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Caterina

Caterina

Via Toledo
Napoli
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Caterina

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Fermata Municipio. Due ragazzi si baciano. Li osservo. Ricordo i baci che ti rubavo, mia Caterina, mentre tuo padre dormiva e tu mi accompagnavi alla porta. Lei ti somiglia, è di carnagione chiara, indossa gli occhiali. Ha un libro sulle gambe. Cerco di leggere il titolo: Se una notte d’inverno un viaggiatore. Vedi che ti somiglia?! Adoravi Calvino. Avevamo in casa tutti i suoi libri e abbiamo chiamato Italo nostro figlio. Lui ha un orecchino a forma di cerchio, riesco a vederci attraverso. Io però non ho mai portato ornamenti. I loro occhiali si sfiorano senza toccarsi, si baciano con precisione. Sono invidioso. Il bacio è caloroso, sicuro, denso, duraturo. Eccola che prende fiato. Il ragazzo regge una margherita. Dicono che i giovani sono cambiati, i sentimenti resistono. Faccio il tifo per loro. Oggi ti prenderò una margherita, ma stanotte ti prego, almeno in sogno, baciami. Non costringermi a essere troppo invidioso.

Fermata Via Toledo. Uno studente ripassa credo sia matematica. Mi cade l’occhio sul suo quaderno. Si, è a quadretti, è matematica. Quanto l’ho amata, la matematica; mai quanto ho amato te, Caterina. Non temere, non ti ho mai tradito con i numeri, erano solo il mio lavoro. Cerco di leggere il testo dell’esercizio: scomposizione di un polinomio con la regola di Ruffini. Mi sembra disperato, provo ad avvicinarmi, ma ci sono troppe persone. Vorrei urlargli come risolvere quel passaggio, ma mi scambierebbe per pazzo. Allora lo risolvo nella mia mente. Ho un’idea. Riesco comodamente a tagliuzzare un pezzo della carta del pane. Prendo una matita che porto sempre con me nel taschino interno della giacca. Un gioco da ragazzi; avrò anche 78 anni ma Ruffini è ancora alla mia portata. Poi tossisco, il ragazzo alza la testa. Gli faccio l’occhiolino e allungo la mano. Mi guarda stranito, ma prende il foglietto. Lo apre, sorride e vedo l’apparecchio per i denti. Poi si accorge che è giunto alla sua fermata ed esce in fretta. Mi saluta dalla banchina. Speriamo capisca il procedimento.

Fermata Piazza Dante. Una musica arriva da lontano, alzo lo sguardo e li vedo. Tre zingari, il più piccolo suona un organetto, il mezzano un violino scordato, il terzo accenna una canzone. La loro mamma o forse la loro sorella maggiore, legge la mano per cinquanta centesimi. Cerco di ricordare il titolo di questo brano. Sembra un classico della canzone popolare, ma non ci riesco. Lo canticchio nella mia testa. Si avvicinano. Cerco nelle tasche e tiro fuori il contenuto. Un euro in monete da cinquanta centesimi, un bottone della giacca che non ricucirà nessuno e l’abbonamento alla metro. Una moneta nel cappello del cantante e una alla donna, che a tutti i costi vuole leggere il mio palmo. La lascio fare ma le chiedo di tenere per se quanto scritto. Sorride e mi da un bacio sulla guancia. Accetto volentieri. I menestrelli continuano a suonare “Nun te scurdà ca t’aggio date ‘o core”.

Fermata Museo. Un uomo si distende su due sediolini, le scarpe sul tessuto della seduta, vorrei dirgli di mettere giù i piedi, ma con un ceffone potrebbe farmi volar via i denti: è grande, grosso e probabilmente ubriaco. Sbuffo, spero si giri o spero che qualcun altro al posto mio lo redarguisca. Maleducato. Caterina lo sai, non ho mai sopportato i maleducati, ma non rischierò. Cerco con lo sguardo un controllore. Non si vede nemmeno l’ombra. Una signora con il pancione è appena salita e nessuno si alza per lasciarle il posto. Prendo coraggio. “Chiedo scusa, buon uomo, può gentilmente mettere giù i piedi”. Digrigna i denti ma si ricompone. Sorrido. Apostrofa la mia smorfia con un ghigno. Però almeno la donna incinta può accomodarsi. Mentre i due ragazzi che si baciavano, tenendosi per mano, lasciano la metro.

Fermata Materdei. Una mamma, che bella cosa. Le donne incinte diventano più belle. Forse questa signora non ne ha bisogno. E colorata. Guancia rosa, capelli neri con un ciuffetto azzurro, quanto basta per non stonare. Indossa una tuta rossa e una giacca arancio. Il pancione sembra esplodere.
Caterina, ricordi quando aspettavi Mattia? Non potevamo muoverci, la metro non esisteva ancora ed anche uscire a prendere del pane diventava un’impresa per te: quattro piani da discendere e risalire erano troppi. La mamma si accarezza il pancione. Cerco di ricordare le date di nascita dei nostri figli. Italo e Mattia. Mi perdoneranno se ogni anno devo scriverle sull’agendina del patronato. Non ho più la memoria di una volta. Ricordo la regola di Cramer, ma le date devo affidarle alle pagine di agende e calendario. Ogni anno ricopio le stesse, è l’attività di capodanno. Nonostante tutto, anche il primo gennaio, alle cinque meno un quarto sono già sveglio da almeno un quarto d’ora. L’uomo ubriaco mi fissa e si alza scende alla prossima. Me lo annuncia con clamore.

