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Vali quello che spendi

Vali quello che spendi

Via 1º Maggio
40026 Imola
Gialli e Thriller Racconti
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Vali quello che spendi

visita su Google street view  

 

Pago l’ultimo ticket della serata.
Duemilatrecento euro, però! Ha avuto fortuna il pezzente stasera e pensare che ne avrà infilati si e no trenta. Avrà beccato un bonus che non gli capiterà mai più.
«… Duemiladue e duemila e tre! Ecco a lei signore, buona serata e arrivederci a presto»
Neanche mi saluta, prende i soldi con quelle sue mani zozze da camionista, si gira e se ne va.
Odio questa gente.
Posso essere gentile quanto voglio con loro, offrirgli sigarette, alcolici, panini e stuzzichini per tutta la serata ma continuano a ignorarmi. Entrano sempre di corsa, manco avessero un’operazione chirurgica a cuore aperto che li aspetti. Né un buongiorno né un buonasera. Mi scambiano la parola solo per farsi pagare una vincita o se qualche slot machine ha dei problemi. Al massimo mi avvisano che hanno parcheggiato in doppia fila per farsi una partitina veloce. Che gliele portassero via le loro auto del cazzo!
Conto le banconote rimaste nel cassetto e richiudo tutto nella cassaforte.
Ginevra sta pulendo il bancone dalle ultime briciole rimaste e dalle chiazze di birra.
China sul marmo, mette in mostra le sue splendide forme dentro quella divisa striminzita. Il legging pare una seconda pelle, aderisce così bene a quel corpicino da spogliarellista e gli si stringe sulle chiappe facendole sembrare ancora più sode. La camicetta delinea in maniera perfetta i suoi fianchi stretti e sembra esplodere, per quanto attillata, su quel seno fantastico. Due tette non troppo grandi e non troppo piccole. Quelle che stanno comode, raccolte in una sola mano.
«Vuoi smetterla di sbirciare o vuoi una foto!» Mi lancia la pezza umida con cui sta pulendo e mi fa l’occhiolino. Passandomi accanto, l’ondeggiare dei suoi capelli ebano delizia le mie narici col suo intenso aroma di fragola. Quel profumo si sposa alla perfezione con la sua pelle ramata, un dolcissimo dessert alla frutta da assaporare con tutti i sensi.
Cammina verso lo spogliatoio aggraziata in ogni suo passo. Una modella che percorre giorno e notte le strade della città come fossero la passerella di Miss Mondo. Che stia correndo o che stia passeggiando, è capace di mantenere la stessa finezza nei movimenti che la rendono sempre elegante.
Mi gusto la sua sfilata chiudendo a chiave i cassetti dei soldi. Scorro con lo sguardo dalla sua testa alla schiena e scivolo giù, fino a incantarmi sulle pieghe che le si formano tra le cosce mentre si muove. La immagino che mi aspetta, in una stanza buia. Sogno di potermi godere questo dolcetto prelibato. Desidero percepire il sapore delle sue emozioni. Toccarla. Annusarla. Sentirla.
«Hai finito di contare che voglio andare a casa? Spengo le luci e prendo la borsa così usciamo»
Reprimo i pensieri e quelle favolose immagini. «Si ho fatto. Anche oggi abbiamo finito mezzora dopo e nessuno che ci paghi mai lo straordinario, comunque se vuoi andare ci penso io a mettere l’allarme» L’oscurità invade il salone da gioco spezzata solo dalle luci d’emergenza. Ginevra ricompare davanti a me avvolta dall’aurea bianca dei faretti che indicano l’uscita.
Quanto sarebbe bello poterle fare quello che voglio, qui e adesso.
«Grazie, mio biondo principe! Allora ne approfitto che sono stanchissima e Gianni sarà già in pensiero»
«Ci vediamo domani e non fartela strapazzare troppo dal povero Gianni eh. Tienine un po’ per me!»
Mi fa la linguaccia e sorridendo si volta dandomi le spalle. «Tranquillo che lui basta e avanza cretino! Va là, va là, ci vediamo domani, dormi bene»
I miei occhi la seguono mentre si avvia verso l’uscio. Nella penombra la sua silhouette richiama in me istinti animaleschi che freno a fatica. «Dormi bene anche tu» Si chiude la porta e resto solo.
Rimango per qualche minuto con me stesso e il buio della sala.
Mi dirigo fuori, respiro il profumo della mia sexy collega rimasto nell’aria. Apro la bocca cercando di ingoiare e inalare tutta la sua fragranza, di non lasciarne sprecata nemmeno una nota. Un piacere effimero che si dilegua in un paio di inspirate.
Inserisco l’allarme e guardo l’orologio digitale della farmacia di fronte che segna le tre e quarantadue. Le tenebre avvolgono la città. Un filo di vento mi solletica le braccia scoperte e mi da sollievo dopo un’intensa serata al locale. È piacevole infondo lavorare con questi orari. Quando finisco il turno, esco fuori e un cielo stellato mi accoglie. Il silenzio intorno fa rimbombare i miei passi, amplifica quel senso di solitudine che si percepisce girovagando per un paese deserto. Passeggio verso casa, sereno. Immerso nell’asfalto che mi circonda e nelle più contorte macchinazioni della mia mente.
