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Virginia, Scipio e il  Minestrone

Virginia, Scipio e il Minestrone

14050 Roccaverano (AT)
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Virginia, Scipio e il Minestrone

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Zia Virginia era piccola di statura, leggermente curva, (i maligni la definivano addirittura gobba!) magrolina ma non patita, aveva una carnagione tendente all’olivastro che, durante i mesi estivi, grazie al quotidiano lavoro nell’orto dietro casa, assomigliava al marrone dei tappi di sughero delle bottiglie di vino che stappava zio Scipio.  I capelli erano raccolti in una lunga treccia che, in gioventù, era stata nerissima. Con il passare degli anni si era ingrigita ma lei non aveva cambiato foggia: sempre con la treccia arrotolata sulla nuca e fermata da due grosse forcine.  Solo il marito, nel chiuso della loro camera da letto, l’aveva vista con i capelli sciolti. Indossava sempre abiti scuri, comodi, con un taglio che tendeva a minimizzare l’arcuatura delle sue spalle. Sopra l’abito non dimenticava mai di mettere un grembiule a fiori con capienti tasche dalle quali spesso estraeva qualche caramella per noi bambini, se facevamo i buoni.  Tutti i giorni, con il sole o con la pioggia, per la casa, il negozio e l’orto, calzava ciabatte di panno, senza nemmeno un filo di tacco. E senza tacco erano pure le scarpe della domenica, per andare a messa. Diceva che era inutile mettere i tacchi, perché non sarebbe sembrata molto più alta di quello che era.
Zio Scipio, chiamato sempre con il diminutivo del suo nome non tanto per la lunghezza quanto per il contrasto con la sua figura, era un ometto poco più alto della moglie, magro ma forte come tutti i contadini malgrado non fosse più nel fiore degli anni. Aveva la passione per il giardinaggio, infatti negli orti che coltivava, quello piccolo dietro casa e quello grande intorno al casotto di Cianfreschè, vi erano cespugli di lillà e di rose, poi dalie, gigli, iris, viole e agapanthus che venivano spesso portati in chiesa per l’altare.
Ricordo che per qualche anno si era preso l’incarico di curare le aiuole dell’antico castello del paese; vi trascorreva intere mattinate zappettando, togliendo le erbacce, innaffiando e piantando nuove piantine. Dopo che lui ebbe lasciato questa incombenza, il castello non fu mai più così bello. Fra una scorribanda e l’altra con i miei compagni di giochi, spesso passavo in castello a salutarlo o a portargli lo spuntino di metà mattina. Qualche volta mi mandava dal tabaccaio per acquistare i sigari toscani, suo vizio insieme a qualche bicchiere di vino.
Con gli zii di mia madre avevo sempre avuto un rapporto speciale per cui toccai il cielo con un dito quando lei mi comunicò che quell’estate sarei stata con loro.
Quell’anno, per una serie di spiacevoli circostanze, non volendo che rimanessi a Genova per i tre mesi estivi (sì, a quei tempi si ritornava a scuola a ottobre!) praticamente chiusa in casa, mia madre si era accordata con zia Virginia e zio Scipio affinché mi ospitassero.
Mi assegnarono una stanza al primo piano che dava sul lungo balcone pieno di vasi di gerani e mi presi il compito di innaffiali regolarmente. Non sono mai stata una dormigliona, ma le giornate a casa degli zii cominciavano presto, molto presto. Spesso, invece dell’aroma del caffè, il profumo che mi tirava giù dal letto era quello della bagna càuda della sera precedente riscaldata oppure della peperonata.
Lo zio iniziava sempre la sua giornata con cibi un po’… come definirli se non saporiti? Dopo, sulla stufa a legna, veniva messa la caffettiera e il bricco del latte per noi donne, perché lui beveva solo un bicchiere di dolcetto. Preparare il pranzo era un rito che iniziava subito dopo la colazione e un paio di volte alla settimana si cucinava il minestrone. Mi piaceva aiutare a prepararlo ma ancor più mangiarlo. Prima delle otto Virginia andava nell’orto dietro casa a cogliere le verdure fresche. Nel pentolone sulla stufa a legna già soffriggeva piano un trito di lardo, cipolle, carote e sedano. Quando la rosolatura era al punto giusto venivano aggiunte zucchine, bietole, patate, basilico, pomodori, qualche foglia di cavolo, piselli, fagioli, uno spicchio d’aglio puliti e lavati accuratamente, insieme all’acqua per la cottura. Quando c’era, la zia mi faceva aggiungere anche una crosta di formaggio grana, giusto per dargli un tocco di sapore in più. Io avevo l’incarico di rimescolare ogni