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Remigio (da I silenzi di Roma)

Remigio (da I silenzi di Roma)

Piazza Barberini
00187 Roma
Luoghi e Paesaggi Racconti
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Remigio (da I silenzi di Roma)

visita su Google street view     Piazza Barberini Roma /button>


Il taxi percorre a fatica Via Bissolati, questa giornata capricciosa ha ancora sete d’acqua. I tergicristalli giocano con una pioggerellina incessante, in un rumore ipnotico che genera sonno.
«Cristo santo, che gnagnarella!» sussurra Ernesto, che di strade lucide di pioggia non ne può più. La donna rimane in silenzio, le spalle esili appiccicate al sedile la fanno apparire ancora più piccola e confusa. Fissa il parabrezza. Rivoli d’acqua si arrendono alle guarnizioni che li catturano separandoli in strade divergenti. Li accompagna con gli occhi, forse sta scegliendo la sua direzione anche lei.
Il traffico è paralizzato, Ernesto impiegherà una vita per riportare a casa quella donna. Abita a Trastevere. Non è lontano da lì, ma la pioggia diluisce le distanze fino a raggiungere tempi infiniti. Soprattutto a Roma. Si lasciano finalmente alle spalle Via Veneto e imboccano Piazza Barberini.
Il tritone della fontana è rimasto da solo a scatenare tempesta in giro, da allora le sue guance soffiano ancora più rabbiose dentro la conchiglia. Un tempo c’era Remigio a tenergli compagnia, l’ha fatto per oltre trent’anni. Erano i monumenti della piazza, quei due. Er pazzo danzava a piccoli passi anche per il suo amico che, con i piedi incarcerati nel marmo, era troppo incazzato per ballare.
Certe volte a Ernesto sembra ancora di vederlo, mentre canta a squarciagola con le cuffiette calcate sulle orecchie. Lo vedono ancora in tanti, ci riescono soltanto quelli che hanno annusato come si deve la sua anima. Er pazzo de Piazza Barberini, l’eccentrico musicista che dirigeva orchestre soltanto sue, fantasmi melodiosi di violini e fiati, grappoli di note sospese nel suo spirito bizzarro, spirali di musica regalate con generosità al vento. L’hanno dato per morto un sacco di volte, poi se n’è andato sul serio. Ictus, quasi dieci anni fa. Lo scherzo cattivo, forse, di quegli alieni che aveva tanto aspettato.
Se lo ricorda bene Ernesto. L’ha conosciuto che era ancora un ragazzino, la prima volta in cui marinò la scuola. Quel giorno c’era il compito in classe di computisteria, fra le materie per guadagnarsi il diploma era la più detestabile. Aveva fatto sega con Paoletto, che era addirittura più alto di lui. Due giganti, svettavano sui compagni di classe di almeno venti centimetri. Ma a Roma, anche se sfiori il lampadario e con una manata potresti spezzare in due il collo di un cristiano, non hai più il diritto di chiamarti Paolo.
Ernesto e il suo amico avevano organizzato tutto avvalendosi dei servizi di un ragazzino che, per pochi spiccioli, avrebbe venduto pure sua sorella; si doleva spesso di essere figlio unico. Indossava occhiali rotondi e bisunti sulla faccia da talpa, lavorava nell’ombra e lo faceva bene. Falsari più abili non se ne trovavano in giro, ogni alunno in vena di bigiare la scuola pagava per una contraffazione come soltanto lui sapeva farne. Con mille lire a cranio – fondo cassa per l’università, dichiarava lui – ci si poteva assicurare l’esatta riproduzione della firma di papà o mamma. Incassava l’obolo infilandolo in fretta in un portafogli di tela sdrucita con un brillio sinistro negli occhi, e avanti un altro. Era un appassionato di vecchi film, il ragazzo talpa. La banda degli onesti era il suo preferito, per questo lo chiamavano tutti Totò.
Ernesto e Paolo avevano scelto con cura il giorno della loro prima volta. Settembre era passato da un pezzo eppure il sole scaldava forte i sampietrini. Avevano tremato di eccitazione e paura, ma solo all’inizio. Si erano goduti a lungo quella giornata di trasgressione, le ottobrate romane sono regali tardivi del cielo. Quando il caldo raggiunse l’apice, sedettero sui gradini di Piazza di Spagna mescolati ai tanti turisti che tuffavano le mani nella Barcaccia per rinfrescarsi un po. Restarono lì per un sacco di tempo a rosolarsi, poi decisero di fare due passi e si ritrovarono a bighellonare per Piazza Barberini.
Remigio era lì che si inchinava ai turisti, ma un attimo dopo alzava la testa, superbo, scalciando fuori sorrisi e pernacchie. «La gente si distrae a guardarlo mentre balla e allora abbiamo decine di tamponamenti.», così hanno detto di lui un giorno «e poi la gente si spaventa.» Metteva paura a qualcuno, è vero, anche se in realtà non dava fastidio se non agli spocchiosi o ai capoccioni che governavano la grande baracca capitolina.