*
Lo squillare della sveglia mi riporta nel mondo dei vivi. Spengo quell’aggeggio infernale che indica le dodici in punto e sbadiglio per riprendere ossigeno. Malvolentieri mi alzo dal letto, avrei dormito ancora un po’ ma la vescica mi sta scoppiando e come ogni notte ormai, mi sono venuto nelle mutande.
Seduto sul gabinetto, guardo video su YouTube senza neanche aprirli, la mia mente è ancora troppo assonnata per concentrarsi su qualcosa per più di sette secondi. Sullo smartphone, scorro le solite clip di macellai all’opera in svariate parti del mondo mentre sfilettano ogni tipo di animale, dai salmoni giganti alle capre. Colpi netti, precisi, dati con un’abilità tale da poterla definire arte. Affettano quelle carni con la facilità con cui io taglio un pomodoro, tranciano le ossa con tanta rapidità che paiono samurai contro fogli di carta.
Con queste figure che penetrano nel mio inconscio, riprendo poco a poco lucidità. Mi faccio una doccia fredda per rinsavire del tutto e mi preparo per uscire. Non faccio colazione, ho lo stomaco chiuso e sono di fretta. Corro all’autostazione, sperando di non fare tardi.
 
Sudato fradicio con la camicia ormai a chiazze stampata sulla schiena, scendo dall’autobus affollato. La mia destinazione si trova proprio di fronte alla fermata, è la Banca Nazionale.
Chiude alle due meno dieci, ho fatto appena in tempo. Attraverso la bussola di vetro che fa da entrata. Il getto dell’aria condizionata scompiglia il mio ciuffo ribelle e mi regala una ventata gelida. Prendo il numerino e attendo che mi chiamino, seduto in un atrio sterile. Arrivare all’ultimo fa si che ci sia meno fila davanti.
«117»
Tocca a me.
Mi accomodo alla scrivania di una cassiera grassoccia, a occhio e croce avrà quarant’anni ma non lo darei per scontato, la ciccia inganna!
Rintanata dietro quei due fondi di bottiglia, legge fogli con centinaia di cifre e calcoli per me incomprensibili. Si passa, in maniera compulsiva, una penna sul cuoio capelluto, grattandolo fino a perdere forfora fine che le si posa sulle spalle ampie. Togliendo la biro da quei capelli dai colori indefiniti mi volge lo sguardo interrogatorio. «Come posso esserle utile?»
Pochi conoscono questa pratica in uso da noi comuni mortali chiamata, salutare.
«Buongiorno! Dovrei richiedere un prestito»
Sbuffa da quel suo naso a patata nascosto sotto gli occhiali mentre fissa l’orologio. Se le metti l’anello sembra un cinghiale, anche piuttosto agitato. Le mancano solo le zanne.
«Se ha tutti i documenti con lei dovremmo farcela. Quanto intende richiedere?»
Con lo stipendio che mi ritrovo, già è una follia fare questa richiesta. Ho calcolato tutto: le spese, le bollette, l’affitto, il mangiare e gli imprevisti. Ormai ho deciso, andrò fino in fondo. Quando potrebbe ricapitarmi un’occasione del genere?
«Diecimila euro. Ecco la carta d’identità e il contratto di lavoro» Porgo tutta la documentazione necessaria ad avviare la pratica. La donna obesa passa il suo sguardo sui miei dati, su di me, sui miei dati e ancora su di me. «Lei non guadagna molto, è sicuro di potersi permettere questa cifra? Ha calcolato i rischi di non rientrare con le rate? È certo che… » La interrompo. «Ho controllato tutto e fatto tutti i calcoli che dovevo fare. Con un prestito così riuscirò comunque a pagare tutte le spese per mantenermi»
Controlla l’ora più che ascoltarmi. Le due meno un quarto. È palese che voglia sbrigarsi per correre dal suo panino imbottito.
«Va bene, non m’interessa. D’altronde è lei che rischia non io» Inizia a digitare sulla tastiera e grugnisce versi sommessi.
«Entro un’ora, il credito sarà versato sul suo conto, le chiedo solo due firme e la lascio andare»
 
Ventisette firme dopo, sono a casa.
Mi rilasso un po’ sul divano e controllo l’applicazione della banca sul cellulare. Credito residuo diecimila novecento euro. Più osservo quei numeri sullo schermo, più il mio cuore prende ad accelerare.
Non è un battito frenetico come di chi sta per avere un attacco di panico, ma quello che risiede in noi quando sappiamo che un desiderio sta per esaudirsi. Quell’agitazione prima di una partita importante, quel formicolio in tutto il corpo quando ti scateni al concerto del tuo artista preferito. Quella vibrazione interna che porta a galla la consapevolezza che quello che vuoi sta per avverarsi.
Allo stesso tempo però, sono battiti portati dall’ansia e dalla preoccupazione. Paura che qualcosa possa andare storto o che non funzioni come previsto.
