivo.
Nato verosimilmente dall’incrocio tra un bassotto e uno yorkshire, il bastardo aveva la stazza ed i colori del primo ma il carattere isterico e dispotico del secondo.
Giuseppe, con intenti celebrativi francamente discutibili, aveva imposto a quella sgraziata creatura il nome del famoso boxeur “américain”.
Il grugno più brutto di Louisville, com’era stato subito ribattezzato da Barabba, tra le sue tante manie capricciose annoverava anche quella, davvero bizzarra per un cane, della pruderie.
Cassius, difatti, faceva i suoi bisogni solamente all’interno di un cespuglio sempreverde barbicato sotto l’unico tiglio presente nel raggio di due chilometri.
Quattro volte al dì e con qualsiasi clima, lui doveva proprio eclissarsi in quella sua latrina vegetale.
Non contento, per scongiurare ogni possibile violazione della sua privacy, pretendeva inoltre che il padrone dovesse rimanere ad una distanza di sicurezza pari all’intera lunghezza del guinzaglio telescopico.
I pochi passanti, ignari di quel singolare rituale evacuativo, restavano sempre sbigottiti dinanzi a quel quadro surreale offerto da un anziano rincoglionito con albero al guinzaglio.
* * *
Alto e di corporatura massiccia, Giuseppe si compiaceva di vestirsi sempre in maniera, a suo modo di vedere, elegante e ricercata. In fatto di moda però, i suoi gusti erano rimasti fedeli ai dettami della moda degli anni settanta.
Il suo guardaroba traboccava d’improponibili doppiopetto gessati con calzoni a zampa d’elefante, di camicie con colli imbarazzanti, cravatte sgargianti e stivaletti intonati.
A completare la mise, un borsalino grigio o bianco secondo le stagioni; l’unico dettaglio davvero chic sciupato però dalla sua testa grossolana.
A questo signore dallo stile un po’ retro, gli anni non avevano ancora tolto la gioia di una compagnia femminile.
Ogni settimana, infatti, faceva pubblicare sui free-press locali annunci a pagamento di questo tipo: “Pensionato, giovanile e di buona presenza, cerca donne singole dai 45 ai 55 anni altrettanto di buona presenza per amicizia ed eventuale relazione o convivenza. Astenersi perditempo. Tel. […]”
Le eventuali liaisons però, andavano tutte regolarmente a sbattere contro il carattere rude e manesco del maturo tombeur de femmes.
Non è diffamatorio sostenere che Giuseppe più che di tatto era un uomo di pugno.
In passato, infatti, era stato un peso medio. Quell’ammasso ingrigito di muscoli, con il suo sguardo ottuso e pericoloso come quello di un ubriaco attaccabrighe, nonostante l’età, minacciava ancora furore per chi avrebbe osato sfidarlo.
A dire il vero, la boxe con Zio Pino non era stata prodiga di soddisfazioni.
Illuso dai facili trionfi conquistati in alcune risse di paese, un giovanissimo Giuseppe Durante, aveva abbandonato la provincia per trasferirsi a Marsiglia.
Da sempre affascinato dai miti francesi della noble art, lì aveva cercato per diversi anni di ricalcare invano la carriera de «le bombardier marocain», quel Marcel Cerdan che era stato capace di conquistare nello stesso anno il titolo di campione del mondo ed il cuore di Edith Piaf. Durante l’intero arco della sua breve carriera, «il Pino italiano» aveva invece collezionato fratture multiple al setto nasale, costole incrinate, occhi pesti e poco altro.
Abbandonata l’attività agonistica, «Joseph l’italien» per sopravvivere aveva lavorato nel campo riscossioni crediti e solleciti elargizioni spontanee.
Frequentando gli ambienti della mala marsigliese, Pinó aveva avuto modo di raffinare lo stile, migliorare la lingua, e soprattutto di pareggiare il conto dei cazzotti incassati sul ring.
Stanco di pugni, mazzette e d’amours insignifiants, Giuseppe Durante aveva fatto ritorno in quella stessa provincia da cui era partito quaranta anni prima.
