Storie di Città

Racconti e Poesie originali e geolocalizzati

  • Home
  • Pubblica e Geolocalizza le tue Opere
    • Regolamento
    • Invia la tua Opera
  • Accedi
  • Registrati
Menu
  • Home
  • Pubblica e Geolocalizza le tue Opere
    • Regolamento
    • Invia la tua Opera
  • Accedi
  • Registrati
  • Sfoglia Categorie
      • 684Poesie
      • 393Racconti
  • Chi siamo
  • Blog
  • Contattaci
Un paese per vivere

Un paese per vivere

04022 Fondi (Lt)
Storie Vere
0 Reviews
Condividi

Condividi:

Condividi:

  • Fai clic per condividere su Facebook (Si apre in una nuova finestra)
  • Fai clic qui per condividere su LinkedIn (Si apre in una nuova finestra)
  • Fai clic qui per condividere su Twitter (Si apre in una nuova finestra)
  • Fai clic per condividere su WhatsApp (Si apre in una nuova finestra)
  • Fai clic per inviare un link a un amico via e-mail (Si apre in una nuova finestra)
Write a Review

Un paese per vivere

visita su Google street view  

 

  • PREMESSA
  • PRIMO CAPITOLO
  • SECONDO CAPITOLO
  • TERZO CAPITOLO
  • QUARTO CAPITOLO
  • QUINTO CAPITOLO

PREMESSA

In questo libro si narra la semplice storia di uno dei tanti ragazzi nati in paesi del centro-sud italiano a forte tradizione agricola e borbonica, nell’epoca monarchico-fascista. Uno dei tanti tagazzi spettatori-protagonisti delle atrocità della Seconda Guerra Mondiale, sopravvissuto allo sfacelo e disgregazione familiare, costretto ad emigrare per il sudamerica in cerca, come tutti, di una miglior fortuna. Una volta emigrato, venne coinvolto nella sanguinosa Rivoluzione Civico-Militare del Venezuela nel 1958, dove si trovava da pochi mesi, nella lotta marxista capitanata da Fidel Castro e Che Guevara, in cui visse momenti di paura per il riacutizzarsi della xenofobia verso gli stranieri indesiderati. Ben due volte scampò alle pallottole dirette a lui, scappando per le strade insaguinate di Caracas in cui, sprezzante del pericolo, andava con un giornalista spagnolo fotografando le immagini salienti della guerriglia.

A Caracas, subito si era ben inserito nella vita produttiva, quale agente di vendita di prodotti alimentari, vini e liquori di note marche internazionali, attività  che gli consentiva anche il tempo libero da dedicare alla sua vocazione artistica e letteraria. Ma l’improvviso sconvolgimento rivoluzionario, fra gente di varia etnía, dove si manifestavano acuti risentimenti verso gli stranieri, ritenuti i responsabili del malessere dei nativi, lo fecero riflettere e per la sua naturale inquietudine e insoddisfazione, decise di non potersi stabilire  per vivere in quel paese. Per cui, pur avendo ottenuto accoglienza, riconoscendogli potenziali qualità, assumendolo in ottime posizioni di lavoro in cui subito manifestò successo personale nelle relazioni con la clientela eterogenea di Caracas, inoltre nella vita sociale e culturale, si rese conto, tuttavia, che in quel paese diverso per costumi, religione e formazione culturale, non sarebbbe stato ideale per lui farsi una famiglia a proprio modello. Decise, perciò, di tornare alle radici ancestrali per ricominciare da capo, però con l’obiettivo fisso  di percorrere fino in fondo il difficile sentiero per raggiungere la meta nel suo ideale di vita.

Ma, all’indomani del “boom economico in Italia”, tanto decantato e che indusse anche lui a far ritorno in patria, tuttavia, gli fu evidente che il settarismo ed asservimento ai partiti era dilagato, anzi, peggiorato, per chi come lui non appartenesse a larghe famiglie di possibili elettori o non fosse in possesso di titoli di studio quali credenziali da ostentare. Tanto meno per lui, che già in paese lo conoscevano quale ragazzo insofferente, non disposto a farsi calpestare da nessuno. Ed egli non sarebbe mai venuto meno al suo ideale di progressista dalla profonda coscienza socialista di cristiano, non di partito, fuori da ogni calcolo di beneficio personale a danno di altri. Per cui, emigrò di nuovo per la Germania dove, all’epoca, si viveva in un clima, cosidetto, socialdemocratico, il lavoro si otteneva facilmente, ma con il timbro di manovale sul cartellino di lavoro, ossia: “Hilfsarbeiter”, con diritto al salario minimo, anche quando si dimostrava di saper produrre piú e meglio dei tedeschi classificati “Spezialisten”. Ma quelle erano condizioni irrinunciabili, in regola con i contributi previdenziali di legge, ché per lo meno davano dignità e sostento sociale necessario per sopravvivere, mentre in Italia nemmeno quelle si ottenevano, dovendo accettare, pur trovandolo, un “lavoro nero”, umiliante e non sufficiente per condurre una vita tranquilla. Specie volendosi  fare una famiglia e vivere con un minimo decoro.

Gino Marese, come aveva fatto in Venezuela, subito trovò lavoro in Germania dove era andato con la carta d’identità timbrata dalla Questura, al momento in cui stavano per cadere le frontiere e si discutevano i piani di svuluppo per un Mercato Europeo Comune. Ed ebbe successo, anche in quella terra fredda ed ancora devastata dai bombardamenti angloamericani e sovietici che si erano spartiti Berlino come fosse una torta di compleanno.

Erano gli anni fervorosi per la Repubblica Federale Tedesca in cui  ferveva il lavoro e l’opera restauratrice della macerie della guerra, le fabbriche producevano a pieno ritmo. Ma lui, sempre irrequieto e insoddisfatto, decise di ritornare definitivamente alla città natale per dedicarsi anima e corpo alla sua personale creatività, per vivere secondo il suo ideale di vita.

 

PRIMO CAPITOLO

Gino Marese era tornato con il cuore gonfio d’amore alla sua antica cittadella natale, deciso a rinunciare a una vita apparentemente libera e nuova nel paese sudamericano in cui aveva toccato con mano un certo benessere derivato dalla sua capacità di svolgere lavori mai sognati che esistessero. Cinque anni prima era emigrato da una terra a forte tradizioni agricole, chiusa ad ogni orizzonte, senza alternativa ai lavori saltuari di bracciantato o fare per lunghi anni il ragazzo di bottega per imparare un mestiere, come aveva fatto prima di partire, per poi arrivare a svolgere una piccola attività in proprio, che non andava oltre la sopravvivenza fra le molte difficoltà quotidiane. Cioè condurre una vita piatta e mortificante, al margine di sparute caste terriere che dettavano legge anche nella nuova politica fratricida.

Ma era tornato, considerando la crudezza delle situazioni sociali che aveva lasciato e quelle ben piú avvilenti trovate nel nuovo mondo, nuovo per modo di dire, perché se ne aveva conoscenza solo per l’emigrazione degli ultimi secoli, cioè, dopo l’avventuroso e inconsapevole viaggio di Cristoforo Colombo che aprí la rotta all’impero spagnolo. Dopo di che il continente latinoamericano fu sottoposto alla sopraffazione, alla profanazione delle antiche culture etniche e credenze degli indios, saccheggiandone tesori d’arte, frustando a sangue gli schiavi aborigeni e delle tratte negre, per svuotare le miniere d’oro e d’argento per accumularle ai piedi della Regina Isabella di Spagna e rendere piú ricche e sfarzose tutte le corti imperiali d’Europa.

Poi seguirono le sommosse militari degli aspiranti dittatori in connubio con le oligarchie dei feudalisti, per lo piú capitanate da colonnelli, per impadronirsi degli immensi territori in cui c’erano le risorse minerali da sfruttare per accrescere capitali e privilegi fra le poche caste. Intanto, le popolazioni, calpestate e usurpate di qualsiasi diritto, erano obbligate a languire nella miseria e schiavitú, in particolare quella originaria dell’Africa che poi ha generato la razza mestiza, evolvendosi lentamente in ogni epoca della storia, con l’influenza dei trafficanti della costa caraibica centrale, nell’incrocio con Panamá e Cuba. Mentre, sopravviveva senza mutamenti, allo stato puro, la civiltà primordiale degli indios nelle aldee lungo il fiume Orinoco o nelle selve del Mato Grosso

Lui aveva visto, era stato testimone di quel popolo fisso nella storia coi propri costumi, le loro millenarie tradizioni, adeguandosi alla stentata sopravvivenza, plagiati nell’anima e nella mente da false promesse, inconsapevoli di tutto ciò che accadeva intorno ad essi e nel mondo.