Anche loro due, marmocchi in fuga da un compito in classe, lì per lì rimasero intimoriti da quell’uomo così alieno. Lo scrutarono a distanza per un po’, mentre lui contraccambiava l’interesse con la sua strana faccia gommosa. Quando fu sazio di guardarli, iniziò il suo barcollare da vecchio passero. Si esibì in un paio di piroette e li raggiunse a balzelli. Poi soffiò loro in faccia la sentenza: «Io autorizzo! Io auspico!» con un teatrale sberleffo. Sorrisero, alla fine, interpretando quella frase come una benedizione alla loro temporanea libertà.
Quando tornò a casa Ernesto cercò di non destare sospetti, ma non era mai stato tagliato per le bugie. Suo padre si accorse da tanti segnali che quel giorno lui a scuola non c’era andato: lo sguardo sfuggente, le frasi monosillabiche, la fretta di mettersi a studiare. Era venerdì pomeriggio, suo figlio i compiti non li faceva mai prima del sabato.
Bruno era orgoglioso di lui. Non lo capiva, Ernesto, che portare a casa una pagella zeppa di insufficienze avrebbe forse ribaltato il suo destino. Collezionava un dieci dietro l’altro per compiacere il padre, nel tentativo di riscattarsi dal sequestro. Eppure, sarebbe bastato guardarsi allo specchio e leggersi negli occhi per smascherare l’autentico carceriere.  Sarà il primo della famiglia a prendere un diploma e magari un giorno a laurearsi, Bruno ci teneva tanto che il suo unico figlio studiasse sodo. Un riconoscimento concreto, non quelle stronzate artistiche o letterarie, qualcosa che gli avrebbe garantito un futuro e quel minimo di agiatezza.
Era troppo intelligente, il suo ragazzino, per finire dietro alla macchina del caffè in un bar così come era successo a lui. Aveva programmato tutto nei minimi dettagli. Cosa pensasse Ernesto di tanta pianificazione, però, non se lo chiese mai. Bruno si accorse subito del suo viso troppo caldo di sole, ma non gli fece domande.
Gli tornò in mente il giorno in cui anche lui rientrò a casa con la faccia ustionata. Era successo mentre avrebbe dovuto sostenere un esame di riparazione, voglia di studiare non ne aveva mai avuta troppa.
Si affacciò al portone della scuola e domandò al bidello:
«Mi scusi, che ci sono oggi gli esami di riparazione di italiano?»
E lui, da bravo figlio della Lupa, rispose: «Nooo, ce stanno domani!»
Non colse il sarcasmo e così si precipitò sul set di Un americano a Roma, lo stavano girando proprio in quei giorni. Non poteva perdere l’opportunità di godersi dal vivo l’immenso Albertone. Lo bocciarono e a scuola non volle andarci più. I libri gli avevano sempre procurato allergia, Ernesto era invece bravissimo. Non poteva mica rimproverarlo per aver fatto sega a scuola.
Ora il suo bravo diploma di Ragioniere e Perito Commerciale -nessuna laurea a fargli da strascico – è appeso nel salotto dei suoi, di lato alla vetrina col servizio buono e i souvenir di Venezia. Quell’inutile pezzo di carta non è abbastanza ampio per avvolgere tutti i sogni borghesi di Bruno. Ma ha vinto lui, comunque. Tanto gli basta. Poco distante, c’è una foto che ritrae suo figlio vincitore della gara per bambini pittori di Via Margutta, abbracciato al ragazzino che si piazzò al secondo posto. Un moretto con uno sbaffo di tempera bianca sui capelli, proprio sul ciuffo davanti.
Ernesto se lo ricorda ancora bene Remigio, che di leggende metropolitane ne ha ispirate tante, forse qualcuna l’ha messa in piedi proprio lui. Dicevano che avesse un sacco di soldi, in realtà, che fin quando non è impazzito fosse un direttore di banca, un avvocato, un ingegnere. Che vivesse in un attico nel centro storico con ampi terrazzi dove svolazzavano bandiere tricolori.
La memoria di ciò che era stato si perse nelle dicerie e in un’anima stramba che non distingueva i turisti dai passanti incastrati nella fretta. Regalava allegria a chiunque, lui. Magari proprio a chi, quel giorno, aveva bisogno del sorriso sdentato di un pazzo. Soltanto i più sensibili si chiedevano se il matto fosse lui, che strappava risate inneggiando alla libertà, oppure loro. Tirati a lucido nelle giacche e cravatte o traballanti sui tacchi altissimi, frullati in una vita a trecento all’ora. Senza soste, compressi nei doveri, senza energia per scassinare tanta omologazione.
«Io autorizzo! Io auspico!»
Ernesto la sente rimbalzare ancora nelle orecchie la benedizione di Remigio, ogni volta che attraversa quella piazza gli lancia un saluto di scusa. Se solo gli avesse dato retta, quella mattina. Se avesse fatto sega dalla sua vita e non soltanto da un compito in classe.
Se.
Sono arrivati, finalmente. La donna scende adagio dal taxi lasciandosi dietro una bava di amarezza. Ernesto ne raccoglie un po’ e se la porta a casa. Ha un paio di giorni di riposo prima del nuovo turno di lavoro, saranno i più faticosi della settimana.


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