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La guardiana di colombi

La guardiana di colombi

Piazza Giuseppe Garibaldi
70122 Bari
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La guardiana di colombi

visita su Google street view     Piazza G. Garibaldi, Bari /button>

Li vidi in quel giorno ventoso e pieno di nuvole appollaiati in perfetto ordine su un tratto della cancellata, costituita da tante cellette di forma rettangolare: erano i colombi di piazza Giuseppe Garibaldi.

La piazza è una delle più conosciute della città di Bari ed è nota principalmente per via del suo giardino e per l’intensa vita che si svolge al suo interno, a cominciare dagli anziani riuniti intorno ai tavoli di pietra ed impegnati quotidianamente in interminabili partite a carte, proseguendo con le tante mamme intente a far divertire i propri figli nel piccolo parco giochi, e terminando con i numerosi cani a zonzo insieme ai loro padroni, tra i quali c’ero anch’io.

Durante le mie frequenti passeggiate col cane mi soffermavo spesso ad osservare quei volatili che da sempre consideravo in realtà come i visitatori più silenziosi di piazza Garibaldi, nonostante nell’opinione comune siano ritenuti sporchi e a loro modo ingombranti a causa delle molte malattie che veicolano con la loro presenza.

E poi c’era lei. La vedevo perennemente intenta ad osservare i colombi all’esterno della cancellata, con le piccole dita ricurve aggrappate alle cellette rettangolari, mentre essi, disseminati nel perimetro della piazza, beccavano qualche briciola di pane oppure si abbeveravano alla fontana. La costante osservazione di quei pennuti da parte della donna e la sua continua presenza nelle vicinanze della piazza avevano fatto sì che nella mia testa l’avessi battezzata come la “guardiana di colombi”.

Si trattava in realtà di una persona molto anziana, il cui corpo minuto era sempre ricoperto da un mantello verde scuro, una sorta di soprabito che indossava con qualunque condizione atmosferica, fosse questa di sole o di pioggia, e sotto il quale talvolta nascondeva delle buste di plastica contenenti briciole di pane, che era solita gettare al di là della cancellata in direzione dei colombi. Forse a causa dell’età avanzata, indossava occhiali molto spessi, tuttavia quella montatura non permetteva di distinguere il colore dei suoi occhi ad un primo sguardo. Il suo capo era invece spesso coperto dal cappuccio del mantello, dal quale fuoriuscivano alcune ciocche di capelli bianchi, in particolare quando c’era vento, proprio come quel giorno.

Sentivo già le gocce di pioggia cadere ed inumidirmi il volto, di lì a poco sarebbe scoppiato un temporale. Inoltre il mio cane, reso nervoso dal cattivo tempo, non voleva saperne di spostarsi dal punto in cui era, per cui ero costretto praticamente a trascinarlo col guinzaglio per riuscire a procedere e a fare così ritorno a casa. Fu in quel momento che vidi avvicinarsi la vecchietta, la quale giunse a pochi metri da me e poi iniziò a parlare.

«Non sono solo gli esseri umani ad avvertire l’effetto del cattivo tempo e ad accorgersi dell’arrivo della pioggia, lo stesso vale anche per gli altri esseri viventi, tra cui le piante e ovviamente gli animali», disse la donna. «Ha visto come reagisce il suo cane? Non vuole spostarsi di lì perché ha il terrore di bagnarsi. E li vede anche tutti quei colombi sulla cancellata? Si sono allineati perfettamente per stare vicini gli uni agli altri, avvertendo l’imminente pericolo del temporale. Se le cellette rettangolari fossero più grandi, gli uccelli si disporrebbero al suo interno, così come farebbero in una qualsiasi torre colombaia. Ma sono troppo piccole, purtroppo».

«Non ho mai visto una torre colombaia, signora», risposi brusco. «Qui a Bari non ce ne sono e nemmeno nel territorio della provincia barese. Immagino che esistano in altre località della Puglia ma qui di sicuro no. E poi è ora di tornare a casa, cerchi piuttosto di non prendere acqua e di pensare alla sua salute, non a quella dei colombi», dissi ancora, con evidente irritazione in volto.