Cosí, la popolazione venezuelana nell’interno del territorio, era rimasta per circa due secoli immutata, isolata e ignorata dal progresso metropolitano nelle città occidentali lungo la costa atlantica. A nulla era valso la leggendaria Rivoluzione di Simón Bolivar, che ispirato dagli ideali libertari, nutritosi anche lui nei salotti parigini post napoleonici, il quale poté condurre la sua aspra lotta libertaria contro il dominio dell’impero spagnolo, con l’appoggio di tutti i poveri contadini della savana e i pastori delle Ande. Ma, dopo, nulla era cambiato per essi, rimasti fuori da ogni attenzione dei governi che si succedevano, privati dal dirittto politico di esprimere un governo, ché avrebbero firmato sulla scheda elettorale, sia pure con una croce.

Egli fu testimone nel 1958 della rivoluzione marxista che accendeva l’odio nei popolani, plagiati e spinti alla lotta contro la dittatura militare ed il capitalismo, con la promessa di un riscatto sociale, avere diritto allo studio, all’assistenza medica, al lavoro, insomma al benessere inteso come “parte uguale” di concezione marxista, ciò che non avveniva da secoli.

Nel Venezuela c’erano enormi ricchezze del sottosuolo, soprattutto gli abbondanti giacimenti di petrolio nel pofondo Lago di Maracaibo e che già si sfruttava rifornendo le petroliere nordamericane,  arricchendo solo le oligarchie di potere. Mentre il popolo venezuelano che si sporcava i piedi nei neri pantani macchiandosi di liquido puzzolente, non si rendeva conto della ricchezza che calpestava e che toccava anche ad esso. Ma continuavano nell’indiffferenza, lasciato nell’ ignoranza, escluso da ogni beneficio sociale, abbandonato a sé stesso nella  sopravvivenza quotidiana, coltivando a fatica qualche pezzo di terra per patate e cipolle.  Non possedendo attrezzature meccaniche, usando ancora l’aratro a omero di legno trainato dai buoi, come quello con cui Romolo aveva tracciato il Solco di Roma. Insomma, allora, il territorio venezuelano era una landa desolata che lui, per qualche anno, percorse settimanalmente nella sua nuova attività di venditore viaggiante. Un’opportunità fantastica che gli permise di poter conoscere città, paesi ed aldee nella sterminata savana o sulle Ande, laddove i poveri contadini si erano battuti nella storica rivoluzione bolivariana riuscendo a far ascrivere in Angostura (l’odierna San Ferbando de Apure) sulla riva dell’Orinoco, la Costituzione della Repubblica della Grande Colombia. Poi, restarono a languire nella solitudine, abbandonati a sé stessi, ignorati dai governi a dittature militari che sovente si succedevano ammazzandosi fra loro.

Fu la situazione di forte contrasto sociale, a contatto del popolo di “campesinos”, i  contadini che gli ricordavano i suoi compaesani dell’entroterra meridionale, i quali, per la maggior parte nemmeno conoscevano la data della propria nascita e nè l’età che avessero, privi di documenti civili e che vivacchiavano in quel vasto e ricco territorio ancora allo stato primordiale. Ciò che gli fece maturare la decisione di tornarsene in Italia. Riflettendo, sulla sua insofferenza e incapacità di accettare quella  situazione di sopruso, peggiore di quella che si verificava nell’Italia borbonica, non voleva stabilirsi in una paese in cui c’era forte contrasto e un naturale razzismo, dovuto alla differenza di pelle e di costumi, specie da parte di gruppi pilotati dalla politica nazionalista,  nel veder crescere il benessere del vicino “Musiú”, lo straniero, che in pochi anni diventava ricco e si costruiva una bella casa a scapito di essi. Mentre i nativi, continuavano a vivere ai margini, impreparati e incapaci a svolgere qualche attività piú remunerativa, che non fosse un saltuario bracciantato di “Peón”, cioè di manovalanza generica, uguale a quella del paese da cui era partito. E in quella reale condizione di distacco sociale, che anche lui aveva già sofferto, non voleva restare ed essere circondato dai tanti patimenti altrui.

Gino Marese, era tornato dopo essere vissuto in quel crogiuolo tropicale, tra la rivoluzione marxista che aveva modificato la mappa politica dei Caraibi, che appena sfiorò la miseria piú cruda di quel popolo conosciuto da vicino. Alla fine, dopo avere combattuto per anni la sua tagliente nostalgia, si convinse che la soluzione dei propri problemi era quella di rinsaldarsi alle proprie radici, tornando al paese natale. Se fosse rimasto in Venezuela, potendo superare la sua indole pacifica, tesa ai piú alti traguardi sociali e civili, si sarebbe trasformato in violento e sanguinoso, forse, aggregandosi ai “barbudos guerriglieri di Che Guevara” e contribuire alla lotta di riscatto di quel popolo secolarmente ignorato e calpestato e di tutti gli altri nel sudamerica, com’era proposito dell’immolato rivoluzionario argentino.

Ma aveva orrore del sangue, ne aveva visto tanto versato  nel suo paese  durante la Secconda Guerra Mondiale. Bambino sfollato e torturato dalla fame e dalla paura, vide morire prima i compagni di gioco, il nonno materno sfregiato dalle bombe, poi la sua giovanissima madre aggredita dal male per gli inumani sacrifici, l’abbandono del padre emigrato senza dare piú notizie. La tragedia in cui visse la sua adolescenza di patimenti, usurpato nell’anima e nei sogni, lo aveva sprofondato nello sconforto piú cupo, rabbrividendo per il timore di non poter vedere alcuna luce al suo orizzonte. Poi, quasi per incanto, dopo mezzo secolo, si era trovato in un paese in cui, finalmente, aveva trovato le condizioni di benessere materiale, mai sperate nel suo millenario paese di contadini semianalfabeti che si azzuffavano in famiglia per un pezzo di terra ereditato. Mentre, la massa dei nullatenenti viveva alla mercé dei prepotenti, senza speranza di riscatto, lo stesso com’erano allora le condizioni in Venezuela dove, però, sapendosi adattare, c’erano tante possibilità per realizzare  posizioni ecomomiche e sociali che nel suo paese di nascita erano negate a priori. Ma ci voleva durezza e insensibiltà di coscienza. Non bastò un lustro di quella nuova vita per adattarsi alla reale situazione, in cui pure gli si offrivano tante soddisfazioni materiali, anche di rispetto per la sua capacità intellettuale e creativa, riuscendo finanche a dominare la sua costante inquietudine nello svolgere un lavoro redditizio ma non appagante delle sue ambizioni. Soprattutto, dovendo decidersi di farsi una famiglia che gli mancava da troppi anni, per continuare a vivere dignitosamente in un paese civile e libero, dove non esistessero conflitti per le profonde spaccature sociali, che offrisse a ciascuno reali possibilità di progresso, nel rispetto dei valori personali, civili, religiosi. Dove, insomma, si potesse stare di fatto per una convivenza pacifica ed armoniosa. Utopia? Un giorno gli capitò tra le mani il libro “Racconti del Cáucaso” di Leone Tolstoj chi iniziava con una dedica:

“E’ difficile, fratello, vivere in terra straniera…”

      Capí quel profondo significato, che non era un concetto razzista, ma la consapevolezza che una persona maturata agli ideali dei patri valori nella formazione culturale, fra affetti sinceri della famiglia, la solidarietà dei veri amici, la tolleranza sociale, non potrebbe avere riscontro in ambienti  diversi nei costumi e nella mentalità, specie in un paese in cui la miseria era  considerata  un  fatale destino, passivamente accettato nel plagio e nell’usurpazione abietta delle caste privilegiate di potere. Nè piú e nè meno di quello che da millenni succedeva nei paesi del meridione italiano, e non solo.

Perciò, riteneva che non era facile per lui adattarsi in una qualsiasi nazione del mondo amministrata da identiche politiche usurpatrici, che non intendono l’applicazione della parità dei diritti e dei doveri, offrendo ad ogni cittadino la possibilità di studiare per raggiungere professioni ideali, per vivere in un benessere collettivo dove esprimere talento e capacità produttiva. E si crucciava di dover rinunciare a vivere nel Venezuela, un paese in cui si sentiva libero, a suo agio, quasi amandolo piú dell’Italia. Ma la nostalgia era forte e cocente, pure se gli sembrava assurdo doversene ritornare nel suo paese per ritrovarsi in ambienti ristretti e ostili per chiunque manifestasse una capacità  per realizzare qualcosa di diverso dalle connotazioni sociali nella mentalità popolana. Eppure, pensava, scienza e progresso avanzavano con la velocità della luce, ormai l’uomo era giunto ad esplorare i pianeti dell’universo, ma i governi lo ignorano continuando a calpestare i popoli trascurando e aggravando i problemi assillanti che ci sono sulla terra, anzi calpestandola, deliberatamente e avvelenandola sadicamente. Ed anche se le macchine moderne possono produrre ingenti quantità di beni di consumo, ci sono i mezzi per creare le condizioni ideali per un’esistenza umana piú confortevole in ogni angolo del mondo, invece  sono usate solo per distruggere, devastare paesi e civiltà, aggravare miseria, rancori ed odio fra i popoli.