Scostante e di poche parole, con quel suo viso malconcio di vecchio malinconico sempre un po’ assente, s’illuminava come un ring solo se l’argomento di conversazione riguardava la boxe e i pugilistes. Non erano i soliti ricordi sbiaditi dall’oblio senile ma rievocazioni fedeli di combattimenti, pugili, diretti, ganci, montanti, furore, odio, sangue, dolore, arbitri, spugne, pubblico in delirio, trionfo e sconfitta il tutto raccontato con tale trasporto che c’era il rischio di prendere un pugno se si abbassava troppo la guardia.
Zio Pino era tornato dall’avventura francese con pochi souvenir, ma con un solo cadeau piuttosto ingombrante: la narcolessia.
Questo sgarbo neurologico aveva la perfida abitudine di manifestarsi con particolare intensità sempre nel corso delle sue rapsodie commemorative.
Improvvisamente, infatti, una sonnolenza incontrollabile ed improvvisa risuonava da qualche parte della sua testa annunciando la fine del round.
Poi dopo un quarto d’ora, riprendeva come se niente fosse il suo discorso ripartendo esattamente dallo stesso punto.
L’ex emigrato aveva anche un altro problema forse meno invalidante ma similmente imbarazzante. Zio Pino masticava, infatti, una lingua impura prodotta dalla mescolanza di reminiscenze dialettali natie e argot marsigliese.
Soltanto il rispetto per l’età ed un indefinito timore impedivano al suo uditorio di sbellicarsi dalle risate ascoltando la storia della boxe perdente raccontata, con inconfondibili nuances meridionali, dall’ispettore Clouseau.
Zio Pino, sudato e commosso, chiudeva le sue nostalgiche riunioni pugilistiche sempre con la stessa considerazione amara: – Mon cher ami – diceva – i temps ne sont cchiù comme na vot’!
III
I soldi erano sempre pochi e il lavoro mancava del tutto.
Barabba sopravviveva grazie ai finanziamenti versatigli mensilmente dalla madre che, per ribadire il suo inestinto rimprovero, era solita lasciargli i soldi sempre nello stesso posacenere della Julia, la grappa preferita da Gino.
Orfano di padre a termine, escluso quindi da qualsiasi riserva corporativa, Barabba non riusciva a trovare neanche un’occupazione temporanea. Certo, nemmeno si ammazzava di fatica a cercarne una. Si può affermare che preferiva più farsi cercare che andare a trovare.
In ogni modo, tutti i giovedì pomeriggio dirigeva i suoi piedi sfiduciati al collocamento o meglio, all’ufficio del lavoro, come precisavano sempre con autocompiacimento apotropaico, i pochi entusiasti che avevano avuto il culo di lavorarci.
Tutte le volte, il già magro elenco con le figure professionali ricercate sembrava essere stato redatto da qualche umorista affetto da cinismo cronico.
Le offerte di lavoro, in pratica, riguardavano sempre motoristi aeronautici, saldatori per basi orbitanti, piloti di rimorchiatori con provata esperienza, esperti di cucina ipocalorica uzbeka, programmatori balistici e fiocinieri per baleniere; proprio le professioni che sognavi di imparare in un’isolata città di montagna abitata per lo più da solidi terrestri avvezzi al rimorchio, con bersagli meno esigenti, del venerdì sera ed all’ipercalorica dieta che di mediterraneo aveva solo la grandezza dei piatti.
Qualcuno tra quelli meno istruiti in baleneria, s’era perfino dichiarato offeso al solo pensiero di dover esser costretto a mettere le forcine alle balene.
Barabba sapeva che di questo passo avrebbe dovuto continuare ad interpretare sogni e premonizioni fino alla fine del tempo e sempre con la remota speranza di azzeccare, prima o poi, un ambo o una sestina milionaria.
In alternativa, gli conveniva escogitare, e in fretta, quell’idea geniale che avrebbe consentito a lui e ai suoi già abbastanza compromessi rapporti familiari la svolta decisiva. E l’idea fu.
In verità, la bella pensata venne in mente ad Abarth che la ingarbugliò con le sue incomprensibili metafore bibliche.
Fratello, dimmi, è giusto affidare il proprio denaro al profittatore? La mano pigra fa impoverire, la mano operosa arricchisce. Falliscono le decisioni prese però senza consultazione, ma un’attesa troppo prolungata fa male al cuore. C’è chi fa il ricco e non ha nulla e c’è chi fa il povero e invece ha molti beni. Il perverso, uomo iniquo, va con la bocca distorta, ammicca con gli occhi, stropiccia i piedi e fa cenni con le dita.