Fermata Salvator Rosa. Un soldato in alta uniforme entra e vedo due ragazzine guardarlo sbalordite. È alto e slanciato. Deve venire dall’accademia. Anche i soldati sono cambiati. Una volta erano smilzi, consunti e stanchi. Lui è bellissimo, sembra una guardia d’onore di un sovrano. I bottoni della giacca sono dorati e riflettono la luce al neon del vagone. Il berretto non riesce a nascondere il ciuffo biondo. Cerco di ricordare la gerarchia militare.
Ai miei tempi il servizio allo Stato era obbligatorio, diciotto mesi, mi toccò Fano. Tutto sommato c’era il mare. Studiavo all’università e già ci frequentavamo. Ricordo il giorno del giuramento. Non la data ovviamente, ma il momento in cui ti vidi tra la folla durante la marcia d’ingresso nel piazzale. Eravamo oltre trecento e c’erano almeno mille familiari ma ti notai subito. Indossavi un cappotto verde. Le due ragazzine domandano qualcosa al militare. Percepisco che la domanda è una richiesta d’informazioni, ai miei tempi solo i maschi facevano la leva.

Fermata Quattro Giornate. Due bimbi, due gemellini, non la smettono di piangere. Il papà cerca di consolarli in ogni modo. Un’anziana signora mormora qualcosa. Cerco nel sacchetto, dove ho del pane che una decina di minuti fa era ancora caldo. Chiedo all’uomo se posso permettermi. Non si accetta nulla dagli sconosciuti, ma sorridendo si avvicina. I bimbi sono più diffidenti, così il padre allunga la mano e prende un pezzo di pane dividendolo in due parti identiche. A questo punto la diffidenza cade e prendono il tozzo entrambi. Tranquilli è morbido penso. Grazie, mi dicono. Ricambio e chiedo i loro nomi: Jonathan e Ismael. Il papà che invece si chiama Kalidou. Mi dice che stanno andando a prendere la mamma che dovrebbe salire proprio alla prossima fermata. Si apre, indicando che in questo momento lavora solo lei e lui deve dimenarsi con i gemellini, anche se non è molto pratico fa di tutto per tenerli a bada. Il soldato scende seguito dalle due ragazzine.

Fermata Vanvitelli. Una donna di colore entra e si guarda in giro. Kalidou alza un braccio. Non avevo notato che è altissimo. Domina tutti dall’alto e quando Irma lo vede, un po’ a fatica riesce a raggiungerlo. Ci presenta. La donna, in carne, indossa la divisa di un ristorante, anzi oggi li chiamano fast food. Il marito le racconta cosa hanno combinato i gemellini e finisce la storia raccontando del pane che ancora stanno mangiando. Cerco di non arrossire. Per fortuna la mia vecchia corteccia consumata dal mare, raramente cambia colore. La donna invece mi abbraccia. Non so se posso ricambiare, Caterina non sei gelosa vero? È un abbraccio fraterno. Materno. Mi inizia a tempestare di domande, lo sai Caterina che non racconto mai di noi? Ma questa donna ha un modo di chiedere che ipnotizza ed incanta, non so perché ma almeno fino alla mia fermata le racconto tutto.

Fermata Montedonzelli. Caterina. Mia moglie. Era figlia di un notaio del Rione Alto. Ogni giorno partivo da piazza Municipio a piedi. Non esisteva la metropolitana all’epoca. Cerco di ricordare quanti passi erano. Sono circa 4 chilometri e mezzo. Faccio un calcolo veloce, ma non ci riesco. Mi ricordo di una definizione strana: il passo d’uomo è circa 74 cm, la metà di ciò che si intendeva nell’antica Roma per ‘passus’: la distanza tra il punto di distacco e quello di appoggio di uno stesso piede durante il cammino, da questa unità di misura ebbe origine il miglio: 1.000 passi, contati in questo modo. Niente non ricordo quanti erano i passi. Tutti i giorni anche solo per un saluto andavo sotto casa sua e lei si affacciava al balcone. Poi conobbi la famiglia, potevo finalmente salire. Nove chilometri al giorno, tranne per il periodo del militare. Anche solo per vederla. Solo per vederti Caterina, così rubavo i tuoi baci, anche le notti d’inverno. Spesso tornavo a casa infreddolito e inzuppato. Non portavo mai un ombrello.

Fermata Rione Alto. Sono arrivato, saluto i miei nuovi amici. I gemellini mi abbracciano all’altezza delle gambe. Sorridiamo tutti. Ti compro delle margherite da un ambulante con un carretto, proprio fuori al cimitero. Cerco di non scomporre troppo i pensieri di questo viaggio. Mi fanno male le gambe, non riesco più a stare tanto tempo in piedi. Mi siedo su di uno sgabellino e ti guardo negli occhi. Ti racconto di nostro figlio che ci renderà nonni ancora una volta. Dovrebbe essere una femminuccia e dovrebbe nascere proprio il 21 dicembre, il giorno dell’inverno. L’ho già segnato nell’agendina, a matita. Se decide di anticipare o posticipare, dovrò ricordarmi di correggere. Mi hanno invitato a pranzo. Devo ricomprare il pane. Mi piace andare al forno, immergermi in quel profumo di farina e lievito. Ho portato anche un regalo per Maria, un cofanetto con tutte le fiabe italiane, le ha raccolte il tuo Calvino. Non ho tanta voglia di andare, ma passerei per maleducato. Italo passa a prendermi qui in auto. Io avrei preferito la metro. Ti prometto che domani ti racconterò di quanta bella gente ho incontrato oggi in treno. Ciao Caterina, ti amo.

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