«I colombi erano e sono parte della mia vita», ribatté la donna, «e il Salento, da cui provengo, è disseminato di torri colombaie». Intanto la pioggia si era fatta battente e scrosciava mista a grossi chicchi di grandine. Ero furioso. «Devo scappare», dissi in fretta, e corsi via.

Feci appena in tempo a rifugiarmi nel portone di casa. Il mio cane abbaiava sempre più forte ancora in preda allo spavento ma il suo abbaiare sembrava lontano anni luce da me perché io ero intento ad osservare l’acqua che allagava le strade della città attraverso le porte a vetri dell’ingresso dell’edificio. In quelle stesse vetrate vidi poi riflessa la mia figura, completamente fradicia di pioggia. Ed infine mi sembrò di scorgere anche lei, la minuta figura della guardiana di colombi riflessa nel vetro accanto alla mia.

Naturalmente era solo una suggestione, eppure quell’immagine mi tornò in mente anche nei giorni successivi. Continuavo a dire a me stesso che, se l’avevo scorta nella vetrata riflessa accanto a me in quel giorno di pioggia, per quanto in maniera fulminea, era perché l’incontro con lei non era destinato ad esaurirsi in quella sola occasione ma si sarebbe forse potuto ripetere, portando alla condivisione di pensieri e parole depositari di una vita intera.

Pensai inoltre che doveva esserci qualche motivo recondito, qualche motivazione misteriosa per cui quella donna amava osservare spesso i colombi, e il fatto stesso che mi avesse nominato le torri colombaie – delle quali sapevo poco quanto nulla – significava che conosceva il loro mondo da vicino, cosa della quale ero ormai praticamente certo, dal momento che lei stessa aveva affermato che i colombi erano stati ed erano parte della sua vita. La mia curiosità, divenuta incontenibile, mi spinse quindi molto presto a mettermi alla ricerca dell’anziana signora nei dintorni di piazza Garibaldi.

Tuttavia inizialmente non ebbi fortuna. Trascorse diverso tempo prima che riuscissi a rivederla e accadde in un giorno pieno di luce, del tutto diverso da quello in cui l’avevo incontrata la prima volta. Il sole filtrava attraverso le fronde degli alberi nel giardino e inondava con la sua luce l’esile corpo della donna, seduta su una panchina, con la testa e la schiena chine mentre era intenta a dare da mangiare ai colombi.

Mi avvicinai cautamente e lei, accortasi della mia presenza, alzò la testa di scatto. Fu in quel momento che scorsi per la prima volta il verde smeraldo dei suoi occhi, che faceva ancora rifulgere il suo viso nonostante l’età avanzata. In quel momento mi sentii colto in flagrante e quindi cercai di dire qualcosa. «Volevo scusarmi per essere stato così sgarbato l’altro giorno», dissi a quel punto, «ma vede, detesto bagnarmi quando piove. E anche il mio cane era diventato molto nervoso».

Un debole sorriso apparve sul volto raggrinzito della donna. Constatai con grande sollievo che aveva gradito le mie parole. Intanto l’abbaiare del mio cane aveva fatto volare via lo stormo di colombi a cui la signora stava dando da mangiare e lei mi fece cenno di accomodarmi sulla panchina. Il mio cane, ormai quieto, si accucciò ai miei piedi.

«Mi chiamo Smeralda», esordì la donna. «Mio padre mi ha sempre detto di aver visto due smeraldi quando, alla mia nascita, aprii gli occhi per la prima volta. Per questo decise di darmi questo nome che, devo ammettere, ho sempre amato. Così come ho sempre amato i colombi. Vengo qui ad osservarli e nutrirli tutti i giorni, anche con il cattivo tempo, con la pioggia battente e il vento sferzante. Ecco perché mi ha incontrata l’altro giorno. Le sembrerà strano ma ormai preferisco la loro compagnia a quella degli esseri umani. E, ad ogni modo, è un legame che ha avuto inizio tanto tempo fa».

La donna colse a quel punto l’espressione sul mio viso, che rivelava un irrefrenabile desiderio di saperne di più, e questo dovette di sicuro farle da sprone perché continuò a parlare. «Sono nata da una famiglia molto legata alle tradizioni agricole, che gestiva una masseria a Carpignano Salentino. La masseria si trovava in zona Cacorzu, lì dove sorge anche la più grande torre colombaia del Salento. I ricordi della mia infanzia sono indissolubilmente legati a quella torre. Era di forma circolare e, vista dall’esterno, aveva l’aspetto di una fortezza inespugnabile. E, in un certo senso, lo era».