Infine, rivivendo nella memoria la sua triste adolescenza, si ricordò le parole del nonno paterno che nel salutarlo alla partenza, con le lacrime agli occhi, gli disse: “Ricordati che ogni paese è mondo…”. Così prese la decisione finale di fare il viaggio di ritorno, per iniziare di nuovo da dove era partito carico di sogni e speranze, ormai maturo e preparato per affrontare ogni difficoltà piú coscientemente, nella sfida per abbattere antichi tabú pregiudiziali, secondo la mentalità popolana secolarmente plagiata nei sogni, impedendo un riscatto sociale dalle piccole e ottuse caste che dominano immeritatamente nei paesi sassosi del meridione. Antichi agglomerati di case asimmetriche, nelle cittadelle che nell’incuria si screpolano nei secoli di accaparramento feudale, in cui si  nega ostinatamente ogni sviluppo collaterale all’agricoltura ed alle libere attività artigianali, chiusi ai tentativi di istallare industrie metalmeccaniche o centrali idrolelettriche sui bordi di grossi laghi, abbandonati all’inquinamento e dai tradizionali pescatori, sin dall’avvento della Repubblica Italiana. Cosí, aiutati dai disonesti politici che puntualmente si eleggono al governo, possono sfruttare il bracciantato saltuario, obbligandolo anche a subire le angherie dei prepotenti piccoli proprietari terrieri, in cambio di un misero salario che consente alle numerose famiglie a malapena un minimo sostentamento, fra mille sacrifici e privazioni. Da millenarie generazioni si adottava quel sistema di schiavismo di fatto, nell’indifferenza del governo e dei partiti politici che pensano solo e sempre a raccattare voti per insistere nel potere centrale di Roma. In modo che facendo leva sulle tribolazioni di uomini poveri, riducendoli allo stremo, possono ottenere pacchetti di voti elettorali da vendere al miglior offerente canditato, in cambio di appalti e subappalti fra famiglie e compari, sistemazioni ministeriali e parastatali per parenti ed amici, lasciando qualche posticino per i poveri cristi asserviti, finanche falsificando documenti d’invalidità fisica, per coloro pronti a fare giuramento di fedeltà, disposti a  scazzottarsi in pubblico per difendere l’onorabilità del proprio segretario politico.

 

SECONDO CAPITOLO

“Se la terra non da i frutti, è colpa di chi la calpesta, non la zappa,

non la concima, non la semina, nè cura le piantine in crescita,

per poi condividere i frutti profumati e squisiti…L.M.”

 Le stagioni piú spensierate, Gino Marese le visse nella sua umile casa contornata da orti d’agrumi  e frutteti che profumavano tutti i giorni sin dal mattino, specie con la fioritura degli aranci e in ogni stagione, quando maturavano i pomi d’ogni specie. Lui, non mancava di arrampicarsi sugli alberi, per scegliere i piú dorati e croccanti nella sua bocca. Ma, i momenti piú felici, erano quelli in cui la bellissima madre, indossato abiti colorati da principessa, radiosa, prendeva per mano lui e la sorella ben infiocchettata e con passo elegante e svelto li portava al mercatino degli otofrutticoli. Lí, ogni mattino di buon ora, arrivavano le contadine da tutte le contrade di campagna, con in testa canestri e sotto braccio panieri colmi di frutta e fuscelle di cacio fresco e ricotta. E subito, la madre premurosa sceglieva allegramente le primizie, come: gelsi, more, fragole, fichi e albicocche che si aprivano come labbra carnose pronte a baciare. Ciò, si ripeteva tutti i giorni, anche se la sua casa era fornita di ogni ben di Dio ed avevano un orto a portata di mano in cui entrare senza che nessuno li scacciasse. Ma lei non approfittava mai, e voleva pagare personalmente per scegliere  la frutta migliore e piú fresca per i figli che adorava. Ogni giorno, li vestiva e lustrava con cura, per andare a quell’unico mercatino sistemato nella piazza quadrata ai piedi del Castello nel complesso architettonico dell’antico Palazzo Baronale. Era un rito per lei, poter dare ai figlioletti il meglio che potesse, in quegli anni  in  cui il marito lavorava in Africa ed ogni tre mesi tornava in famiglia portando sacchetti di lire d’argento. La giovane madre si sentiva felice, nel prendere per mano gli adorati figlioletti riordinandoli continuamente, con evidente premura verso il vispo primogenito, irradiandolo con la luce meravigliosa dei suoi occhi. E lo vezzeggiava acarezzandolo, chiamandolo “Ginarello di mamma”, poiché stentava a crescere, piccolo di statura, gracile, con una grossa testa, per cui in famiglia soprannominato affettuosamente “Capodibomba”, ma  aveva due grandi occhi celesti come lei  che esprimevano un magnetico amore senza bisogno di parole.

Forse per questo suo contatto con la terra, corservando le immagini dei contadini che nella sua infanzia, con duro lavoro, la trasformarono in giardini profumati e ricchi di frutta,  Gino Marese, un giorno s’inventò la massima filosofica del contadino sottotitolata in questo racconto di vita, riferendola a un suo riottoso concittadino, uno che seguiva le vie dell’arte a Roma. Uno che si mostrava impettito ogni volta che arrivava al paese, solo nei giorni delle vacanze estive, assai riverito dai gruppetti distaccati dal popolo, quelli che si reputavano intellettuali, unici ritenuti di aver diritto a stargli vicino per adularlo, odiandolo sordamente. E vaneggiavano considerandosi esponenti di spicco delle famiglie benestanti dei commercianti, professionisti titolati emersi dalla borghesia contadina, quella rimasta nell’ignoranza, anche avendo figli dottori in casa, continuando a vivere fra rigide tradizioni, non mostrando mai alcun interesse per migliorare la propria limitata conoscenza, privi di una vita sociale,culturale e civile; a quella degli altri nell’arretratezza del paese non ci pensavano nemmeno. Anzi, la secolare situazione di semianalfabetismo e di miserie, faceva comodo per sfruttare il lavoro e tenere piegata la popolazione alla mercè del proprio egoismo.

Gino Marese, un giorno, avvicinò quel pittore concittadino di cui molti lodavano la grandezza, sebbene ne sconoscessero la reale collocazione fra gli artisti  emergenti  nella creatività nazionale in Italia, ma lui, pur consapevole, si lasciava lusingare lo stesso. Non fece nemmeno caso al ragazzo che voleva parlargli di organizzare un premio di pittura e grafica nel paese, rivolgendosi esclusivamente al gruppetto intorno che lo assecondava con falsa modestia nel ringraziare, facendosi gorgogliare la voce di ventriloco, senza riuscire a nascondere un’evidente pomposità. A chi gli domandasse perché non faceva qualcosa  per il suo paese, subito rispondeva:

“Nooh, che vuoi fare, questo è un paese agricolo, ci sono tanti problemi, cosa vuoi parlare d’arte, di letteratura; qui non capisce niente nessuno, non c’è un ambiente culturale, c’è solo invidia e cattiveria; cosa vuoi fare…Io sono un pittore nazionale e non posso perdere tempo in questo sottobosco culturale fra poveracci che non hanno la piú pallida idea e solo sanno criticare e invidiare gli altri…”

