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Ritorno e andata

Ritorno e andata

Via San Giacomo
41059 Zocca (MO)
Diari e Memorie Racconti
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Racconti online

Ritorno e andata (di Laura Corsini)

41059 Via San Giacomo 9, Zocca (MO)

Guidare di notte lascia aperto ai pensieri quel portone massiccio su cui di solito si arrampicano con zampe di ragno, lo trasforma nello sportello traballante del saloon. Entrare e uscire a proprio piacimento nel taglio netto della frescura serale, folla che compie il proprio moto di rivoluzione attorno alla mia testa immobile come un sole nel sistema dell’abitacolo, in realtà proiettata in un moto rettilineo uniforme, perfettamente centrale rispetto alle parallele della strada. Fende il buio senza brillare di luce propria ma avvalendosi del chiarore dei fari, tra sequenze di immagini fredde, quasi in bianco e nero, disertate da ombre fuggevoli che, come vampiri, detestano esser viste. Così le cose che sono stivate nei miei neuroni si danno il braccetto a caso, come gli garba, e hanno l’ardire di ripresentarsi, snocciolarsi in sequenza non ordinata, in litanie di ricordi in cui il tempo non ha più importanza, diventa un’etichetta davanti a un reperto archeologico. Tra poco anch’io sarò uno di quei pezzi da museo, un oggetto inerme del passato che lascia l’impronta laddove poggia la sua base, vi si incolla come le palpebre dopo le lunghe ore del sonno. Non ricordavo più che, quand’ero bambino, scavavo in giardino per cercare i tesori nascosti. E un tappo di bottiglia tornato alla luce riemergeva come una meraviglia, la ruggine gli donava età, sofferenza, pregio. Rivedo gli studi archeologici dell’università, dove un vecchio filmato ingiallito mostrava la bellezza dell’Ara di Pergamo. Non mi interessava, concentrato sul professore, sul mistero della morte che già si leggeva nelle sue membra scarne e in quella condanna sussurrata “cancro”; come faceva ancora a intestardirsi sulle lezioni? Perché non fuggiva in campagna, al diavolo il lavoro e il dovere, ad annusare i fiori e l’erba, ad impazzire di raggi di sole, del fruscio di un ruscello? così preziosi proprio perché lui si stava allontanando per sempre. Allora la morte mi appariva come qualcosa di grande e insondabile, di lontano come uno di quei remoti pianeti del sistema solare che nessuno raggiungerà mai. Ora sento la stessa fragilità permeare la mia stessa esistenza e comprendo che un morente non si tuffa nell’ultimo sprazzo di vita a capofitto, come succede nei film, proprio per non ammettere a se stesso che se ne sta andando. La quotidianità, la normalità sono la sua fuga.
Guido e non incrocio auto, i pensieri continuano ad affollarsi, a sbarrarmi il passo mentre mi sorprende quell’irreale mancanza di persone e di mezzi. Anche a tarda notte di solito qualche automobile scivola lungo l’asse dritto della tangenziale, la si vede da lontano con gli occhi gialli da demone silenzioso. Ma ora sembra che io sia l’unico viaggiatore di quella tenebra gelida e tersa, come se avessero annunciato l’invasione degli alieni e io sia stato il solo a non ascoltare la notizia e a percorrere incautamente le vie di un mondo sull’orlo del caos. La profondissima quiete prima dell’esplosione finale. Ognuno rimpiattato nella cantina di casa, madri che abbracciano figli, padri che abbracciano madri. Quando si ha paura ci si vuole tutti un gran bene. E io me ne viaggio senza meta, placido, in una sorta di plastico della città, pulito, silenzioso, solitario. Piacevole e insolito. Tutti quei ricordi hanno spazzato via la consapevolezza del presente, l’unica direzione possibile per ora è andare avanti, sempre avanti a velocità costante. Mi batte il cuore. In barba a quelli che mi danno per spacciato e a mia madre che continua ad accendere ceri in chiesa come se fossi già uno dei più e con quelle fiammelle potesse rischiarare la mia strada verso l’Alto Monte. Non ne ho bisogno; so gestire il buio a modo mio sin da quando mi hanno negato il tiepido conforto dell’abatjour. In nome del ragionevole risparmio energetico. Da allora ho imparato due cose: ad affrontare le tenebre e a infischiarmene del denaro e della ricchezza.