Molti si proclamano gente per bene, ma una persona fidata chi la trova?
Un amico invece vuol bene sempre, è nato per essere un fratello nella sventura. Ricorda però: quando cammini non saranno intralciati i tuoi passi ma se corri è meglio. Un desiderio soddisfatto è albero di vita.
Il discorso della montagna fatto ai quaranta ladroni.
Si trattava in sostanza di ripulire Serafino Carrini, detto anche l’Affettatore, il più conosciuto e odiato strozzino in attività. Quell’attributo sinistro, Serafino se l’era guadagnato con gli abnormi tassi usurai con cui riduceva all’osso i malcapitati che si erano rivolti a lui per avere un prestito.
Serafino gestiva la sua nauseante attività d’intermediazione finanziaria in una salumeria, Il pizzicagnolo amico, che aveva gentilmente rilevato da un suo ex cliente; una copertura legale davvero degna della sua fama. Il lurido, per avere sempre a portata di mano il suo bancomat, conservava i soldi nel frigorifero sotto il bancone.
In quella malfamata bottega, un etto di crudo poteva arrivare a costare anche cinquanta euro il grammo. Abarth e Barabba, più che a compiere una rapina, si apprestavano a farsi strumento dell’ira collettiva.
Per evitare problemi di viabilità, sarebbero entrati in azione alle cinque di pomeriggio. A quell’ora in genere sono pochi quelli disposti a sfidare l’afa per andare in giro ad intralciare la libera fuga di due rapinatori.
Un ispirato Abarth consegnò ad un Barabba piuttosto scettico, la sua palandrana di scorta, una pistola giocattolo e la maschera di Minnie. Tenne per se quella di Topolino.
Pistole e maschere provenivano dalla casa di un animatore di feste per bambini, recentemente visitata da un giovane parroco esaltato per una questua per le vittime degli errori giudiziari.
Scartata subito l’ipotesi, strenuamente perorata da Abarth, di impiegare una A112, difficile recuperarne una in fretta, non avendo sotto mano nulla di meglio, i due complici decisero di ripiegare sulla Guzzi di Zio Pino.
Al vecchio avrebbero parlato del colpo solo a cose fatte. Non se la sentivano di frenarne i prevedibili entusiasmi con argomenti difficili da far accettare alla sua permalosità di gangster ultrasessantenne. C’era, infatti, il rischio neanche tanto improbabile, che potesse venirgli uno dei suoi soliti attacchi di sonno proprio in corso d’opera e il tempo per aspettarne il risveglio non ci sarebbe stato.
Gli avrebbero chiesto il permesso di fare un giro con la moto, giusto il tempo di andare, colpire e tornare. Dopotutto, chi avrebbe notato nella vampa arroventata del pomeriggio due neri sacerdoti ciascuno con le facce di due ratti famosi a cavallo di un silenzioso quattrotempi rosso con la targa coperta?
* * *
“”Una rapina a dir poco originale è stata consumata oggi pomeriggio ai danni della salumeria Il pizzicagnolo amico in Via Parma. I fatti. Oggi intorno alle 17 due rapinatori vestiti da prete e con i volti coperti con le maschere di due celebri personaggi creati da Walt Disney hanno fatto irruzione nella salumeria gestita dal signor Serafino Carrini. Pistole alla mano si sono fatti consegnare l’intero incasso che, stando ai primi accertamenti, non dovrebbe superare i 200 euro.
I due uomini sono quindi fuggiti a piedi riuscendo in breve a far perdere le loro tracce. Si sospetta però che ad attenderli potevano esserci uno o più complici.
Gli uomini dell’arma intervenuti sul posto, infatti, hanno ritrovato poco lontano sia le armi sia gli insoliti capi d’abbigliamento utilizzati per portare a termine l’atto criminoso.
Bocche cucite da parte dei pochi testimoni presenti, ma pare che qualcuno abbia inspiegabilmente applaudito i due fuggiaschi. Scherzi del caldo, evidentemente.