tanto, compito che assolvevo con piacere anche se i miei amici mi venivano a chiamare per andare in giro per il piccolo paese a giocare. Al mio rifiuto, finivano per stare tutti sulla pista, come veniva chiamato il grande cortile ricoperto di cemento liscio liscio e dove al sabato sera si ballava con l’orchestrina. Si chiacchierava, si ascoltava qualche canzone con il mangiadischi e si rideva a qualche barzelletta mentre il minestrone cuoceva lento. Ogni tanto aiutavo zia Virginia nel suo negozio di merceria (ero così orgogliosa quando mi chiamava “la mia piccola commessa” e mi lasciava mettere in ordine i bottoni nelle loro scatolette e i rocchetti di filo nelle varie gradazioni di colore!) ma poi correvo in cucina a rimescolare il pentolone con il mestolo di legno. Nelle ultime fasi di cottura dovevo stare attentissima che non si attaccasse al fondo.  
Zio Scipio invece trascorreva le sue mattine in Cianfreschè dove accudiva le galline e l’orto più grande nel quale coltivava le patate, le cipolle e qualche albero da frutto.  Ritornava sempre in paese con una cavagna con le uova fresche per la frittata d’erba amara che avremmo mangiato a cena. Zia Virginia la faceva spesso proprio perché io ne ero ghiotta!  Sotto il fazzolettone blu a righe spesso c’era una piccola terrina che mi ostinavo a definire puzzolente. Già, bambina di città, non apprezzavo il bruss e meno che meno il formaggio marcio con i vermi. Pane e bruss invece era lo spuntino di metà mattina di zio Scipio. Il suo ritorno a casa anticipava di un quarto d’ora esatto lo scampanio del mezzogiorno e il latrato di Leo il quale non sopportava tutto quel rumore. Lo zio lasciava nel solito angolo il bastone al quale si appoggiava per facilitarsi la passeggiata fino all’orto grande e ritorno, si lavava le mani nel secchio appena tirato su dal pozzo e poi usava l’acqua per innaffiare qualche vaso di fiori là accanto. Entrando in cucina dava uno sguardo indagatore alla stufa a legna sulla quale c’era ancora il pentolone con il minestrone ormai pronto dopo una intera mattinata di cottura.
E allora veniva il bello: apparecchiando la tavola ridacchiavo pregustando quello che sarebbe successo da lì a poco.
–          Dì, matota!  – mi diceva lo zio sedendosi a capotavola. – To vardò che to zia a l’abba fò da mangè ben? (Hai controllato che tua zia abbia cucinato bene?)
–           Certo zio.
–          Mah! – diceva dubbioso- Fome vardè da mì. (Fai giudicare a me!)
La zia faceva finta di sbuffare e metteva il pentolone sul tavolo. Seguiva un attimo di silenzio durante il quale ci si guardava tutti negli occhi. Immancabilmente non riuscivo a evitare di pensare al film Mezzogiorno di fuoco, nella mia mente risuonavano le note della colonna sonora e mi scappava da ridere. Poi lo zio, con un’espressione imperturbabile, prendeva il mestolo e lo metteva dentro il pentolone, proprio al centro. Doveva stare su bello dritto per avere una sua prima approvazione. Se per caso scivolava un po’ di lato si scatenava una vivace discussione che manco le Baruffe Chiozzotte di Goldoni! Lo zio mi faceva l’occhiolino e rincarava la dose di critiche alla prima cucchiaiata: troppo sale, poco sale, poco basilico, – sentenziava. –  e l’aglio ce lo hai messo? – chiedeva ancora. – pochi pomodori, ci voleva anche un po’ di concentrato, la pasta è troppo cotta o troppo cruda, e se invece dei ditaloni avessi messo i tajarin fatti ieri non era meglio?
Zia Virginia rispondeva sempre a tono, qualche volta anche strillando, facendo finta di arrabbiarsi: si vedeva nei suoi occhi una luce allegra che non dava adito a dubbi di sorta. Dopo più di cinquant’anni di matrimonio ci voleva ben altro per litigare seriamente con Scipio!
A quel punto io avevo già finito la mia porzione e richiedevo il bis perché mi era parso di sentire un vago retrogusto di non so cosa e me ne volevo accertare. Mi piaceva moltissimo sentirli punzecchiarsi a vicenda e loro mi davano corda.
–          Vorda là! Sent! Anco’ la matota al dis che l’è nent bon! (Vedi! Senti! anche la ragazzina dice che non è buono!) – tuonava lo zio – A na pii in atr piat anche mi e at faz voughi cume rangele! (ne prendo un altro piatto anche io e ti faccio vedere come correggerlo.)
Il bis dello zio invariabilmente veniva corretto, già, corretto al vino! e invariabilmente lui commentava che solo allora il minestrone era mangiabile.
 
Pubblicato sull’antologia   Racconti dal Piemonte 2020 Ed. Historica

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