E fu a questo punto che Gino Marese, improvvisando, compose la massima filosofica del contadino, sopra riportata , e che s’incise profondamente nella corteccia cerebrale del pittore che restò ammutolito, fissandolo stranito. Pensava alla  sfrontatezza di quel ragazzo che si era permesso di scuotergli la coscienza in modo tanto pungente che mai si sarebbe aspettato. E poi: chi era per rivolgersi a lui con tanta sagacia? Aveva già saputo da qualche confidente che aveva nel paese che si trattava di una specie di esaltato, senza titoli, senza amicizie politiche e nè possibilità economica alcuna per riuscire a fare qualcosa di buono, ma che pretendeva invadere il campo dell’arte, della letteratura, della musica classica, addiritura. Inoltre, aveva finanche fondato una rivista d’arte e letteratura e pubblicava poesie, scritti storici  riguardanti ogni settore, dandosi molto da fare, come mai avevano visto prima. Com’era possibile che un figlio di poveracci potesse occuparsi di quei settori dell’intelletto umano, ritenuto patrimonio riservato solo a loro stessi, anche se non lo dimostrassero coi fatti? Si trattava di uno  squalificato, secondo il pittore che era figlio di un noto commerciante di derrate alimentari, e seppe che, nientedimeno, quel ragazzo sfacciato era nipote di un dipendente del padre, anche se era capo di una cooperativa di facchini, ma analfabeta, seppure di grande rispetto, per essere stato, anche un intraprendente operatore turistico, primo nel realizzare uno stabilimento balneare in legno sulla spiaggia limitrofa. Una spiaggia ancora selvaggia, dove ogni domenica andavano alcune famiglie che disponevano di un carretto per il trasporto, o i pochi giovanotti intraprendenti che possedevano la bicicletta di famiglia, concessa con ritrosia, nella preoccupazione che imprudentemente potessero sfracellarsi o affogare fra i cavalloni del mare agitato. Probabilmente, anche il pittore, da bambino c’era stato qualche volta, beneficiando della generosità del nonno di Gino Marese, ottimo cuoco che vedendo i ragazzi affamati gironzolare intorno allo stabilimento che annusavano il profumo della sua cucina, spesso li chiamava per rifocillarli gratuitamente, con mille ammonimenti di non andare subito a tuffarsi con le pance piene. Ma era acqua passata e il pittore lo ricordava solo quale capo facchino alle dipendenze del padre e lo stesso considerava il nipote privo di talento e cultura, non meritevole della sua attenzione, senza alcuna credenziale per svolgere il difficile ruolo di operatore d’arte, letteratura, concerti di musica classica ed ogni altro settore che riguardasse la cultura con la C maiuscola.

Gino Marese, effettivamente, era considerato un ragazzo sfortunato. La sua condizione si era aggravata subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, fra le macerie, la carenza alimentare, le infezioni intestinali, soprattutto per l’aggravarsi della malattia mortale di sua madre che lo gettò in uno stato di abbandono. Conseguito con un anno di ritardo la licenza elementare, non volle saperne di frequentare l’avviamento a tipo agrario, ma nell’anno successivo fu trascinato quasi di peso ad iscriversi al primo corso, sollecitato dai dirigenti che si recarono a casa dei genitori, con mille adulazioni e promesse di libri gratuiti perché considerato intelligente e raccomandato dal maestro elementare, chi addirittura li pregò affinché  fosse aiutato a proseguire gli studi.  E, infatti, ebbero la prova di quanto giudicato da quel maestro, quel ragazzo dimostrava rare doti di apprendimento, Non c’era materia di studio in cui fosse deficitario, nella sua pagella trimestrale risaltava un’alta votazione: molti dieci, specie nel disegno e la musica, alcuni nove in italiano, storia e geografia, lingua francese, botanica e scienze applicate, otto in matematrica, eccetera. Anzi, era diventato il pupillo della professoressa di botanica e scienze applicate, che lo chiamava nell’ora di lezione per fargli leggere la pagina del testo. Ed era strabiliante la sua capacità di lettura, con una dizione chiara e musicale, come se avesse seguito degli studi specialistici particolari. Eppure, da sempre, nel suo ambiente casalingo si parlava solo l’antico vernacolo derivato dal dialetto ciociaro, come tutti nel paese, peggio, quello ancora piú volgare dei  ragazzi nei giochi di strada. La lingua italiana non sapevano nemmeno che esistesse. Ma lui, tuttavia, mostrava piú predisposizione quando scriveva i temi in classe, senza commettere nessun errore ortografico o di sintassi, con fluidità musicale e concetti chiaramente espressi. Una volta, il professore d’italiano, gli diede il voto 9+ ad un tema in cui descrisse la tragedia di sua madre e l’angoscia per l’acuto dolore che provava, nel vederla spegnere, giorno dopo giorno, inesorabilmente, con atroce sofferenza e lui, impotente, si sentiva oppresso nel buio di un labirinto senza uscita,mentre gli crollava il mondo addosso. Il professore, con le lacrime agli occhi, portò quel tema a farlo leggere a tutti gli studenti delle scuole medie, con l’orgoglio di avere nella sua classe dell’avviamento a tipo agrario, un ragazzo di povera famiglia che sapeva scrivere tanto bene la lingua italiana. Fu sicuramente il primo racconto scritto da Gino Marese, andato perso con i suoi ricordi di ragazzo, come non seppe mai la fine dei suoi disegni e pastelli rimasti appesi alle pareti della direzione a specchio del suo talento, nell’istituto che aveva frequentato per tre anni con profitto, pur senza mai ricevere i libri di testo promessi. Solo, grazie al prestito di qualche amico, potè fugacemente ripassare le lezioni al mattino, prima di entrare in classe. Così come, alla fine, per premio, ebbe la punizione di essere rimandato poi bocciato proprio dalla professoressa di botanica che lo aveva sempre benvoluto come un figlio. Quel figlio che all’improvviso era diventato aggressivo e sboccato, e che in un momento acuto di sconforto, aveva offeso volgarmente la sua dignità di donna che, però, non seppe comprendere la ragione. E non gli diede la licenza dell’Avviamento Professionale a Tipo Agrario, non  ebbe pietà di lui, già sprofondato nella tristezza per la perdita della bellissima madre, vivendo il periodo piú triste della sua esistenza, abbandonato anche dal padre emigrato per il Sudamerica senza piú dare notizie e privando di sostentamento i figli rimasti in balia dei parenti anch’essi in difficoltà economiche.

Così, a venti anni, per uscire da quella situazione d’inferiorità sociale, si arruolò prima nella Marina Militare Italiana, poi emigrando anche lui per il sudamerica in cerca del padre e, tornato in Italia, dopo un lustro, riemigrò per la Germania. Praticamente, era mancato una decina d’anni dal suo paese ed al ritorno definitivo ritrovò la situazione stagnante, in mano agli stessi gruppi nelle segreterie dei partiti. I soliti scansafatiche che avevano anch’essi abbandonato gli studi per problemi di famiglia o perchè non avevano nessuna voglia d’impegnarsi nello studio, parecchi semianalfabeti ma lesti di mano ed arroganti, che riuscivano a sopraffare i titolati ambiziosi di potere, timidi e scostanti, mentre qualche altezzoso professore studioso che vantava ideale politico, che bacchettava tutti, con ironica saccenteria. Ma gli indegni di dibattere con lui nei consigli comunali, imperterriti, se la ridevano, sfoggiando linguaggio di compari di cantina, sproloquiando ma battendo forte il pugno sulla tavola, anche incoraggiati dall’applauso della platea di aspiranti a qualche favore personale per sé e i propri figli.

Coalizioni asserragliate in quei partiti politici, nati all’indomani della proclamazione della Repubblica Italiana, di opportunisti, che subito indossarono i panni colorati di un ideale o l’altro, di cui non avevano la piú pallida idea, dopo aver vestito quasi tutti le divise nere di balilla e di avanguardista, sfoggiandole con fierezza all’epoca del Duce, quando fu fondata la nuova Provincia  di Littoria. All’inizio, i piú furbi confluirono nello “Scudo Crociato” parteggiando per l’America capitalista dove giá dalla fine della Prima Guerra Mondiale c’erano molti padri di essi che lavoravano come schiavi per mandare le “pezze” alle famiglie e farle vivere senza grandi problemi. E, inoltre, privandosi pure degli alimenti essenziali, riuscivano anche a costruirsi una nuova casa, fuori della vecchia cinta muraria, a ridosso degli orti limitrofi, poi chiamate popolarmente “case degli americani”. Mentre, la maggioranza dei nullatenenti  e  nullasperando, buona parte iniziarono ad emigrare verso ogni paese disposto ad accoglierli, offrendo una nuova opportunità di vita, mentre il resto affollava  le piazze e le strade sventolando la “Bandiera Rossa”, seriamente convinti della riscossa sociale del popolo, nell’avere la “parte uguale” propugnata da Carlo Marx.