Mia madre piange ma io respiro ancora, la macchina che fa bip compie salti impercettibili, ritmici, rimbalzando sul tappeto elastico della mia vita terrena. Ella bacia il mio corpo, compianto come un cadavere, innaffiato dalle lacrime vere e da quelle ipocrite, col timore di sentire all’improvviso il gelido contatto della morte sulle sue labbra posate sulle mie mani e la mia guancia. Ma il macchinario dice che sto vivendo, cara mamma. Non mi hai mai dato tanti baci, neppure quando piangevo disperato e tu mi dicevi che mi stava come un vestito nuovo, perché me lo ero andato a cercare. Ma non è rabbia quel che sento. Non è dolore né felicità né senso di libertà. Potrei elencare una infinità di sentimenti, ma nessuno coinciderebbe con quello che si annida nel mio cuore. Come col concetto di limite matematico: non si definisce una funzione, pena la disgregazione della stessa, ma la si conosce tramite numeri che le si avvicinano, ne costituiscono l’alone di energia, la scia spumeggiante, lo sbuffo della balena, il passo della formica. Così tutti questi sostantivi fanno girotondo attorno al mio stato d’animo e io li uso per definirlo perché, se tentassi di farlo in modo preciso, le parole svanirebbero, i sentimenti si polverizzerebbero neutralizzandosi come un gas che raggiunge lo zero assoluto e, arditamente, con eroica e sprezzante follia, lo supera. Il cuore batte e questo importa.
Non so come faccia a marciare il mio macinino, soprattutto dopo il terribile incidente che me lo ha accartocciato addosso come un sudario di lamiera; risponde a meraviglia, le ruote girano senza cigolare, persino quello strano rumore che da mesi allietava i miei viaggi, un ticchettio simile a una bomba a orologeria e di dubbia provenienza, pare svanito.
All’improvviso le mie parallele si biforcano come se si fossero riprodotte, clonate, in un bivio che impone una scelta. Un lampione giallognolo e allampanato crolla il capo proprio all’incrocio e mi ammonisce “scegli bene” come se da quella svolta dipendesse tutto il mio destino. Ne ho affrontate tante nella vita di scelte, forse in modo troppo superficiale e alla fine mi sono ritrovato nei pasticci. Sempre in perdita perché non ho saputo aspettare.
“Si tratta di una semplice strada, scemo!” gli urlo avvicinandomi, ma sto gridando perché ho paura. Una delle due strade prosegue dritta, a vista d’occhio, naturale continuazione di quella da cui provengo. L’altra curva in modo deciso e comincia a inerpicarsi, a scalare le pendici di una montagna che bagna i suoi piedi nel fiume.
Quella strada mi assomiglia: anch’io mi sono separato dal percorso sicuro degli albori per intraprendere qualcosa di originale, di impervio ma che non appartenesse a nessun altro. Il lampione mi assegna un tempo limitato che sta già per scadere. Decido di curvare e lo scenario cambia all’istante.
Sei proprio un perdente, hai scelto la più dura. Mi sembra che mi getti dietro questa frase ronzando come un moscone, ma non gli do peso, non spetta a lui giudicarmi.
Il sentiero sembra una biscia infilzata, la cosa più tortuosa e impraticabile che abbia mai avuto modo di percorrere. Gli alberi, dalla chioma di un rosso struggente in questa stagione, si manifestano nelle tenebre come sagome disarmoniche, le rocce, i muretti, ogni cosa è uno di quei trasferelli che da bambino mi divertivo tanto a far aderire a uno scenario di cartoncino. C’erano gli indiani, i cowboy, i surfisti e gli animali del bosco. Non rispettavo il tema, li mischiavo tutti senza un senso. Il caos dell’esistenza, la mancanza di una Legge evidente, e io lo esprimevo facendo convivere figure che non si sposavano, che emergevano dallo sfondo senza amalgamarsi. Questi alberi… sembra facile poterli spostare a piacimento, come se non avessero radici ma un piedistallo di plastica. Non sono veri, solo la mia auto e io lo siamo, procedendo sfondiamo il telone nero e dietro c’è un altro telone altrettanto nero e un altro ancora.
La radio mi rimanda le note di Hotel California e incomincio a fare la batteria contro la coscia che risuona e aiuta il ritmo. Non posso essere morto o non avrei prodotto alcuna onda sonora. Mia madre e tutti gli altri che mi davano per spacciato… dedico a loro il tamburo del mio corpo, il ritmo che il cuore riproduce ridendosene dei referti e dei piagnistei. La serpe va avanti e avanti e ben presto piccoli punti bianchi cominciano a posarsi sul vetro: la neve!