Mi calmo e metto via il telefono. Devo riposare e mangiare qualcosa per distrarmi. Ne approfitto per guardare un po’ di TV, sui canali nazionali non fanno niente di interessante così metto in loop una serie di cartoni animati. Gli animaletti sul monitor si sbudellano e si rompono la testa nelle maniere più assurde, dal cadere da un aereo, al passare dentro un tritarifiuti in cucina o finendo sotto una schiacciasassi. Le pelli dai colori vivaci delle bestiole si tingono di rosso acceso più di quanto previsto da una serie per bambini e me la rido di gusto vedendo conigli, alci e orsacchiotti mutilarsi a vicenda. Penso che non sarebbe male vivere in un mondo del genere. Essere come quelle bestiole. Tutto questo sangue, mi ha fatto venire fame.
*
La luce soffusa della sala slot ricorda gli alberghi a ore, dove il lussurioso rosso comanda sugli altri toni. Dopo anni in quest’ambiente mi sono abituato al buio e restare ore in un luogo chiuso senza finestre non m’infastidisce. La cosa che più mi disturbava all’inizio, erano i suoni e le musichette isteriche dei giochi. Squillanti e da infarto per quanto improvvisi, partono ad ogni bonus o vincita cospicua, accompagnati dalle urla o dalle bestemmie concitate dei giocatori.
Ora non ci faccio più caso, sono solo rumore di sottofondo come il traffico cittadino quando sei in centro.
Solo le voci più importanti, quelle che impari a riconoscere come proficue facendo il mio mestiere, destano la mia attenzione.
Risate trattenute da nobili signore di mezz’età che non bevono altro che acqua tonica, con ghiaccio e limone, spremuto e a fette. Tutte agghindate a festa dal lunedì alla domenica, addobbate come tralicci elettrici a natale. Sfoggiano borse che costano quanto il mio appartamento e arrivano con auto che non potrei comprare nemmeno in due vite.
Ci sono poi le grida eccitate, spesso seguite da pugni alle slot, degli imprenditori locali e uomini d’affari. A differenza delle milfone, questi non hanno la galanteria che ti aspetti da chi fa girare milioni nella nostra economia. Sembrano piuttosto rozzi contadini per come si comportano, quasi tutti bassi e tarchiati. Camice aperte sul petto villoso e catena col Cristo d’oro al petto. La metà di questi con il fiato della morte sul collo per quanto sono vecchi.
Sono queste le note musicali che risuonano melodiose nelle mie orecchie.
Queste persone, per quanto spesso sgradevoli e irrispettose, sanno essere molto magnanime se prese per il verso giusto. Quando discuto con loro mi limito ad assecondarle: se sono di destra, sarò di destra, se sono di sinistra, sarò di sinistra, se sono terrapiattiste, griderò anche io al complotto e se sono cristiane, loderò con loro il Signore.
Alla gente infondo non importa nulla della mia opinione e a me non frega niente della loro. Li ascolto solo per assicurarmi una bella mancia, o un contatto utile.
Quelli con la grana, che spendono parecchio, hanno spesso rapporti ottimi con politici, assicuratori, avvocati. Hanno conoscenze in qualsiasi campo e possono farmi ottenere sconti come se nulla fosse. Loro si approfittano di me e della mia gentilezza, io del loro portafogli.
Non vale la pena darmi da fare per un gruppo di operai che al massimo mi lascia dieci euro, se va bene.
Molto meglio farmi in quattro per individui come quelli, che possano offrirmi qualcosa di più che due miseri spiccioli.
I ricchi amano perdersi in lunghi monologhi sulla loro esistenza sociale. Raccontano le più strampalate storie, difficili da scindere dalla realtà. Parlano di come hanno conquistato vette gerarchiche sempre più elevate con l’enfasi di chi ha scalato il K2. Dettano per filo e per segno, come se dovessi prendere appunti sulla loro vita, come trascorrono le giornate, da quando si alzano a quando si coricano. Mi descrivono i loro hobby e mi svelano segreti, a detta loro innocenti, che sconvolgerebbero invece la popolazione intera se ne venisse a conoscenza. Desiderano avere qualcuno con cui sfogare i loro malumori e le loro gioie. Si sentono al sicuro dentro questa gabbia di cemento e denaro, così tranquilli da lasciarsi andare.
Io sono qui per loro. Mi sono fatto conoscere, poco a poco, da questi facoltosi spendaccioni. Li coccolo tutte le sere e li vizio nei limiti che mi competono. Offro da bere loro prima che me lo chiedano e sono sempre pronto al loro servizio. Commento le loro strategiche giocate e non li faccio mai alzare dalla macchinetta per riscuotere una vincita, non sia mai che le gambe gli cedano per tutti i soldi che si portano in tasca.
Con questo atteggiamento da cane ammaestrato, sono riuscito a entrare nelle grazie di molti ma soprattutto di lei, la contessa Elisabetta De Magistri. La più perversa, spietata e ricca donna del paese.