Insomma, coetanei compagni di scuola, amici nelle scorribande notturne per il paese, squattrinati ma allegri fra le difficoltà, avevano scelto le diverse collocazioni politiche, diventando rivali, persino acerrimi nemici, offendendosi a vicenda nei comizi di piazza e nei consigli comunali. Peggio, si erano resi strumenti dei soliti marpioni della vecchia politica del potere di Roma, sfruttati da strafoganti e beoni, tra un pranzo e l’altro, i quali firmavano qualche assegno per la sezione del partito locale, onde assicurarsi un pacchetto di voti prefenziali e promettendo mare e monti, che poi si risolveva in qualche raccomandazione per un posto di usciere ministeriale o di “applicato di segreteria” nelle scuole e negli uffici dei vari enti provinciali. Naturalmente, la parte del leone la in-terpretavano i capi dello “Scudo Crociato” che si sentivano forti, furbi, sicuri che tanti sarebbero strisciati ai loro piedi e avrebbero corso ad ogni loro ordine per firmare schede elettorali, pure con la semplice croce,  o andare a incollare manifesti e distribuire volantini. Tanti, sfruttando parentele e conoscenze, entravano nella case per fare proseliti e annotando sul libro nero chiunque manifestasse idee contrarie e si negasse al servilismo. Insomma, l’epoca del ricatto politico che Gino Marese conobbe prima di emigrare, era peggiorata al suo ritorno, quando si era illuso che il “Boom Economico dell’Italia del 1960” avrebbe risolto ogni  problema economico, mentre, in realtà era caduta nel peggiore ingranaggio della corruzione  partitica di governo e, senza lasciarsi strumentalizzare era impossibile avere una raccomandazione per ottenere un lavoro generico. Figurarsi una ideale sistemazione tecnico-professionale che si riservava solo ai propri figli e nipoti.

A lui era capitato, già prima di emigrare, che il parroco gli aveva negato il “Certificato di Buona Condotta”, allora necessario per ottenere il passaporto dalla Questura. Lo stesso parroco al quale lui nel periodo scolastico aveva fatto vincere un concorso indetto dall’Arcivescovato. Fu minacciato di far ricorso ai carabinieri per accertamenti sul suo conto, quale supposto rivoluzionario rosso. Però, se gli avesse portato la “tessera” del partito cattolico, glielo avrebbe dato brevi manu, senza problemi. Cosa che fece arrabbiare di brutto il capo dell’allora sezione locale della Democrazia Cristiana, grande amico del  nonno di Gino Marese ed ex federale nell’era precedente, il quale ordinò di rilasciargli subito il certificato e senza fare storie. Così, anche quel parroco ingrato ed arrogante, dovette abbassare la cresta ed ubbidire. Per poco, Gino Marese, non corse il rischio di non poter emigrare, come successe ad altri costretti a restare angosciati senza via di scampo.

 

 

TERZO CAPITOLO

E fu proprio attraverso le sue esperienze all’estero, arricchito culturalmente, soprattutto per la sua maturazione artistica e letteraria che non voleva piú sacrificarsi per svolgere un qualsiasi lavoro non consono, si convinse che era l’ora di dedicarvisi anima e corpo. Nel suo paese da secoli si parlava solo di agricoltura e problemi connessi, di artigianato precario che non garantiva sicurezza lavorativa e nè futuro agli operai, di commercio ortofrutticolo che allora trovava solo sbocco nei mercatini rionali di Roma. Nel mentre si accentuavano i contrasti politici per la costruzione di un grosso complesso mercantile che smistasse al nord i prodotti ortofrutticoli che arrivavano dal sud. Nè si parlava di altri progetti di sviluppo che offrissero lavoro ai numerosi concittadini disoccupati, senza nessuna alternativa.C’era una permanente situazione di contrasti sociali, di miseria familiare, di apatia generale, che parlare di animazione  artistica, letteraria, musicale, di storia e cultura cittadina, sembrava incomprensibile e assurdo da mettere in pratica. La maggioranza nemmeno sapeva per cognizione di fatto che a Roma e in altre parti d’Italia, ci fossero  dei concittadini che operavano secondo talento in quei campi del sapere creativo. Uno si dedicava alla poesia, un altro al cinema, altri alla pittura ed al canto, eccetera. Pochissimi lo sapevano, alcuni ne avevano sentito parlare, ma il resto della popolazione li ignorava o nemmeno sapeva della  loro esistenza. Eppure, nel clima di miseria economica e intellettuale, con le tante difficoltà di trovare lavoro per far fronte alla sopravvivenza  della  propria giovane  famiglia appena formata, Gino Marese ebbe il coraggio di gettarsi a capofitto nella sua impresa che subito fu definita “pazzesca”, prima dai propri parenti, considerata negativa nel coro di popolo. Ma egli, ignorando le malignità, volle dare una scrollata alla presunzione di quei girovaghi della cultura paesana, indignato dal disprezzo che manifestavano verso il proprio paese, ritenuto causa dei propri fallimenti, essendo sempre ignorati nelle scuole,  invidiati dai pochi amici, addirittura qualcuno disprezzato dai maldicenti che quotidianamente seminavano risentimenti ed  odio fra la massa dei concittadini.

Dapprima, si mise in contatto con un esperto organizzatore di manifestazioni artistiche e letterarie di risonanza nazionale, sia pure considerate minori, destinate ad autori poco conosciuti, rifiutati dalle logge di presuntuosi che si ritenevano grandi perché avevano in tasca una tessera di partito che ne faceva strumento di propaganda. E fra di essi c’erano alcuni suoi concittadini che ebbero appoggi e incarichi di partito, non per merito distinto ma quali intellettuali aderenti che ingrossavano i gruppi di potere nella spartizione di governo. E furono i primi a torcere il naso, subito informati su quanto stava accadendo nel paese, stupefatti che ci fosse qualcuno ad invadere i loro campi. E si trattava di un ragazzo senza titolo alcuno che osava troppo, sicuramente indegno di fiducia e destinato presto al fallimento, senza il loro appoggio. Tramando segretamente, esprimendo giudizi negativi, alimentando rancori e l’invidia dei pochi autodefinitosi grandi studiosi e intellettuali, senza mai dimostrarlo coi fatti. Alcuni lo avvicinavano subdolamente per esprimergli pareri negativi, alludendo ai grandi che potevano fare qualcosa per il paese, ma che ritenevano non ne valesse la pena. E senza appoggio d’un partito, senza mezzi economici, nulla si poteva fare. Ma lui, sordo,alla fine del 1969, a pochi mesi dal suo ritorno dalla Germania, fondò una Galleria d’Arte promuovendo la “Prima Edizione di un Premio Letterario e di Pittura e Grafica” al quale parteciparono artisti di ogni parte d’Italia, registrando un vero successo. Fu un avvenimento stupefacente, non credevano ai loro occhi i compaesani, nel vedere tante persone forestiere, ben vestite e di maniere affabili che affollavano la galleria d’arte stringendosi intorno a Gino Marese. Tutttavia, increduli, senza spiegarsi come avesse potuto ottenere tanta attenzione quel ragazzo senza titolo e nè parte, si assieparano curiosi all’ingresso del teatrino della chiesa messogli a disposizione dal giovane parroco, amico d’infanzia, anche lui subito manifestando ambizioni letterarie. Rimasero ancora piú sbalorditi,quando videro il sindaco con la giunta comunale al completo seduti al tavolo della giuria, mentre il parroco, sollecitato, si faceva rosso in viso nel rivolgere il suo saluto di benvenuto, non avvezzo a parlare al microfono e per la prima volta difronte a tanti sconosciuti provenienti da tutta l’Italia. Poi toccò a Gino Marese introdurre la cerimonia di premiazione, con un discorso forbito e accattivante. Tra uno scroscio e l’altro di applausi, dimostrandosi preparato ed abile oratore, nei suoi riferimenti alla storia ed alle tradizioni culturali del suo antico paese, con incitamenti alle autorità presenti per sensibilizzarle nel proseguire la valorizzazione della città. Riuscendo finanche a risvegliare l’orgoglio degli scettici concittadini che si unirono all’applauso. Qualcuno aveva pure le lacrime agli occhi. Nessuno avrebbe mai supposto che ciò fosse possibile in un paese in cui l’unico diversivo al duro lavoro quotidiano, per antica abitudine, era la partita di calcio domenicale, le lunghe sedute al bar per continuare i pettegolezzi lasciati in sospeso la sera precedente, o l’estenuante passeggiata fino a notte inoltrata per il corso principale, avanti e indré, mentre l’eco di scarponi e le sonore risate per le barzellette imbastite su questo o quel personaggio caratteristico del paese, rompevano il sonno agitato della gente stanca che voleva dormire.

All’improvviso si era verificato un fatto diverso che provocò il putiferio degli intellettuali scolastici o saccenti di strada, incompresi dalla massa popolare che sapeva solo ironizzare sui loro altezzosi comportamenti. Qualcuno, addirittura, dopo aver ascoltato Gino Marese, si mostrò grato e fiero, pur non riuscendo a spiegarsene la finalità, ben contento che per la prima volta qualcuno parlasse in termini elogiativi del proprio paese, fra tanta gente mai vista prima che applaudiva. Pareva una rarità conoscere i lati piú belli e la storia della propria città, compito che doveva essere svolto da anni dagli insegnanti scolastici, invece erano i primi a sconoscerla, parlandone sempre male, con disprezzo e  scherno dei compaesani perennemente scontenti, sviliti e delusi da una vita piatta e tribolata, nè pensavano a creare strutture sociali e culturali. Si facevano solo strumentalizzare dai partiti, per organizzare qualche esibizione fra essi interna alla scuola, rifiutando ogni altro che proponesse una manifestazione di più ampio impegno nazionale. Senza altri interessi.  oltre al proselitismo per accrescere le simpatie locali a fini di voti elettorali per poter spartire il potere politico negli affari amministrativi. Gli stessi elementi che già avevano una carica professionale, ambivano subdolamente tenere le mani in pasto piú che potevano, mai sazi di danneggiare altri colleghi incapaci della depredazione del paese.