Quante bufere affrontai quando vivevo in montagna; me le ero dimenticate dopo anni di inverni dolci e cittadini, grigi di nebbia, palazzi e piccioni, tristi ma innocui, quelle stagioni aspre e crude là dove per cinque mesi l’anno la neve e il ghiaccio dettano la loro legge. Ci si sente in balia degli elementi e, in un certo senso, esploratori incauti che sfidano le forze della natura. Ogni arrivo è un’impresa. La pellicola bianca sulla strada ora si traccia dei neri solchi delle ruote, parallele nelle parallele ma serpeggianti, esse dritte e rovesce che presto altri fiocchi ricopriranno. Poi, senza preavviso, sbuco in una radura che spazia gettandosi tutt’intorno nell’infinito, nell’emisfero concavo del cielo e nelle luci, non di stelle ma di vite lontane, che si raggrumano nei gruppi di case, abbracciate e tremolanti e mi danno un senso di esclusione dal consesso umano. Il vento gelido mi avvolge come un manto quando scendo dall’auto, mentre la notte mi impelliccia col suo vello di pantera e divengo anch’io creatura spaventata e nascosta, come quelle che frusciano nella vegetazione: animali o spettri non ha importanza.
Quel posto mi fa fiutare ricordi, assaporare felicità lontane quando ancora c’era lungo tempo davanti e le cose da fare si affastellavano impazienti. Azzardo qualche passo scricchiolante, fra altre fughe di invisibili osservatori, e imbocco una stradina stretta, tutta buchi, in cui, cieco, annaspo. In questo momento il macchinario con la sussultante linea verde sicuramente sta ballando una vera tarantella, il mio cuore si lascia andare a sistoli e diastoli potenziate che sento rimbombare nel petto e nella gola. Ma quell’odore… quel dolce odore…
Papà, credi che vedremo un cerbiatto?
Se gridi così è escluso…
Chi ha parlato? Mi guardo intorno e la voce si fa bisbiglio fino a sfumare nel nulla. Una bambina con gli occhi ridenti mi precede affrettandosi sulle corte gambette. Illumina la via man mano che si sposta, con il giubbotto troppo grande e gli stivali di gomma che fanno su e giù ad ogni passo. Si volta indietro per assicurarsi che ci sia ancora.
Anna…
Ci sono stato con Anna, la mia bambina, in questo bosco. Quando era ancora disposta a concedermi la sua fiducia, prima che l’Australia la inghiottisse tanto da non sapere neanche che suo padre sta morendo. O, come affermano, è già morto. Mi conduce davanti al grande Ospitale antico e poi sparisce giù per la gradinata, a giocare a nascondino. Il lago del cuore mi si allarga, come quando in una folla di estranei si nota un volto amico. San Giacomo: il vecchio castagneto, le betulle sottili e bianche come giovani spose, l’ospitale in pietra, il museo, il portico…
È un’altra vita quella che mi danza davanti, difficile ma felice, dura e rasserenante proprio come la pietra massiccia di questo edificio che ha sfidato il tempo, le intemperie, i terremoti. Ed è ancora lì a dimostrare la grandezza di Dio, come una sequoia millenaria anch’egli opera divina, di mani ispirate da un disegno superiore. Ci sono stato tante volte, ora ricordo, con Anna e senza di lei, mi sono tuffato nella pazzia del firmamento che qui è vicinissimo, vi accompagnai attori e comparse, narratori e vecchi cantastorie in questo scenario di concerti e letture, giochi, cacce al tesoro… Non mi tradì mai, ma poi io tradii lui trasportando la mia attività in città, dove l’indifferenza del viavai cittadino non può eguagliare neanche per un attimo il sublime raccoglimento del silenzio e dello spazio aperto. Sul portone balugina una piccola luce stanca, una sentinella che ha bisogno di un buon giaciglio e di un caffè caldo, ed è questo che sogna. Le sentinelle, nelle ultime ore di guardia, hanno pensieri semplici.
La porta è aperta e si muove scricchiolando con rumore di cardini che da tempo non girano e si destano dal pigro letargo che l’inverno favorisce. La cucina si veste della penombra, ma la memoria mi disegna la mappa dei mobili e delle suppellettili di quell’interno perfettamente ricostruito. Uno squarcio spazio-temporale che regala un brandello di antico. Non il medioevo delle streghe bruciate, della peste e del chiassoso fetore dei centri urbani. Non quello delle crociate e dei Marco Polo in partenza per un lontanissimo Catai. Questo è un medioevo sublime, spirituale, un’epoca di asceti, religione fervida, silenzioso ora et labora. E mi ci tuffo volentieri. Dal corridoio pulsa un chiarore come di fosforo, tanto vivido e netto che sembra facile poterlo prendere in mano, una palla di fuoco freddo. La luce, così globulosa e roteante come un minuscolo pianeta, avanza e attende, per farsi seguire. Questa notte non mi stupisco di nulla, le vado dietro come si fa quando un locandiere, con la lanterna in mano, mostra la stanza in fondo al corridoio. La scala, angusta, rimanda ombre mostruose sullo schermo della parete, semplicemente il mio corpo che si diverte a giocare con la luce, a deformarsi in quel suo alter ego impalpabile e monocromatico, a liberare la propria forma dalla linea consueta. La fila di porte delle antiche celle forma una sorta di tastiera, note di un salterio vibrate dall’organo di una chiesa. La pallina di luce