 
«Buonasera contessa De Magistri. Anche oggi ci lieta della sua presenza» Andandole in contro dal bancone del bar, la saluto con un leggero inchino. Raccolgo la mano che mi porge e l’avvicino alle labbra. Sfioro appena la pelle, come da galateo, mantenendo le distanze e il dovuto rispetto. «Le porto subito il suo drink, lei si accomodi pure» Dalla borsetta, estrae una pochette dorata. «Già che è così gentile mio caro Enrico, mi cambi questi in tagli da cinquanta» Mi consegna quattro banconote da cinquecento e si dirige verso il video-poker.
Solo in turno, mi ritrovo per fortuna con pochi clienti al momento. Gli unici ospiti sono la rossa contessa e un gruppo di meccanici mezzi ubriachi. Preparo la solita scwheppes tonica ghiacciata per la madama e altre quattro birre per i poveracci. Tra non molto attaccherà a lavorare anche Ginevra, devo approfittare della situazione di calma che c’è adesso. Preparo le ordinazioni e torno dai giocatori.
Col vassoio nella mano sinistra e il conto nella mano destra, mi avvicino agli operai e gli porgo le bevande.
«Come mai dobbiamo pagarle? Non si beve gratis qui? Le prime due ce le hai offerte!»
Puzzano di alcol e di olio per motori. Non ho tempo da perdere con loro per spiegargli che se spendi bevi, se non spendi non bevi. Non siamo qui a fare la carità ai barboni.
«Guarda, fosse per me ti farei bere anche tutto il fusto ma l’azienda non vuole. Non si possono omaggiare troppi alcolici, due ve li ho già offerti, il terzo tocca pagarlo. In più sta giocando solo uno di voi, non posso farvi bere tutti gratis»
Storcendo il naso, il più vicino del gruppo prende controvoglia lo scontrino.
«Trentasei euro per quattro birre, ma tu sei fuori di testa! Andiamocene ragazzi che questo posto fa schifo!»
Mi faccio in disparte e resto zitto mentre i quattro si avviano fuori dal locale sbraitandomi contro. Uno di loro sputa per terra e un altro tira una cicca accesa sulla moquette. Piccole cose in confronto a doverli servire tutta la sera. Menomale che se ne sono andati. Posso concentrarmi meglio sul mio lavoro e sul piano che mi attende.
«Eccomi qui tutto per lei contessa ed ecco il suo cocktail!» Servendo la bevuta, le ridò le banconote scambiate come richiesto in tagli più piccoli. Raccoglie il denaro come fosse carta straccia e lo posa sulla slot come se non avesse valore. Intenta a schiacciare in maniera molesta il tasto start della macchina, i suoi occhi grigi seguono le linee di gioco come un gatto segue un laser sulla parete. Non ha troppe rughe, sintomo di una cura costosa del corpo, il che rende difficile giudicare la sua età dall’aspetto. I capelli ricci, lunghi fino a metà schiena, sono folti e di una tinta rubino acceso, non sono del tutto sicuro che siano i suoi.
Solo perché ho visto i suoi documenti so che ha settantadue anni, nessuno lo direbbe. Profuma ancora di pesca come una ragazzina e il suo sorriso e la sua energia mascherano la vecchiaia che incombe su di lei.
Niente sembra distrarla da quello schermo luminoso, eppure…
«Allora Enrico, ha pensato alla proposta che le ho fatto? Mi sembrava abbastanza convinto l’altra sera»
Un po’ intimidito mi avvicino di più alla sua schiena e mi chino per parlarle all’orecchio, sempre con la dovuta distanza e riverenza. «A dire il vero si, ci ho pensato parecchio e… voglio provare. Ho racimolato diecimila euro, spero che siano sufficienti» Senza distogliere lo sguardo dal gioco, infila la mano ingioiellata nella borsa ed estrae un bigliettino. «Andranno bene. Si presenti a quest’indirizzo domani alle ventitré precise. Da solo. Al resto ci penso io» Raccolgo il rettangolino di cartone e leggo:
“ Villa Firmavita, via del Cimitero 17 S ”.
«La ringrazio moltissimo contessa. Sarò puntuale glielo assicuro. Grazie davvero per l’aiuto ma… siamo sicuri, vero? Nessuno mi scoprirà, giusto? Potrò stare sereno?»
Stacca gli occhi per la prima volta dalla slot e mi fissa con fare materno.
«Non si preoccupi Enrico, come le ho detto, penso io a tutto. Non è il primo e non sarà l’ultimo. Se solo sapesse da quanto tempo offriamo questo servizio alla villa»
La slot-machine impazzisce con una fanfare di trombe e sullo schermo compare la scritta vincita, seguita dalla cifra quindicimila euro. Si volta per il suono improvviso e continua a schiacciare il tasto start senza incassare.
I soldi vanno dove ci sono i soldi, diceva sempre mio padre.
 
Dalla porta principale, fa il suo ingresso la bella Ginevra.
«Guarda la miss che arriva in ritardo come se nulla fosse» Mi dirigo al bar per non importunare di più l’anziana benestante e le vado incontro.
