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La Fontanella

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06069 Tuoro Sul Trasimeno
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La Fontanella

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La salita era ripida. Maledettamente ripida. Al termine di essa
si arrivava sempre con un nodo in gola, sia che si faceva a piedi,
sia in macchina. Sembrava un’espiazione ai nostri peccati.
Il cancello di ferro semi aperto era lì  davanti a noi, enorme ed austero.
Il mondo dei morti ci attendeva nel nostro viaggio quotidiano.
Accanto a circa quattro passi, c’era la fontanella. L’unica fonte di vita
di quel luogo.
La cappella stretta era il nostro luogo di preghiera e di lacrime.
Una finestrella cieca e alta come un occhio di un ciclope, ci osservava.
Un bacio alla foto, ricordi che si rincorrono in una giostra di
emozioni e di rimpianti. Troppo giovane per morire in un giorno
di maggio, troppo poco è il tempo che è passato dall’ultimo bacio,
e penso che ancora mi devi un giro di giostra delle nostre domeniche
pomeriggio.
Conto solo nove anni della mia vita, ed ancora non ho capito cos’è
la morte. Forse è un viaggio, dove si sa quando si parte, ma non si
sa quando si torna. Forse è un sogno e ti sveglierai con la tua immancabile sigaretta tra le dita, o non ci si sveglia mai.
Forse domani tornerai. Forse. Forse mai.
Fuori dalla buia cappella, c’era un balconcino che dava sulla
campagna sottostante. Eravamo nel punto più alto del paese.
In fondo si vedeva il lago, il Trasimeno.
Le case mi sembravano finte talmente erano piccole ai miei occhi.
Cercavo la casa dei nonni immersa com’era nel verde sconfinato.
Eccola lì, un puntino bianco nell’immenso  mare verde della campagna Umbra.
E da lì immaginavo la vita di tutti i giorni dentro la casa.
Il nonno al lavoro tra i campi tra un colpo di zappa e una madonna,
la nonna in cucina a preparare il pranzo, mia cugina nella sua camera
a giocare con le bambole in attesa del mio ritorno  per le nostre scorribande in bici, mio fratello con il vecchio motore del nonno, i cani che si rincorrono nello spiazzale di casa o accucciati attenti davanti l’aia ad osservare le galline  che, innervosite dalla loro presenza, starnazzano per la loro attenzione bramosa, mentre il più piccolo dei miei fratelli era qui con noi che teneva la mano di mia madre. Aveva solo tre anni.
I fiori, colorati profumati, simbolo d’amore. Eterno amore.
Bisognava cambiare l’acqua nelle brocche portafiori.
E’ lì, alla fontanella, mentre scorreva l’acqua, osservavo mia madre
nei suoi movimenti. Tutto l’amore possibile, racchiuso in semplici gesti.
Con cura sciacquava dapprima le brocche, e poi tagliava gli steli ai fiori.
Schizzi d’acqua bagnavano tutto intorno. L’espressione di chi ancora
non si rassegna alla realtà. Sembrava incantata a guardare quel filo
d’acqua che scendeva, irregolare, dalla fontanella. Ma nella sua mente
scorreva tutta la sua vita fino a quel giorno di maggio. Troppo giovane
per rimanere sola. Troppe le lacrime versate. Pochi gli anni felici.
Per me era l’unico, innocente divertimento quando si andava al cimitero.
Così gli riempivo d’acqua il resto delle brocche delle tombe degli altri
parenti presenti nella cappella. Schizzi d’acqua impazziti mi bagnavano
le scarpe, mio padre da lassù, dove dicevano che era andato, avrebbe
riso nel vedermi.
La fontanella.  E sullo sfondo i colori della campagna, spruzzate di
giallo di girasoli tra sfumature di verde che degradavano via via in
un gioco cromatico che si specchiava a valle sul grande lago, il Trasimeno,grigio ed immobile, placido e silenzioso, sembrava un gigante a
riposo dopo una lunga giornata di fatica nei campi,  con i suoi guardiani pescatori all’impiedi sulle barche.  Come un quadro di Monet.
Il canto dei passeri, distese di ulivi, tortuosi sentieri  di campagna ove alcuni si inerpicavano verso colline lussureggianti dove mi era impossibile arrivare, e altre si districavano tra le campagne dove mi perdevo con la bici negli assolati meriggi, attratto dai rovi di succulenti more sostavo ora solo, ora in  compagnia di mia cugina, per farne incetta e sporcarmi le magliette dove immancabilmente lasciavano tracce di ingordigia  con le inevitabili imprecazioni di mia madre.
Tra pini e maestose querce all’ombra delle quali mi fermavo a riprendere
fiato, disteso sull’erba dove, inconsapevole di ciò che stava per accadere, sognavo come solo un bambino può fare,  e poi abeti, castagni, il canto assordante delle cicale,  e con gli  immancabili cipressi tutti intorno.
Il silenzio l’unico vero padrone.  La fontanella, l’unica fonte di vita, di movimento, di allegria, in un luogo di assenza, di morte.


Si ripercorreva la stessa strada e la discesa faceva ancora più paura. Osservavo lo sguardo di mia madre nel percorrerla, lo sguardo era diverso, la salita nella sua asperità,  era il punto di arrivo, la rappresentazione della presenza della persona di cui era da sempre innamorata perché ne era la sua vita, non  era solo  un obbligo morale o un atto d’amore fine a se stesso, era anche una parvenza  di quella normalità familiare ormai perduta.
Osservavo la  mimica delle sue labbra, non si rivolgeva a mio padre
solo per una preghiera, ma era come se stesse dialogando con lui.
La discesa invece  rappresentava  un salto nel futuro, un futuro che io non potevo percepire e che invece lei sembrava già conoscere, un salto nel vuoto dei giorni che sarebbero arrivati, un assenza che con il divenire dei giorni e delle notti  sarebbe pesata sulle nostre esistenze.
Gelida scorreva anche se a primavera, ma era acqua che serviva non solo per i fiori dei defunti.
Era la vita che scorreva ancora tra i giorni senza di lui.

 

 

 

 

 

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