«In quale senso?», chiesi quindi. «Nel senso che non era possibile accedere all’interno. L’ingresso era consentito solo agli allevatori e avveniva di rado, in realtà. Mi rivedo ancora lì, da bambina, correre intorno alla torre ed appoggiare l’orecchio sulle sue mura, all’esterno, per cercare di cogliere il tubare dei tanti colombi presenti all’interno. Poi li vedevo volare via dall’alto della torre, che era aperta, e sorvolare insieme, in un grande stormo, le immense distese di terra della campagna tutt’intorno».

«C’è poi un altro luogo di fondamentale importanza per me, a due passi da quella torre colombaia», proseguì la donna. «È il Santuario della Madonna della Grotta, dove andavo a pregare sin da bambina e dove sono ritornata anche in età adulta. Ma di questo ti parlerò dopo».

«Se dunque era così legata alle sue origini e ai territori agricoli della sua infanzia, che cosa ci fa in una città grande come Bari?», non potei trattenermi dal chiederle. «In realtà abito a Bari da tanti anni», rispose la donna, «perché mio padre sognava un futuro diverso per me. Diceva che avrei sprecato la mia vita lavorando nelle campagne del Salento, voleva che studiassi e per questo decise di mandarmi qui». «Ma allora qui in città avrà avuto una vita migliore e un futuro sicuramente più roseo rispetto a quello che…». In quel momento mi interruppi, perché vidi il volto della donna rabbuiarsi improvvisamente, come se delle nuvole scure e minacciose fossero d’un tratto comparse in un cielo perfettamente limpido.

«Anch’io mi aspettavo a suo tempo un futuro sereno», proseguì Smeralda, «tutti noi ce lo aspettiamo quando siamo giovani. Ed era esattamente quello che speravamo io e Luka». «Luka?», chiesi ancora, «chi sarebbe Luka?». «Era mio marito», rispose la donna. «Ma cerca di avere pazienza, ti prego, e di non avere fretta. Non vorrai di certo perderti dei passaggi importanti». «No, assolutamente no, continui pure la sua storia, signora», dissi d’un fiato.

«Va bene», disse quindi Smeralda, «ti racconterò di me e di Luka. Lo conobbi in un giorno inondato di luce e credo che non fosse un caso, perché lui stesso mi rivelò che il suo nome derivava dal latino Lux, lucis, luce per l’appunto. Luka era di origine serba, per questo scriveva il suo nome con la k invece che con la c. All’epoca aveva da poco intrapreso la carriera in marina, imbarcandosi sulle navi mercantili che dalle coste balcaniche raggiungevano l’Italia attraversando il mare Adriatico. Io invece ero una studentessa che, all’uscita dal liceo in Corso Vittorio Veneto, era solita percorrere Corso Antonio De Tullio costeggiando il porto, per arrivare infine al Lungomare Imperatore Augusto. E fu lì che lo incontrai per la prima volta, splendente di giovinezza nella sua divisa e con gli occhi dello stesso colore del mare, di quella particolare tonalità di blu che si scorge sull’acqua nei giorni in cui il vento di maestrale accarezza le onde con la sua brezza. Non mi ci volle molto ad innamorarmi di lui e anche Luka presto iniziò a ricambiare il mio amore. Ma non fu facile riuscire a sposarlo perché mio padre era contrario alla nostra unione e al fatto che avessi scelto come marito un uomo di mare. Fu a quel punto che decisi di interrompere definitivamente i rapporti con mio padre, fino alla sua morte, avvenuta vent’anni fa e della quale fui avvisata solo con un telegramma spedito da alcuni parenti di Carpignano».

«Ad ogni modo non ho mai rimpianto la mia decisione di allontanarmi, mio padre voleva scegliere la mia vita», continuò la donna. «Nonostante le mille difficoltà ci sposammo, Luka continuò ad imbarcarsi lungo le rotte dell’Adriatico e anche dell’Egeo, mentre io aprii una piccola libreria qui vicino, in via Niccolò Piccinni. Inoltre, contrariamente a quello che affermava mio padre, mio marito non mi fece mai le famose “promesse da marinaio”. Luka tornava regolarmente dai suoi viaggi per starmi vicino, soprattutto quando arrivò Elios, il nostro primo e unico figlio».