«Cos’è, Gianni ti ha tenuta legata al letto fino ad adesso? Lo sa che devi lavorare? Deve smetterla di sciuparti così!» Col viso solcato dal cuscino sfila verso lo spogliatoio per cambiarsi. Inspiro quando mi passa vicino. Vaniglia! «Smettila scemo… ho sbrigato mille faccende e non sono riuscita a riposarmi un attimo…» Sbadiglia prima di chiudersi nello stanzino. «Anzi, non è che mi faresti un caffè? Doppio va!»
Quando si ripresenta al banco, una tazza da cappuccino colma fino all’orlo di caffè nero l’attende. Mentre ingurgita l’amaro elisir, ne approfitto per ripulire le macchine sporche di cenere e impronte luride. Cosa avranno mai i clienti su quelle dita da rendere appiccicosi tutti i tasti nessuno lo sa. Sembra quasi che se le lecchino prima di premere, come se dovessero sfogliare le pagine di un giornale.
La contessa decide che il budget previsto per questa sera è terminato, o almeno sono terminati i soldi nella borsetta e lei non preleva mai, solo contanti. Si alza senza mostrare la debolezza che concerne una donna anziana e si avvia all’uscita. A passo svelto mi presento sull’uscio.
«Arrivederci contessa De Magistri, le auguro una buonanotte e un buon rientro a casa. La ringrazio per esser venuta» Un altro baciamano e la ricca signora scompare dietro la porta.
Rimaniamo soli io e Ginevra. La maggior parte degli ospiti rincasa intorno a mezzanotte ed ora che siamo ad agosto nemmeno si fa viva. Sono tutti in vacanza così, tra una pulizia e l’altra, ci godiamo un po’ di meritato riposo.
«Hai programmi per domani?»
Scrive sul telefonino mentre mi parla distratta, più per riempire il tempo che per fare conversazione.
«Beh qualcosa da fare ce l’ho. Tu piuttosto, a che ora ce l’hai l’aereo per Formentera domani?»
«Se tutto va bene, alle quattro del pomeriggio sarò in spiaggia, con un bel coca havana ghiacciato e musica a palla!»
Continua a scrivere su quel dannato telefono e balla con le spalle credendosi già al mare. Povera illusa.
Bella si, ma stupida come tutte le altre. Tutta assorta dai suoi social network, non percepisce il mio sguardo affamato che la squadra da cima a fondo.
«Beata te. Il mio programma non è così interessante» Fa spallucce.
Che si goda quella finestra sul mondo finché può.
*
Suona la sveglia, mezzogiorno. Non ho chiuso occhio.
Tra undici ore sarò all’apice dei miei sogni più proibiti, avrò accesso al paradiso terrestre che alberga nella mia mente. Il mio harem. Il mio valhalla.
Non pensavo esistessero in città realtà come queste. La duchessa De Magistri mi ha illuminato. Dopo varie chiacchierate con lei mi ha messo a conoscenza del mercato nero, che va oltre a quello di armi e droghe. Sono entrato nelle sue grazie col mio fare da lecchino e lei mi ha reso partecipe. Mi ha chiesto un nome e non ci ho pensato un attimo, Ginevra!
Con il denaro si può comprare tutto, anche le persone e non solo in senso metaforico. Tratte di schiavi esistono ancora in tutto il pianeta, solo che sono nascoste. Ogni giorno, donne di tutte le etnie, vengono vendute per sesso. Rinchiuse in appartamenti fatiscenti, rischiano la morte per soddisfare il piacere di bande di terroristi, politici o chissà chi. Uccise, torturate o stuprate, rinchiuse in celle grandi quanto i letti su cui vengono martoriate.
Ma io non voglio una qualunque, desidero lei.
Da quando abbiamo iniziato a lavorare insieme, non faccio altro che sognarla. Mi sveglio di notte, con i boxer bagnati. Nessun porno su internet riesce a farmi godere come quando la penso. La voglia che ho di penetrarla è inimmaginabile. Le strapperei quei vestiti di dosso e la scaraventerei sul pavimento per possederla come una bestia. La immagino, pancia a terra, con la faccia schiacciata al suolo, mentre la cavalco con cattiveria. Con le mani stringo quei seni per farli scoppiare come gavettoni ricolmi di sangue. La prendo a schiaffi e le strappo lembi di pelle dalla schiena a morsi. Il suo corpo livido mi eccita. Il sesso non basta. Dopo una violenta scopata, le spezzo le gambe per non permetterle di scappare e inizio a percuoterla con tutta la ferocia che ho in corpo, attento a non finire il divertimento troppo in fretta.
Questi pensieri occupano la mia testa per circa un’ora. Altre dieci da aspettare sono tante, troppe. Devo fare qualcosa per passare il tempo ma qualsiasi cosa io pensi, la mente ritorna sul corpo macellato di Ginevra. Mi sforzo per alzarmi dal letto e mi infilo sotto la doccia, l’acqua fresca mi distrae e mi rinvigorisce. Ancora in accappatoio, recupero dalla tasca dei pantaloni il biglietto da visita lasciatomi dalla riccona. Sul davanti c’è la stampa di una villa vittoriana con ai lati simboli delle valute più frequenti nel mondo. Noto l’euro, il dollaro, la sterlina e il franco svizzero, gli altri non li conosco.
