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Porto Revolving Doors

Porto Revolving Doors

16128 Genova
Diari e Memorie Racconti
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Porto Revolving Doors

visita su Google street view     Genova Porto Antico /button>

È un lunedì sera che si trascina un po’ fiaccamente nel
centro storico di Genova e dopo aver consumato una pizza
accompagnata da una buona birra, finalmente esco dal locale
e inizio a muovermi tra i caruggi, gli stretti vicoli della
città vecchia. Ma evidentemente mi devo essere dilungato
un po’ troppo al mio tavolino con internet al cellulare
perché mi accorgo che è quasi mezzanotte, molti locali
stanno chiudendo e in giro c’è ormai poca gente. Mi dirigo
allora sotto i portici verso il Porto Antico, dove sulle
panchine circolari sotto alle alte palme ci si può rilassare al
fresco serale di queste calde giornate estive. Di giorno,
come di sera, il posto pulsa di vita, un vero alternativo
centro cittadino, con quell’ampia passeggiata ad arco,
costeggiata da una miriade di barche e con sullo sfondo le
navi grandi e la Lanterna. Di notte rimane tutto illuminato e
c’è sempre comunque un mini via vai di persone. Controllato
da forze dell’ordine e da steward del servizio privato,
come è giusto che sia. E proprio uno di questi steward siede
piuttosto vicino a me e attira la mia attenzione, sia per la
pettorina fluo, sia per un dialogo che stava intrattenendo
che a me sembrava surreale. Sta parlando con un altro
ragazzo che si trova lì con dei disegni fatti su dei fogli il
quale diceva di fare anche tatuaggi. Il tatuatore mostrava
le sue braccia, facendo vedere come sulla sua pelle i
tatuaggi siano venuti male, ma a lui non interessava tanto
perché a farglieli erano stati gli amici suoi…ma sottolineava
che se fosse lui a farli, li farebbe per bene, però io mi
chiedevo quale pubblicità sarebbero state le sue braccia.
In risposta lo steward gli fa vedere i propri, che più che
tatuaggi sembrano delle macchiette sulla pelle e infatti
dice di averseli fatti da solo, quando era ubriaco,
aggiungendo sorridente: “guarda che merda!”. Guardo
sorpreso verso di loro e gli dico: “ma siete incredibili…e io
che ho sempre pensato che un tatuaggio dovesse essere
uno stupendo disegno, che rappresenti qualcosa per la
persona stessa e che sia da portare con orgoglio per…
tutta la vita…”, ma loro non sembravano preoccuparsi
troppo di questa cosa. “Ma poi”, gli dico, “come l’avresti
fatto? Ce l’hai l’attrezzatura?” Risponde che si, aveva
comprato un kit da pochi soldi ….insomma, tutto un po’ così
improvvisato. Si chiama Giulio, è di Genova Sestri e lavora
qui al porto, poi parliamo di tutto un po’, anche del suo
turno che durerà fino alle 7 del mattino. Spunta anche una
chitarra nelle mani dell’altro ragazzo, Eduardo, il
tatuatore, che scopro venire dal Perù, come i suoi
lineamenti già lasciavano intendere di una certa
provenienza e capisco così che è un buon artista di strada:
tatuaggi, disegni e chitarra e dice che ciò gli permette di
guadagnare per vivere. Soprattutto con i tattoo, che lui
esegue direttamente a domicilio dai clienti. Interessata al
dialogo riferito all’art street, ma molto probabilmente
senza capirci una parola, una ragazza francese, sedutasi
poco prima sulla panchina circolare. Auriel era arrivata oggi
stesso per accompagnare il suo fidanzato al porto, da dove
si era imbarcato per Tunisi. Si parla un misto francese
inglese e mi dice che assieme a loro è venuto anche l’amico
Maxime, che deve essere in giro qua attorno. Però l’auto
era salpata con la nave assieme al fidanzato e loro
avrebbero dovuto ripartire in autostop! Verso dove? Brest,
città portuale della Bretagna, il luogo francese più distante
dal punto in cui ci troviamo. Mi giro attorno e vedo che lo
steward non c’è più. Ho pensato che avesse dovuto fare i
suoi giri notturni ripetuti, in realtà non lo rivedrò più.
Auriel inizia a parlare e ridere sempre più. Le dico che
arrivo da alcuni giorni passati a Marsiglia e che ci vedo
molte similitudini con Genova, città e genti di mare come
noi, uniti da un filo che ci lega. Infatti anche là, sotto al
monte di Notre Dame de la Garde, tutto ruota attorno al
Vieux Port, con dei bei locali dove ricordo di personaggi