Nel pronunciare il nome di suo figlio, un ampio sorriso illuminò a quel punto il volto di Smeralda. «Lei aveva dunque un figlio? E dov’è adesso?», chiesi, ormai completamente sopraffatto dallo sbalordimento. «Ti ho già chiesto di avere pazienza ma sembra che tu non ne abbia molta», rispose la donna, un po’ seccata, ma per fortuna sempre animata dal fermo proposito di continuare la sua storia. «Sì, avevo un figlio e quando nacque era bello come il sole. Elios significa per l’appunto “dono del sole”. E a me e a Luka piaceva pensare che fosse proprio così, che ci fosse stato donato dalla stella madre del sistema solare e poi suo padre aveva già un nome che aveva a che fare con la luce, quindi ci sembrava il nome più adatto per il nostro bambino».

«Starai di sicuro già pensando al lieto fine, all’esistenza rosea che ero riuscita a costruirmi nonostante il dissenso di mio padre, alle molteplici aspettative realizzate di una vita felice, così intensamente nutrite da parte mia e di mio marito. Ebbene, sappi che non è andata così», disse ancora Smeralda, e percepii in quel momento una punta di amarezza insinuarsi nella sua voce. «Veramente, signora, io… non saprei», le risposi balbettando, cercando di riordinare mentalmente tutte le informazioni che la donna mi aveva fornito col suo racconto.

Ma lei non me ne dette il tempo, perché poco dopo riprese a parlare. «Noi tre fummo felici solo nei primi anni di vita del nostro bambino. Poi, all’improvviso, compiuto il quarto anno di età, Elios iniziò a stare male. Fu colto dalla febbre, i medici parlarono di meningite e dissero che le speranze di sopravvivere per lui sarebbero state poche. E così fu. Ma io non volevo darmi per vinta. Così, mentre Luka era al capezzale di nostro figlio, io decisi di partire per fare ritorno a Carpignano Salentino e poter andare così a pregare la Madonna della Grotta, quella del Santuario vicino alla torre colombaia, che conoscevo così bene fin da bambina. Ero certa che la Madonna mi avrebbe dato ascolto e che avrebbe compiuto il miracolo, salvando la piccola vita di Elios».

«Ricordo ancora nitidamente l’emozione di rientrare nel Santuario dopo tanti anni, passando attraverso l’elegante portale barocco della facciata rivolta verso il paese e su cui spicca il rosone finemente decorato. Una volta entrata, mi diressi immediatamente verso la cripta ma, prima di scendere, decisi di soffermarmi a contemplare la statua in cartapesta della Madonna della Grotta, contenuta in una teca lignea situata vicino all’ingresso sinistro della cripta, nel transetto della chiesa. Infine andai giù e mi ritrovai davanti ad un piccolo altare riccamente decorato anteposto all’immagine della Madonna con il Bambino, affrescata su una stele di pietra e protetta da una grata, venerata dal popolo di Carpignano ormai da 443 anni».

«Decisi dunque di inginocchiarmi davanti a quella suggestiva immagine, chiusi gli occhi e pregai intensamente, con il più grande fervore unito a forza d’animo che abbia mai avuto nella mia vita, e chiesi alla Madonna di guarire mio figlio, di poterlo tenere ancora in braccio sano e sorridente, così come appariva Gesù da bambino in quello splendido affresco davanti a me, e ad un certo punto sentii la disperazione tramutarsi in lacrime di dolore, che iniziarono presto a scendere copiosamente lungo le guance. Poi, dopo lungo tempo, mi rialzai, sentendomi pervasa da un grande sollievo, certa che al mio ritorno a Bari avrei ricevuto dai medici delle notizie finalmente confortanti e che avrei ritrovato mio figlio in condizioni di salute migliorate».

«Tuttavia le cose non andarono così», disse ancora Smeralda. «Le mie aspettative furono completamente disilluse, le mie speranze totalmente vanificate nel momento in cui, all’ingresso del reparto del Policlinico di Bari in cui mio figlio era ricoverato, vidi Luka seduto su uno dei sedili del corridoio che piangeva disperato tenendosi la testa tra le mani. E lì non mi ci volle molto a capire che il nostro adorato Elios era andato via per sempre e che non c’era stato più nulla da fare per lui».