Sul retro c’è l’indirizzo. Controllo su internet quanto dista e vedo che posso arrivarci a piedi in venti minuti. Meglio mangiare qualcosa, stanotte devo essere in forze. Mi vesto e preparo due toast. Metto in TV la mia serie di cartoni preferita e mi lascio ispirare da quei folli animaletti.
*
Attraverso il paese in una decina di minuti e mi ritrovo nella stradina che fiancheggia il cimitero. Lascio le luci urbane alle mie spalle e m’incammino nell’oscurità. La strada in salita porta su una collinetta dove si trova la villa, di cui intravedo il barlume. Sulla mia sinistra, il giardino dei morti è recintato da un muraglione in cemento, impossibile da scavalcare. Sembra più un carcere che un luogo di sepoltura, non capisco perché ci tengano tanto a intrappolare i cadaveri.
Mi faccio accompagnare dalle lucciole fino in cima, sono così tante che il buio si tinge di un bagliore verdastro, contrastando il chiarore bianco della luna. I lampioni sono spariti e gli insetti brillanti mi fanno da guida in questo caldo cammino.
Arrivo all’ingresso del giardino, anch’esso delimitato da un muro invalicabile come quello di prima. Un enorme cancellata di ferro sfoggia al centro una pila di lingotti d’oro come stemma.
Mi avvicino alle inferriate, una voce maschile si fa strada nella notte. Sembra provenire da un citofono ma non ne vedo nessuno.
«Presentati» Senza sapere dove parlare sbircio al di la delle sbarre, il nulla totale, il nero assoluto.
«Sono… sono Enrico D’amato. Mi ha dato appuntamento la contessa De Magistri»
Con un meccanismo silenzioso, il cancello si apre invitandomi ad entrare.
Dentro, un marciapiede di sassi mi porta davanti alla magione, circondato da una vegetazione così fitta che domina sulla pietra lavorata dall’uomo. L’intenso odore di muschio mi riempie i polmoni.
Da quello che riesco a notare, il podere è costruito su due piani, tutte le finestre di questa facciata sono illuminate. A sbarrare la porta principale c’è un energumeno che mi attende a braccia conserte. Un gorilla vestito da pinguino, la guardia del corpo suppongo.
«Lei è il signor Enrico D’amato?» Il tono di voce del colosso è basso e cupo.
«Si sono io, mi sono presentato anche prima. Ho un appuntamento…»
«Lo so benissimo perché è qui! Volevo solo essere certo che non fosse entrato nessun altro. Ora firmi questo» Mi porge una cartellina con sopra una lista di nomi, come per entrare in un club privé. Trovo il mio e siglo accanto, più che una firma sembra uno scarabocchio. La mano trema, sospiro per mantenerla ferma mentre scrivo. Della sfilza di persone che si trovano sul foglio non mi sembra di conoscerne nessuna. Riconsegno carta e penna con un gesto incerto, intimorito dal maciste che mi si para davanti.
Sudo. Mi sto avvicinando alla meta.
La paura, l’agitazione ma anche l’eccitamento si fanno strada dentro di me.
«Bene, ora venga» Nel salone d’ingresso, un antico orologio a pendolo suona la sua campanella, undici rintocchi.
 
«È stato di parola. Si accomodi pure, gradisce da bere?»
In uno splendido vestito nero lungo fino alle caviglie, mi accoglie la nobile signora Elisabetta.
«Gastone, sia gentile, ci porti due drink»
Mi siedo su un divanetto in pelle bianca, all’interno di una sala a dir poco pacchiana. Le sedute sono tutte ricamate da riccioli d’oro e le ante dei mobili sono decorate d’argento. L’avorio della parete riflette i raggi arcobaleno del lampadario di cristallo appeso al soffitto e un maestoso camino spento, intarsiato nel marmo, capeggia al centro della stanza.
Sorseggio il cocktail portato dal bestione, acqua tonica con ghiaccio e limone, è un vizio allora!
«Intanto signora De Magistri volevo ringraziarla ancora per l’opportunità che mi concede»
«Ma si figuri. Come le ho detto, è da sempre che la mia famiglia si occupa di questo e mi chiami pure Elisabetta, signora Elisabetta. Non servono certe formalità ormai»
«Certo, signora Elisabetta. Comunque, qui nella busta ci sono i soldi che le ho detto. Diecimila euro. Sono molti per me, spero che ne valga la pena, lei mi capisce vero? Siamo sicuri che tutto questo si possa fare?»
Si alza. Sotto la luce forte del lampadario sembra più attraente di quando la incontro a lavoro. È molto avanti con l’età ma nelle sue movenze sicure mantiene un fascino d’altri tempi. I fianchi non troppo larghi e il seno prosperoso si fondono alla perfezione con quel corpo un po’ in carne. Le sue curve mi ipnotizzano. Si china su di me mostrando la scollatura e mettendomi le braccia intorno al collo. Piegata, mi fissa negli occhi.