Scoprire che Gino Marese avesse tanta abilità nel promuovere iniziative artistiche, letterarie e musicali, soprattutto dimostrarsi abile oratore in ogni occasione, destò meraviglia e un diffuso pettegolezzo generale, fra gli stessi parenti ed amici. Tutti lo avevano conosciuto per carattere piuttosto taciturno, durante la sua tribolata adolescenza e, inaspettatamente, stava rivelando talento personale che mai avrebbero supposto, guadagnando i consensi dei tanti concittadini che ne risaltavano le qualità eccezionali, per conoscerlo d’origine umile e senza avere frequentato scuole superiori. Tuttavia, anche da ragazzo si era sempre comportato distintamente in ogni occasione, svelto e simpatico, benvoluto dai campagni. Insomma era uno di loro che aveva tribolato parecchio ma sempre a testa alta.

Ma come?… Ci voleva uno senza titolo di studio,un poveraccio senza capitali e nè appoggi di potere, per realizzare manifestazioni del genere? Con tanti laureati e diplomati che c’erano nel paese, specie quelli che si vantavano di essere “uomini di cultura” camminando a testa alta per il corso senza degnare d’uno sguardo ogni altro, ma sempre con l’orecchio teso per ascoltare commenti ed apprezzamenti che nessuno sognava di fare su di essi. Anzi, qualche sguardo ironico glie lo rivolgevano i soliti maligni ai quali non sfuggiva ogni ridicolo comportamento dei passanti.

Un paio di cronisti locali, pure suoi coetanei ed ex compagni di scuola, diedero risalto ad ogni manifestazione sulle pagime di grossi quotidiani nazionali, suscitando un vespaio di commenti e di polemiche, specie in ogni ambiente provinciale. Fu una notizia bomba esplosa all’improvviso che poneva alla ribalta un paese in cui prima non succedeva mai niente che non fossero diatribe politiche e note sportive, o di qualche sporadico fattaccio di cronaca nera. L’inaspettata e intensa attività artistico-letteraria e musicale, fece indignare anche i dirigenti di alcuni circoli culturali di tutta la provincia in cui vantavano alti meriti e agganci di potere nella scuola e la politica di governo, ma si riducevano ad organizzare velleitarie manifestazioni locali, senza eco e nè futuro, accapigliandosi l’un l’altro nel vantare la propria supremazia intellettuale, quali geniali autori di grandi speranze artistiche ed editoriali mai concretizzate, anche potendo pagare di tasca propria.

In particolare, il successo di Gino Marese punse l’orgoglio di quei “rari intelletuali” che fingevano d’ignorarlo, rosi dall’invidia per sentirsi esclusi, i quali mestavano e rimestavano storiografie di parrocchia, con spasmodico affanno, impegnando il proprio stipendio annuo per pagare le tipografie, per esaltare personaggi ecclesiastici del medioevo e del rinascimento, specie del  brigantaggio borbonico. Senza nuovi documenti, ma con la stessa retorica leggendaria plagiata e ripetuta fino alla nausea. Poi, si facevano collocare nelle vetrinette i libri  in bella mostra, privilegiati dall’edicolante per la loro posizione scolastica che poteva essere utile per la vendita del materiale didattico ai propri alumni o studenti e, infine, passavano e ripassavano per riempirsi gli occhi con i loro nomi in copertina, sperando che qualcuno acquistasse il proprio capolavoro. Ma, salvo qualche amico o compiacente che andava a comprare una copia, senza leggerlo fino in fondo, essendo materia incomprensibile per le masse illetterate, il resto rimaneva a impolverarsi e deteriorarsi, anche per i pochi che amavano la lettura ma non avevano mai  i soldi sufficienti.

Intanto, Gino Marese, confortato da quel primo successo,intensificò l’attività di galleria con mostre personali e collettive di pittori poco noti ma che esprimevano quel talento autentico assente in tanti “ufficializzati dalla critica prezzolata” nei circoli del potere nazionale. Periodicamente nelle pagine dei maggiori quotidiani italiani e in molte riviste specializzate che lui andava interessando con la propria collaborazione, risaltavano le sue iniziative che portavano lontano il buon nome del paese. Anche in molti circoli romani se ne parlava, come nei salotti che frequentava un noto poeta concittadino chi manifestò la propria contentezza per l’inaspettato evento. E volle scrivergli per complimentarsi ed esprimere il suo personale augurio di buon lavoro ché, per la prima volta nel suo paese in cui lo avevano bistrattato, si realizzavano buoni risultati nei campi dell’arte, la letteratura e la musica, visto l’esito di quella prima convincente prova. Durante una collettiva di pittura e grafica, nell’affollamento di persone provenute da ogni dove, c’era anche il pittore compaesano proveniente dalla capitale, ormai curioso di appurare la validità di quell’evento di cui tanto si parlava e rendersi conto della capacità di quel ragazzo al quale aveva negato la sua credibilità.

In quell’occasione, silenzioso nell’affollata galleria, si rese conto che si trattava di una valida azione culturale, ma non voleva avallarla con un suo apprezzamento. Una volta fuori e contornato dagli intriganti che chiedevano il suo parere, espresse ancora il suo gudizio negativo. Disse che si trattava di un velleitario dilettantismo di provincia, come ce n’erano tanti, di chi voleva invadere un campo riservato ai pochissimi artisti affermati in campo nazionale. Lo considerava una spora nel sottobosco culturale di paese, quel ragazzo  con la faccia tosta che si avventurava nel difficile mondo dell’arte, senza  nemmeno sottomettersi ai “grandi maestri”, come lui si considerava. E non poteva perdere tempo, con i tanti impegni che aveva anche nel partito al quale aveva aderito opportunisticamente, ricevendone in cambio incarichi lucrosi. Quel ragazzo non poteva avere suc-cesso  in quell’attività non adatta alla sua preparazione e capacità; era un’assurdità, una follia, voler affrontare un’impresa riservata a pochi e lui era persona senza titoli, economicamente e socialmente svantaggiato. Tuttavia, il suo astio derivava, dall’affronto ricevuto  dal ragazzo che lo smentiva con le concrete iniziative che trovavano appoggio di personaggi importanti dell’arte e della letteratura italiana e se ne parlava sulla stampa. Non riusciva a spiegarsi come facesse. Lui che aveva studiato all’Accademia di Belle Arti e che da quarant’anni trafficava nei salotti della capitale, quel giorno provava disagio nella galleria, fissando il giovane concittadino da dietro la sua cinica maschera, ma non disse parola. Mentalmente si fece una domanda: “Ma da dove è sbucato questo ragazzo? E inoltre, con quale ardire si era rifiutato di asservirsi all’unico “pezzo grossso della politica e della cultura” del paese collegato con il governo pentapartitico, mentre lui si vantava di esserne amico fraterno e beneficiato speciale. Mentre quel ragazzo non voleva proprio saperne di assoggettarsi alle direttive di chiunque, mostrandosi quasi anarchico, rifiutando di far parte di qualsiasi partito ed essere libero nell’operare secondo le proprie idee. E lo dimostrava con i fatti, in ogni iniziativa che portava a termine con successo in campo artistico, letterario e musicale, avvalendosi di personaggi di riconosciuto valore, al di là di ogni appartenenza politica.