Io intanto mi sentivo sempre più stordito. Il racconto di quella donna aveva assunto dei risvolti inaspettati e sconcertanti che non ero pronto a gestire. Mi sentivo impreparato di fronte a quell’atroce verità, per cui non sapevo se rimanere, e andare fino in fondo, oppure andarmene via all’istante, facendo così la figura dell’immaturo e del vigliacco. Ad ogni modo decisi di rimanere, desideravo che lei mi rivelasse le conseguenze di quel dolore devastante nel rapporto con Luka, pur immaginandole. Le risposte ai miei interrogativi, anche se non espliciti, non tardarono ad arrivare, in quanto Smeralda, avendoli intuiti, riprese il suo racconto proprio dal punto che sarebbe servito a dipanare i miei dubbi e le mie perplessità.

«Dopo la morte di Elios seguirono anni di silenzi e di incomprensioni tra me e mio marito, che divennero inevitabilmente sempre più profondi, finché un giorno mi svegliai e lui non c’era più nel letto accanto a me. Sul tavolo della cucina trovai solo un biglietto, sul quale aveva scritto poche righe in cui diceva che era ormai irrimediabilmente infelice della vita insieme a me, che il dolore per la morte di nostro figlio si era fatto talmente insopportabile da decidere di allontanarsi per un certo periodo, riprendendo la sua vita in mare, e che prima o poi avrebbe fatto ritorno. Ma non lo fece mai e quella è stata l’unica volta in cui non mantenne con me la sua promessa. Di Luka si perse ogni traccia e persino alla Capitaneria di Porto di Bari mi fu detto che era ormai da considerarsi disperso. Dieci anni dopo la sua scomparsa ne fu dichiarata la morte presunta. Non ho mai più rivisto mio marito e da allora è iniziata la mia solitudine, totale ed incolmabile».

«Non ho amato nessun altro nella mia vita così profondamente come Luka ed Elios», proseguì Smeralda, «ma se c’è una cosa che ho imparato è che tutto in questa vita è transitorio. L’amore per mio marito e mio figlio insieme al loro ricordo sono sempre qui e ci saranno per sempre, fino alla fine della mia esistenza, che so non essere lontana, racchiusi nel mio cuore alla stregua di tesori inestimabili contenuti in uno scrigno prezioso. Ma loro non sono più presenti ormai da lungo tempo, sono passati e andati via, così come accade per qualsiasi altro essere umano. Non sento più il bisogno di essere confortata dalle parole vuote ed inutili delle persone, preferisco di gran lunga essere circondata da questi volatili considerati da tutti comuni ed insignificanti. Eppure per me la compagnia dei colombi ha un valore perché il loro battito d’ali, così fulmineo, seguito poi dal loro immediato alzarsi in volo, cosa a cui assisto ogni giorno, mi riporta alla mente la fugacità della vita, la sua inesorabile fuggevolezza, la sua ineluttabile caducità».

«Cerca di non dimenticare quanto ti ho raccontato», disse infine Smeralda, poi, senza aggiungere altro, si alzò dalla panchina e si diresse verso l’uscita del giardino, e quella fu l’ultima volta che la vidi, la sua figura minuta mentre incedeva un po’ traballante per via dell’età e con il peso di tutta una vita sulle spalle.

Intanto i colombi erano tornati a circondare la panchina sulla quale ero seduto, ormai solo, con il cane sempre accucciato ai miei piedi. Scorsi per la prima volta i riflessi smeraldini lungo la testa e il collo di quei volatili, che non avevo mai notato prima di allora, e per un attimo rividi in essi il fulgido bagliore verde smeraldo degli occhi di quella donna. Poi chiusi gli occhi a mia volta e fu allora che udii il loro fragoroso battito d’ali, segno che si erano alzati in volo. Ero certo che ogni volta, sentendolo, anch’io avrei sempre ripensato al fatto che tutto passa e non ritorna più. Le persone, gli amori, la vita stessa. Quando riaprii gli occhi, naturalmente i colombi non c’erano più. Strattonai col guinzaglio il mio cane e poi mi alzai. Il sole stava tramontando, era giunta l’ora di andare via.

 

 

 

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