«Vedo che è insistente! Facciamo così, le spiego come funziona in modo che si tranquillizzi» Si siede accanto sempre tenendosi abbracciata, il suo sguardo non si allontana da me, mantenendo comunque col viso un certo distacco.
«Quando scoccherà la mezzanotte, verrà condotto nell’atrio principale dove troverà una porta. Varcata quella, troverà la sua bella che l’aspetta legata a un palo, più una serie di arnesi diciamo… divertenti. Avrà ventiquattro ore di tempo per sfogare le sue fantasie e poi verranno a riprenderla. Al resto ci pensiamo noi, lo facciamo da generazioni. La mia famiglia gestisce il cimitero quindi non è difficile disfarsi dei corpi. Ora le è chiaro?»
Prende la busta del denaro dalla mia mano, si alza e ritorna al suo posto, seduta sul divano di fronte al mio.
«Ok, ok ho capito. Sono solo un po’ nervoso. Beh, la ringrazio ancora allora. Grazie per tutto»
«Non c’è di che si figuri, anzi, grazie a lei. Ora se non le dispiace la lascio solo, andrei a dormire. Sa com’è, alla mia età non è il caso che io rimanga alzata fino a tardi. La guardia verrà a chiamarla a tempo debito. Le auguro una buona permanenza» Finisce il drink che stava bevendo e se ne va, lasciandomi in compagnia dei suoi morbidi cuscini. Mando giù anche io quel che resta della mia bevanda e attendo la mia costosa ricompensa.
Mezzo sdraiato su quel fresco tessuto, scivolo sempre più su un fianco. Il volto di Ginevra mi compare davanti, poi lei tutta intera, nuda. Sono immagini nella mia testa che vengono a deliziarmi in quell’attesa estenuante. Le mie mani avvinghiate al suo collo, mi permettono di fissarla mentre soffoca, con gli occhi che le escono dalle orbite. Occhi che si chiuderanno nel giro di una giornata. Come si stanno chiudendo i miei in questo preciso istante. Cerco di combattere col cervello per restare sveglio ma non ci riesco. Questo delicato giaciglio e questi pensieri mi fanno scivolare in un abisso, da cui non posso riemergere. Crollo in un sonno profondo.
 
Una secchiata d’acqua gelida mi sveglia di soprassalto. Cerco di muovermi per sollevarmi dal divano ma mi rendo conto che non sono più sdraiato. Forti crampi alle spalle indicano che sono legato con le braccia aperte. Anche le gambe sono divaricate e mi rendo conto di essere nudo. L’uomo Vitruviano. Riesco a fatica ad aprire gli occhi, come se le palpebre fossero incollate. Nessun camino o lampadario di valore. Vedo solo pietra grigia davanti a me e una lanterna ottocentesca accesa. La puzza dell’olio che brucia, illuminando la stanza, mi da il voltastomaco. Sono stato drogato, la testa mi sta scoppiando. Sento forti fitte alle tempie e mi viene da vomitare. Rigurgito sul pavimento imbrattandomi tutto e soffro per il bruciore alla gola e allo stomaco.
La guardia della signora prende un secondo secchio da terra e me lo riversa addosso con violenza.
Oltre all’acqua, piccoli cubetti di ghiaccio non ancora sciolti mi si schiantano addosso. Sono quelli che mi rianimano del tutto. Esce da una porta che non vedo ma che sento rinchiudersi alle mie spalle.
«Ottimo, si è svegliato signor Enrico»
Da dietro, fa la sua entrata in scena la contessa Elisabetta.
In piedi di fronte a me, indossa una tuta in latex bordeaux che la comprime, mettendo in evidenza i rotoli che erano nascosti dal tessuto morbido dell’abito con cui mi ha accolto.
«Dove mi trovo?» Nella mia testa, un martello pneumatico colpisce duro ad ogni parola che emetto, cerco di parlare poco.
«Come, dove si trova? È venuto lei stesso qui, alla Villa Firmavita, ha pure pagato per entrare»
«I patti non erano questi» Digrigno i denti.
«Patti, patti, promesse, giuramenti… servono solo ad adescare i topi come lei, sorci della comunità. Pensava davvero che quei soldi le bastassero per comprare una vita? Non sia ridicolo, al massimo si compra un collier con quelle briciole. Noi qui alla villa, offriamo un servizio molto più utile alla società. Ci occupiamo di liberarci delle mele marce che la infettano da dentro. Come si dice, una mela ammuffita fa marcire tutte le altre»
Smette di fissarmi, si dirige verso un tavolino che noto solo ora sulla mia destra. Impallidisco per quello che c’è sopra. Ogni sorta di strumento da macellaio è adagiato su una tovaglia di velluto rossa. Gli strumenti sembrano vecchi di secoli e mostrano ruggine sui corpi di metallo.
«La prego, io non volevo. Non ho mai fatto del male a nessuno, è stata lei a convincermi!»
Viene verso di me con in mano dei chiodi lunghi quanto il palmo e un martello nell’altra.