le sfiora tutte a rimbalzo e produce una musica, un suono dolce. Bach… il concerto che organizzammo un’estate proprio qui, sul piazzale. Indimenticabile, gli spettatori avevano i volti rapiti da tanta bellezza. La luce scarta con una curva da campioni e si infila nell’ultima cella, aperta. Sto per assistere a qualcosa di straordinario, se lo racconterò nessuno mi crederà. La cella ha il tetto spiovente, con le travi a vista, una sorta di minuscolo ricetto che pulsa degli ansiti e delle preghiere di secoli di pellegrini, quel frusciare sommesso e pacato che sa fungere da massaggio cardiaco in certe circostanze. L’arredo è povera cosa, bastante a chi si è allontanato dai desideri della carne e si adagia solo a quelli a cui la pura biologia lo costringe: un tozzo di pane, acqua fresca e un povero giaciglio su cui ristorare le membra dal lungo camminare. Ricordo che i pellegrini sapevano riposare mentre camminavano, entrare in una sorta di trance che giovasse alla mente che, di quando in quando, ha bisogno di staccare la spina, senza interrompere il viaggio. La piccola finestra incastonata nel muro spesso si concede il lusso di una lastra di vetro: in origine era un semplice foro da cui si sbizzarriva ad entrare la lama del gelo, senza schermo. Un fagotto scuro, adagiato sul letto, si muove leggermente, tossisce e mi fa capire che si tratta di un uomo.
Sussulto e il cuore prende a danzare come un matto. Chissà quel macchinario con la linea verde acido, penso. L’uomo mi saluta; è la prima volta che mi sento apostrofare così.
Ave…
Ma che, parli in latino? Mi sorride, non capisce la mia lingua, così mi adeguo alla sua. Finalmente gli studi liceali possono tornarmi utili. È un giovane frate, le orbite scavate dai lunghi digiuni e dalle veglie di preghiera, il naso dritto come la sua coscienza, la barba lunga e un rozzo saio sul corpo che con foga si impegna a mortificare.
Con la mano scheletrica mi fa cenno di avvicinarmi e a fatica si solleva a sedere, come un malato, ma senza un gemito: è abituato a soffrire. Siedo accanto a lui, sotto le travi che quasi sfiorano le nostre teste, nel gelo che materializza il fiato come se si trattasse della nostra anima che a sbuffi si manifesta, si libera. Parliamo per ore del mistero dell’esistenza, io povero uomo moderno pieno di dubbi e frustrazioni e lui che invece viaggia dritto sui binari di una fede decisa e incrollabile. Fuori comincia a fare giorno.
Nunc ire debemus… è l’ora del congedo. Un’ultima domanda, gli chiedo cosa ci facesse qui in una nottata come quella.
E tu che ci fai? Non lo so con esattezza, sto morendo, forse sono già cadavere e i ceri di mia madre cominciano ad acquistare un senso. Ha una luce speciale negli occhi, qualcosa che lava via ogni mia paura. I ricordi del passato si sono dileguati, ora non fa più tanto male lasciarli lì, sul marciapiede della stazione. Dice di essere nato nel millecinquecento, secondo semplici calcoli deve essere morto da oltre quattrocento anni. Ma non gli domando di più. La luce del giorno porta via il globo luminoso, lo assorbe come, secondo la fisica, un corpo maggiore fa con uno di massa minore. Usciamo insieme in silenzio, il frate, scalzo, muove alcuni passi nella neve fresca senza lasciare orme. Mi dirigo all’auto. Mi volto ma non c’è più, è svanito. Nulla, neppure le mie orme, punteggia la distesa bianca, è immacolata e qua e là qualche uccellino affamato la spazza con un frullo d’ali, una stellina lieve che non disdice nella liscia compattezza. Un’ultima occhiata all’ospitale, gli sorrido come a un amico quando si va lontano, molto lontano. Guido piano tornando a valle in un mondo vuoto e solitario, bianchissimo, purgato da tutti i dolori che lo flagellano ogni giorno. Al bivio questa volta giro verso la strada dritta, quella che si perde come un nastro all’orizzonte.
Accendo la radio e la solita musica di Hotel California accompagna i primi chilometri. La batteria sulla coscia non produce alcun suono, per quanto mi accanisca a percuoterla. Ma non ho paura, sono pronto per il mio viaggio, con o senza ritmo. Anche il cuore non ticchetta più, la linea verdognola del macchinario deve essere una retta adesso, dritta e sottile come la lunga strada che mi attende.

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  1. Anna Maria Funari
    Originalità

    Coinvolgimento

    Stile

    Chapel all’autrice.
    Non è così semplice affrontare l’argomento della morte narrandolo come un viaggio a cui inevitabilmente tutti siamo chiamati a partecipare.

    7 anni fa

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