Anche nella prima stagione concertistica, arrivarono noti musicisti internazionali che aumentarono la meraviglia dei concittadini. Fra il numeroso pubblico partecipante, si notava l’assidua presenza del Prefetto, concittadino e amico del presidente dell’associazione che si diceva entusiasta per la presenza degli applauditi grandi interpreti della musica classica che nemmeno nel capoluogo riuscivano a contattare, pur avendo una scuola di musica comunale. E siccome , nel contempo, si stava quasi per concepire la nascita in loco d’una sezione staccata del Conservatorio Santa Cecilia di Roma, come già annunciato dalla stampa, il Prefetto cercava anche lui di boicottare, tirando per la giacca l’amico compositore delegato dal Ministero della Pubblica Istruzione. Gli sussurrava all’orecchio di optare per il capoluogo dove già c’era un’affermata scuola comunale di musica, dove sicuramente avrebbe buone adesioni e un pubblico culturalmente preparato che non in quell’entroterra di contadini ossessionati dalla terra. E il presidente rimaneva lusingato per l’autorevole invito, tuttavia perplesso, poi si rivolgeva a Gino Marese fissandolo interrogativo, dicendogli: “Che devo fare?…”

“No, maestro, il capoluogo di provincia sta a un tiro di schioppo da Roma, ben collegato con i mezzi di trasporto e in mezz’ora, comodamente, si può raggiungere il Conservatorio. Qui, invece, a metà strada da Roma e Napoli, storicamente ci sono tante difficoltà per frequentare i conservatori, specie dai meno abbienti, salvo che per qualche figlio di papà. Prima di tutto, perché il nostro è un mandamento popoloso ricco di talento e di passione autentica per la musica che investe molti comu-

  1. Sono zone storicamente di negazione e impedimenti all’istruzione popolana senza possibilità di frequentare nemmeno le scuole primarie. Figurarsi se potessero seguire studi superiori di musica nei Conservatori, recarsi a Roma o a Napoli, lontani equamente dai loro paesi secolarmente emarginati dai progressi culturali nazionali. Eppure, c’era la dimostrazione lampante del loro genio musicale, manifestato anticamente dalle Bande Municipali. Nate molto prima della nuova provincia, che si componevano di musicisti semianalfabeti, poveri artigiani suonatori “ad orecchio”, che tuttavia esprimevano autentica passione, una capacità superiore ai pochi diplomati che a malapena battono i polpastrelli sui tasti scordati di un pianoforte a muro o insozzavano di saliva le ancie degli strumenti a fiato…”

Il presidente dell’associazione musicale, vanamente tirato per la giacca dal prefetto, assentiva compiaciuto dalle motivazioni del segretario  che rievocava accoratamente la fertile genialità della popolazione ausonica e aurunca, come l’aveva anche lui, pur storicamente oppressa da un potere politico di privilegiati, di sfruttamento generale e negatività dei diritti costituzionali per tutta la popolazione.

“Si, si, è qui che dobbiamo istituire una sezione staccata del Conservatorio, c’è molto talento musicale, io lo so, e dobbiamo incentivarlo e promuoverlo…Vedi la storia di Severino Gazzelloni…”

Ma alla fine tutto svanì. Tanto avveduto impegno, tanta passione profusa per realizzare una scuola superiore di musica a portata di mano, accessibile a tutti coloro che ne avessero talento e  volontà di perfezionamento con lo studio serio per realizzare una professione congeniale, fu bloccato da oscure manovre di ricatto politico-elettorale. Piccoli lestofanti che lucravano con l’empirico inse-gnamento privato, senza un’adeguata preparazione e capacità che portasse a realizzare il talento d’un solo giovane, anzi, logorandolo e svilendolo anche fisicamente. Intanto, ostacolando ad arte ogni progresso cittadino, ricattando con pacchetti di voti elettorali.

Dopo aver annunciato la sospirata inaugurazione, tutto finì nel vuoto, mentre nacquero i Conservatori di Frosinone e Latina, anche con l’aiuto dell’associazione musicale benemerita il cui presidente era convinto assertore per offrire la possibilità di studiare la musica in ogni povincia italiana. Il paese, da quasi tutti ritenuto negativo ad ogni innovazione, particolarmente  refrattario a quelle iniziative, invece, stava rispondendo positivamente. Anche i piú semplici concittadini privi d’istruzione basilare, si esprimevano con giudizi favorevoli. Per la prima volta arrivava gente diversa, personaggi che apparivano nella televisione nazionale, e che potevano vedere e toccare da vicino, con belle foto di scena nelle bacheche e articoli di giornale in cui risaltava il successo della nuova e qualificata vita culturale del paese. E si ricredevano per l’assurda, ostinata negatività che avevano per il proprio paese, anche deplorando coloro che vantavano meriti intellettuali e ne sparlavano sempre, continuando nel loro disprezzo per ogni altrui iniziativa. E proprio per questa ottusa mentalità, Gino Marese s’impegnava piú caparbiamente per smentirla. Non accettando, soprattutto, che fosse proprio il pittore compaesano che esprimesse anche per scritto il proprio giudizio negativo verso le manifestazioni artistiche che si realizzavano, invece di esserne contento, in quanto grazie ad esse si parlava di piú della sua opera sconosciuta alla maggioranza della popolazione. Ma egli era rimasto bastonato, senza trovare parole per dare una risposta adeguata a quel ragazzo che seppe colpire profondamente la sua boria, ed aveva ragione. Ma l’evidente egocentrismo del pittore era piú forte della sua ragione e non  avrebbe mai accettato lezioni da un giovane  senza titoli da vantare,che aveva osato sí temerariamente smentire lui che si considerava ormai un personaggio di spicco dell’arte italiana. E non accettava di essere smentito dai fatti, lui che vantava una cultura superiore, metropolitana, e un’infallibile capacità di giudizio. In quell’occasione, invece, dimostrò di non aver superato la tipica mentalità paesana, fatta di vanagloria, pregiudizio e ostracismo individuale. Pertanto, conservando nella memoria un’immagine “aspra e negletta” del paese natio, se ne considerava al di sopra, non voleva abbassarsi dal suo alto livello, a parole, non con i fatti, dimostrando di non essere mai uscito dalla mediocrità. Ma come i suoi pochi compagni di ventura, un giorno lontano partiti alla conquista di Roma, pensava di aver toccato cime irrangiungibili da altri e non era disposto a ridiscenderle per appoggiare velleitarie manifestazioni provinciali che ledessero il proprio prestigio. Intanto, l’attività di Gino Marese s’intensificava fra mostre personali e collettive, puntualmente in risalto sulle pagine proviciali di quotidiani lette e discusse anche nella capitale. Tanto che, un noto operatore romano volle andare a rendersi conto dell’effettiva validità. Arrivando alla chetichella, entrò nella galleria, disinvoltamente, dando un’occhiata esperta alle opere appese alle catenelle  delle pareti, poi si presentò: “Vengo da Roma, sono direttore di una galleria in Piazza di Spagna. Complimenti, vedo che ci sono buone cose e le premesse per sviluppare una valida attività, anche per stimolare il mercato dell’arte. A Roma siamo saturi e, forse, uno sbocco in provincia può dare ottimi risultati, quando c’è un pomotore valido come lei. Me ne ha parlato bene il poeta suo concittadino incontrato l’altra sera nella mia galleria per presentare una personale.Lui è persona molto seria e colta che sa giudicare poisitivamente.Ma il pittore concittadino le dà una mano?…” Gino Marese, mostrandosi grato per quella visita inaspettata, soprattutto per avere la conferma del giudizio favorevole del poeta concittadino che già gli aveva scritto per complimentarsi, rispose garbatamente, senza mostrare segni di rancore: “Veramente, è stato qui durante una mostra collettiva, quasi volesse nascondersi fra la folla, poi fugacemente mi ha dato la mano ed è andato subito via per impegni. Dopo, ogni volta che l’ho invitato, non ha mai risposto…” Il gallerista romano scosse la testa, con una smorfia di disappunto per l’atteggiamento negativo del pittore che lui aveva pin contratto per poche migliaia di lire fra  i suoi fornitori di opere figurative, piú o meno valide, che riusciva a vendere alla sua clientela borghese. E, in verità, in quel momento, non erano molto richieste. Poi, rivolgendosi a  lui disse: “Non riesco proprio a capirlo, quell’uomo. Ogni volta che si parla del suo paese, gira la testa dall’altro lato. Eppure, si tratta di un paese in cui c’è molta ricchezza e movimento commerciale, io lo so…ero molto amico dell’ingegnere scomparso per incidente autobolistico e spesso venivo invitato…Lui, invece, quasi se ne vergogna e rifiuta di parlarne…Bene, ora ho capito, amico vada avanti, non si scoraggi mai…Anzi,mi venga a trovare per parlarne meglio…” E lo salutò cordialmen-te con la promessa di rivedersi a Roma, facendogli capire di volerlo aiutare. Infatti, Gino Marese non tardò a visitare l’affermato gallerista romano nella sua antica casa sul Palatino che lo accolse insieme alla moglie con affabilità e cortesia. Parlarono della possibilità che si profilava nel paese in cui, all’epoca, si costruivano a pieno ritmo decine e decine di ville e palazzi moderni in cui sicuramente si potevano collocare  opere di validi pittori, il che era anche un buono e sicuro investimento. Lui ne era ben consapevole, valutando una crescita sicura del paese, nei viaggi esplorativi fra le nuove urbanizzazioni. Ed alla fine del discorso, voleva affidargli una partita di opere appese alle quattro pareti lungo lo scalone di legno all’interno che girava intorno al  piano superiore. Erano disegni a pitture di artisti che andavano per la maggiore, come De Chirico, Mafai, Rosai, Guttuso, Vespignani ed altri; una trentina di opere in tutto di cui Gino Marese non volle prendersi la responsabilità, consapevole delle quotazioni proibitive, impossibili da realizzare nel suo paese. Ma il gallerista romano insisteva, sollecitandolo a portarsele senza timore e senza impegno chè non c’era fretta e sicuramente avrebbero richiamato l’attenzione degli amatori. Ma lui non volle farsi carico di quella responsabilità, pur apprezzando molto il gesto e la fiducia del gallerista romano che voleva aiutarlo, quasi per impartire una lezione al ritroso e vanitoso pittore concittadino. Decisivo fu l’intervento della moglie che non volle disfarsi di quelle opere che, disse, erano doni personali degli amici artisti. E Gino ne fu sollevato, traendo un sospiro liberatorio, ringraziando per la squisita ospitalità e congedandosi, prendendo la via del ritorno.