«Shh… nessuno lo vuole, nessuno lo desidera, poi gliene dai l’opportunità e tac. Di colpo tutti, anche i più squattrinati, pensano di poter sfogare la rabbia repressa e l’insoddisfazione di una misera esistenza sugli altri»
«Ma anche lei fa questo. Mi ha legato e vuole torturarmi, che differenza c’è?»
«La differenza mio caro, è che lei non vale niente! Qui si ripulisce la città dalla spazzatura!»
Chiarito il suo punto di vista, la dominatrice settantenne che mi ha rinchiuso qui mette in bocca i chiodi per non gettarli a terra. Ne prende uno e lo avvicina alla mia clavicola come se dovesse appendermi un quadro addosso.
«La scongiuro, non lo faccia!»
«Ormai è tardi figliolo, avrai quello che ti meriti, non serve dannarsi tanto con le parole, meglio trattenere il fiato per le grida!»
Con un colpo secco, pianta il chiodo nella mia spalla penetrando carne e muscoli. Sento un bruciore intenso nella ferita aperta dal ferro appuntito. La botta del martello amplifica quel dolore e aiuta a spezzare le ossa.
Piango come non facevo da quando era morta mia madre.
La dominatrice continua il suo operato. Pianta altri spuntoni nelle mie spalle, sei in tutto, tre a sinistra e tre a destra. Per ogni arnese che viene spinto dentro di me, emano un urlo disperato. Non per il dolore alla pelle, che viene lacerata e stracciata ma più per il frantumarsi del mio scheletro ad ogni martellata. Ho la nausea, il ferroso odore del sangue si mischia a quello del cherosene della lampada. Quella che sembrava un’arzilla vecchietta di nobili origini, si è trasformata di colpo in una carnefice, paladina della comunità. La loro comunità, quella dei ricchi.
Tra il braccio e il pettorale, non sento più la muscolatura, solo lividi viola e rossi che ardono senza spegnersi.
Sembra come se i miei due arti siano stati staccati, ma ne percepisco ancora la presenza.
Raccoglie dal tavolino una mannaia dalla lama sbeccata. Quante volte ho osservato video di persone affettare animali con quella. Quelle immagini si ripresentano adesso, aumentando la sensazione di spavento e la preoccupazione per quello che mi aspetta.
Si abbassa all’altezza delle ginocchia, il suo volto davanti al mio pene. Lo prende con la mano inguantata. La fredda pelle della tuta stringe il mio membro e lo tira quasi strappandolo. Accosta l’arma sull’attaccatura, nella zona addominale, incide con movimenti lenti un solco che si colora di rosso.
Sudo e tento di muovermi, ma le catene mi tengono troppo teso e non riesco a scostarmi di un centimetro. Ho una paura fottuta. I testicoli mi esplodono per la tensione con cui mi tira, incurante di come me lo stia stritolando. Con troppa lentezza, inizia a muovere la lama avanti e indietro, recidendomi il cazzo come fosse un prosciutto d’affettare.
Mi contorco e crampi improvvisi si fanno strada tra le mie gambe per i movimenti trattenuti. Ogni segata di mannaia è un dolore tremendo. Ho spasmi in tutto il corpo e la pressione sta calando in maniera vertiginosa. Sento di essere più vicino agli abitanti del cimitero che a quelli del paese. La tortura continua e non smetto di soffrire. Con l’ultimo taglio, strappa l’organo dal mio ventre, mi sembra quasi d’essermi liberato di un peso. La mia pelle viva, aperta nella ferita, mi fa sentire ancora più nudo. Sto per svenire ma il mio essere sembra non volersi ritirare, non capisce quando è il tempo di arrendersi. I minuti scorrono confondendosi con le ore, non so da quanto sono rinchiuso. Con le dita mi apre gli occhi, le sue pupille cercano dentro le mie.
«Complimenti, lei è un osso duro! Ora però mi sono divertita abbastanza e voglio davvero andare a dormire. Le auguro un’eterna notte signor Enrico e grazie per averci aiutato a rendere il mondo un posto migliore!»
Non riesco quasi a percepirla mentre si muove e la mia mente viaggia indietro, al motivo per cui sono qui.
Sono arrivato alla fine.
Il viso dolce di Ginevra mi ricompare davanti, sorride. Un sorriso malizioso che si trasforma in fretta in una risata folle. Intorno a lei gli animaletti dei miei cartoni mi vengono incontro armati fino ai denti. Sullo sfondo piovono banconote di ogni nazione, macchiate di rosso scarlatto, colpevoli del delirio che dilaga sulla Terra.
Ho preteso più di quello che avrei dovuto pretendere, ho cercato di essere come loro, ricchi e potenti animali che divorano tutto ciò che hanno a tiro e ne diventano padroni.
Una mosca mi si posa sul naso.
I soldi vanno dove ci sono i soldi e le mosche dove ci sono le mosche, ripeteva sempre mio padre. Aveva ragione! O sei soldo, o sei mosca. Vali quello che spendi.
Tre rintocchi del pendolo attraversano la stanza. Una lama fredda si posa sulla mia gola e mi spedisce a dormire in eterno, nel mondo dei dannati.

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