bizzarri e pure una bella rissa in stile marinaresco. C’era un
uomo dai capelli grigi con addosso ancora i vestiti da lavoro
della sua lunga giornata appena conclusa che discuteva con
tre punk seduti a terra sul marciapiedi, su chi fra loro
quattro avesse i vestiti più sporchi e su chi avesse più
diritto ad averli in quello stato. Una ragazza che passava
lungo la banchina mi chiese di aiutarla perché aveva uno
zaino sulle spalle il cui moschetto si era impigliato sul suo
giubbettino e per agevolarmi mi aveva fatto camminare
venti metri più avanti per poi salire lei sulla prima bitta di
quella banchina affinché potessi intervenire ad un’altezza
migliore. Più tardi entrai a bermi una birra in un bar
chiamato “Marenco”, c’era sulla porta un tipo grosso e
sformato, con tatuaggi su polpacci e bicipiti e con una
bandana da corsaro, che corteggiava una ragazza bassa ed
esile. Un tipo magro e dal volto affilato, con un sorriso da
Joker un po’ ingenuo e un cappello stile gangster, sembrava
saperci fare con le donne, era già la seconda con cui si
intratteneva e le offriva da bere. Forse però quei bicchieri
non riusciva a reggerli troppo, perché dopo un po’ era
apparso alticcio e lo vidi discutere con il security fuori dal
locale di fronte, a pochi metri dal “Marenco”, dove
evidentemente voleva andare a continuare a divertirsi. Ma
non era l’unico ad aver alzato il gomito, perché proprio
sull’affollata stradina dove si mischiavano gli avventori dei
due locali, si sentì prima alzare la voce, poi qualche
spintone, bicchieri che si infransero e infine botte. Poi fuga
e inseguimento tra cinque-sei persone nelle stradine del
Vieux Port, ribaltando alcuni tavolini di clienti che stavano
tranquillamente cenando nei ristoranti all’aperto. Tutte le
persone in piedi, tra le grida, a seguire quella corsa, poi
quando tutto finì, ognuno riprese a bere, chiacchierare e
commentare. Allora domando ad Auriel cosa pensassero
quelli del nord come lei di quelli della città della Provenza al
Sud. “Uh”, lei fa, “i marsigliesi te la raccontano sempre
grande, di un topolino ti fanno un elefante” mimando il
tutto… e giù a ridere. Un altro sguardo attorno e vedo che
anche Eduardo è sparito nel nulla, assieme a chitarra,
disegni e tatuaggi. Proprio al suo posto stanno luccicando,
su un volto scuro scuro, nella notte del Porto Antico, gli
occhi di un ragazzo di colore, Saneh, viene dal Gambia e
abita in città. Non da molto sembra, perché in pratica parla
solo inglese e può inserirsi nel dialogo a mosaico solo quando
lo può comprendere in quella lingua. Ad un tratto, arriva uno
con una camminata caracollante ma spedita, saluta tutti e
parla in modo veloce con Auriel. È Maxime, dove sia stato
non si sa, ma a quanto pare ora già si prepara a passare la
nottata al porto. Poco prima sulla panchina adiacente, si
erano seduti tre ragazzi magrebini, avevano osservato quel
movimento e con un iniziale battuta si scambia qualche
chiacchiera anche con loro, uno mi invita a sedermi, è
Akhim marocchino come gli altri due, e mentre approfitto
per chiedergli una mia curiosità e cioè quale sia la nazione
araba più vicina alla lingua più pura, vedo Auriel
incamminarsi e scomparire 50 metri più in là…mi domando,
“qui spariscono tutti, si farà rivedere?”. In ogni caso loro
mi rispondono, non proprio all’unanimità, che l’Egitto ma
anche l’Arabia Saudita si avvicina di più alla lingua araba
pura. Parliamo anche di fidanzate e cuori in pena, ci
confessiamo debolezze, ma dopo un po’ arriva una coppia di
giovani locali e chiede qualcosa proprio ad Akhim, lui si alza
e con la coppia si allontana. Realizzo in quel momento che
stavo parlando con dei pushers. Improvvisamente
ricompare Auriel, così ho un motivo in più per alzarmi e
lasciare i due tipi rimasti. Ancora qualche risata, Maxime
che sembra ancora cercare il giaciglio giusto, ma ormai è
tardissimo e non mi resta che salutare. Sono rimasti solo i
francesi e finiamo col salutarci ripetendoci più volte
reciprocamente : “Bonne chance!” “Bonne chance!” mentre
già mi ritrovo a indietreggiare, per poi voltarmi e
camminare, infilandomi di nuovo tra gli stretti caruggi, fino
a ritornare alla mia stanza.

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