Colto da malore, il signor Carrini è dovuto ricorrere alle cure del personale del 118. Trasportato in ospedale ancora in forte stato di choc, lo sfortunato commerciante è stato subito sottoposto ad una serie d’accertamenti clinici che per fortuna hanno escluso complicazioni. «È il classico colpo fatto da tossicodipendenti in crisi d’astinenza. La novità però è che questa volta ci troviamo di fronte a due tossici che hanno la passione per i colpi di teatro» ha subito commentato con insospettato sarcasmo il capitano Trombetti dopo i primi sopralluoghi effettuati sul luogo del crimine. Le indagini dei carabinieri sono orientate verso gli ambienti della microcriminalità locale legata al mondo della droga. C. R.””
* * *
In realtà, il frutto della rapina era stato di cinquecentomila euro tutti in biglietti di grosso taglio. Abarth, manco a dirlo, aveva esordito con “Fratello, non negare un beneficio se è in tuo potere farlo” al posto del più consueto “Mani in alto, questa è una rapina”. Poi, mentre Barabba svuotava il bancone-cassaforte del contante ma anche dei registri contabili, aveva tenuto, con la pistola puntata all’altezza del naso dell’atterrito e confuso profittatore, una delle sue prediche più belle utilizzando, per l’occasione, passi scelti dell’Apocalisse di Giovanni. Gli effetti provocati dalle sue parole, unite all’ammontare dell’esborso forzoso, avevano prodotto nel verme gli effetti di cui sopra. Usciti dal negozio, erano stati accolti da una piccola folla esultante di clienti tartassati con applausi e grida d’approvazione.
Sbarazzatisi delle tonache, dei registri e degli attrezzi di scena buttandoli in un bidone della spazzatura, si erano separati.
Esperto di trasporti pericolosi, Abarth era salito col bottino sul primo autobus lasciando a Barabba la moto. Si sarebbero rivisti più tardi per tornare insieme a casa di Zio Pino.
Dopotutto, due ragazzi in jeans e maglietta con la faccia da commessi su un catorcio d’epoca e con un paio di voluminosi sacchetti per la spesa, potevano dare facilmente nell’occhio.
IV
Esaltato dall’adrenalina della prima volta, Barabba provava dentro di se qualcosa di molto simile alla felicità. Era andato tutto bene.
Il Falcone, per assecondare come meglio poteva il volo di quell’Icaro di periferia, aggrediva l’asfalto ostile con levità inconsueta. Pochi centimetri sotto le sue viscere, la strada rarefatta dalla velocità era diventata ormai poco più di un semplice gioco d’ombre. Lentamente, Barabba stava ritornando ad essere Gaetano.
Un mese, due al massimo, per far calmare le acque e poi finalmente sarebbe potuto andar via da quel disperante baratro silenzioso.
Indiscrezioni e maldicenze non erano un ostacolo così difficile da aggirare. I soldi? Una vincita fortunata. Il viaggio? Una meritata vacanza. Con tanti saluti.
Il problema serio sarebbe stato semmai riuscire a convincere sua madre, come parlarle, cosa dirle. Una lettera, ecco la soluzione. Gaetano trovò finalmente quelle parole che aspettavano di essere pronunciate da un pezzo ma che solo il suo cuore poté udire.
Cara mamma, ti voglio bene. Lo so che sembra il contrario, ma è così, credimi. Il fatto è che non riesco mai a trovare le parole giuste per dirtelo. Probabilmente desideravi un figlio diverso, più affettuoso, più presente, più tutto. In fondo, se sono così è anche un po’ colpa tua. Non ti offendere, ma ti ricordo che mi hai partorito tu.
Per il loro stesso bene, spesso creatore e creato non possono stare vicini. La terra ha bisogno del sole per vivere, ma non può stare troppo vicina al suo benefattore. Rischierebbe di essere distrutta dalla stessa forza vitale che l’ha generata.
La vita non è stata buona con noi. La perdita di papà è stata un colpo davvero duro, una spietata rappresaglia del destino. L’elisione è stata così brusca e indelebile, che il dolore è stato assimilato senza essere elaborato.
Siamo rimasti soli con le nostre cicatrici, uniti dalla sorte avversa, separati nel dolore. Siamo due equilibristi stanchi sospesi sull’abisso che per non cadere si sfiorano con le dita. Ora abbiamo finalmente la possibilità di cambiare vita insieme, per riprenderci tutto l’amore perduto. Non voglio più sentirmi solo una comparsa, un figurante a giornata ma…che cazzo sta facendo quel cane fermo in mezzo alla strada?!


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