 

QUARTO CAPITOLO

Egli continuò l’opera pionieristica in quei campi, sentendo crescergli la passione, a suo agio  nei contatti sempre piú importanti e le esperienze positive e negative. Per carattere, dotato di una naturale disinvoltura, non dava mai troppa importanza alle sfrontatezze e posizioni preconcette che taluni volevano esprimere, solo per millantare una cultura superiore che non avevano. Immune dai bassi sentimenti, come invidiare e odiare nessuno, ma sempre aperto alla solidarietà, consapevole di dover continuare per il suo duro cammino di vita irto di ostacoli, senza fretta e nè ambizioni smisurate. Ed ebbe la forza di  affrontare e superare i grossi sacrifici, sorretto dall’amore della moglie e dei figli che privava di una sicurezza economica per vivere giorno per giorno secondo la possibilità. La sua bella famigliola che cresceva nutrita dell’essenzialità materiale ma con lo smisurato amore  e nella moralità di una madre  esemplare, senza mai un lamento verso il padre che pure li amava mutamente, spesso abbracciandoli con gli occhi sbarrati dalla tristezza. Lo assalivano momenti di sconforto per non poter dare ad essi sicure prospettive per il futuro, con gli scarsi guadagni che portava a casa. In quell’epoca,  nel paese in cui la maggioranza delle  famiglie viveva in vecchie ed anguste case, oppresse secolarmente dai problemi esistenziali, non avevano proprio la necessità di arredarle con opere.  A malapena  appendevano ai vecchi muri  ingiallite foto di famiglia e immagini di madonne  e  dei santi per la devozione, essendo difficile anche inchiodare un gancio ai fatiscenti intonaci. Perciò, consideravano superflua qualsiasi spesa per l’acquisto di un quadro, sia pure di costo modesto. Ritenevano anche troppo cara mettere una decente cornicetta a un ritratto di famiglia. Questa la situazione in cui egli si dibatteva, accettando ogni piccolo guadagno possibile, senza mai negarsi e svolgendo altri servigi di scrittura  a quanti si rivolgevano a lui sapendolo capace e pronto per ogni cosa che sapesse fare. Spesso accompagnava in macchina persone per il disbrigo di pratiche negli uffici provinciali o nella capitale. E così, tra alti e bassi, riusciva a far fronte con difficoltà alle spese di affitto sia per la casa che per la galleria, per l’elettricità, telefono e gas, per la benzina dell’auto, spesso costretto a contrarre debiti gravati da interessi di rinnovo. Insomma, una situazione in cui si dibatteva caparbiamente, riuscendo a portare avanti la sua famiglia con dignità, senza mai scoraggiarsi o ricorrere a compromessi politici, ormai conosciuto e additato da tutti i partiti che tentavano invano d’inquadrarlo nelle proprie file. Con la sua concreta azione culturale, dando prove sempre piú valide che ne accrescevano l’immagine geniale nell’opinione pubblica, anche se non mancavano  le critiche velenose di pseudo intellettuali, e di un gruppetto di poeti da marciapiede. I soliti perditempo che passeggiavano avanti e indietro per il corso in accese discussioni gridando la propria sapienza e denigrandolo a mò di barzelletta, in modo che gli astanti le sentissero e riportassero di bocca in bocca.

Egli non finiva mai di stupire i suoi concittadini, accrescendo intorno a sé elogi e rancori, increduli e interrogativi degli impiccioni che volevano sapere quanto guadagnasse e come facesse per mantenere la famiglia, ormai convinti che conducesse una bella vita, sempre ben vestito e contornato da amici importanti, di donne profumate che periodicamente giungevano per i concerti o per mostre di pittura. Contemporaneamente aveva fondato una rivista affiancando un’intensa attività pubblicistica prevalentemente artistica, letteraria e musicale, con la cronaca sulle manifestazioni locali, ma anche provinciali e nazionali. Infine, estesa alla pubblicità dei partiti nelle elezioni amministrative, senza mai manifestare una sua preferenza. Nei primi anni si era fatto convincere da un coinquilino di aderire a un partitino di centro di cui era segretario un borioso ritenuto dall’opinione pubblica un pezzo grosso della politica e della cultura, unico nel paese, che poteva ben aspirare alla carica di parlamentare. In realtà, era un uomo tronfio, irascibile, che s’inalberava scontrandosi con tutti, convinto di poter  strumentalizzare e sottomettere chiunque, senza mai accettare l’opinione altrui. E per questo,  Gino Marese ben presto se ne allontanò, dopo avergli manifestato apertamente il proprio dissenso, rifiutando persino un posto ministeriale come dattilografo, a condizione che accettase le sue direttive e di dare un sostegno mensile al partito. Un ricatto inaccettabile, anche in rapporto all’esiguo stipendio ed alla precarietà dell’impiego, il che rifiutò dicendogli che lui sapeva fare molti mestieri e non era tagliato a stare carcerato in un ufficio per sopravvivere alla mercé di nessuno. Rifiuto che fece infuriare il tronfio segretario e da quel giorno lo ebbe nemico ma impotente  a danneggiarlo politicamente, cercando in tutti i modi di ostacolarlo e negargli l’appoggio comunale ad ogni  iniziativa che proponesse. Ma lui non se ne doleva, sicuro di andare avanti con l’adesione di personaggi ben piú importanti e concreti. Non avendo bisogno di quel borioso di provincia che recalcitrava aspirando al potere di governo, ma subendo solo sconfitte e delusioni. Oltre che procurarsi il disgusto dei colleghi di partito, costretti a tollerarlo solo per il pacchetto di voti preferenziali che riusciva a racimolare nel paese, insufficienti, però, per potersi sedere alle poltrone del Parlamento per condividere le decisioni del potere. Tuttavia, lo collocavano a malincuore in posti anche importanti, nella spartizione del governo pentapartico, per carenza numerica di rappresentanti qualificati, per cui, dopo che deputati e senatori si accaparravano i piú importanti incarichi di potere, il resto lo lasciavano agli altri, in rapporto alla quantità dei voti portati al partito. Ma tutto questo oscuro meccanismo era sconosciuto alle masse degli elettori, nel gioco ricattatorio fra le maggioranze della politica  e le minoranze determinanti per la formazione di un governo,  in cambio di poteri  che i lestofanti usavano per l’illecito  arricchimento personale calpestando le speranze e le necessità del popolo.

Uno di loro era proprio quel segretario locale che minacciava calci nel sedere a tutti, sempre piú indignato e deluso, ogni qualvolta si canditava, sperando di essere eletto per sedere alla camera dei deputati, forse del senato, senza però ottenere mai i voti necessari. A parte l’accanita lotta dei  rivali, non riusciva a conquistarsi le simpatie fra la massa degli elettori. Una massa di ignoranti, così diceva anche lui, che non sapevano capire le sue doti di politologo, quale esponente di rango destinato al parlamento europeo, per cui stava scrivendo un libro di analisi sulla politica dell’Europa Unita che avrebbe fatto scalpore. Invece,  quella massa di pecoroni non riusciva a capire la sua grandezza. Gonfio di livore gridava vendetta nei circoli di ruffiani politici del paese dove era immigrato da bambino e che crescendo con la sua boria riusciva solo a procurarsi antipatie, anche tra i pochi amici e colleghi, poco considerato nel suo partito al governo.

Gino Marese l’appurò un giorno che fu invitato a una serata letteraria in un salotto di Roma. Nell’entrare, molti dei presenti gli si fecero incontro abbracciandolo cordialmente e ringraziandolo per essere  presente. Artisti, poeti e scrittori che avevano già  partecipato alle sue manifestazioni o che collaboravano dalla capitale con la sua rivista conosciuta ed apprezzata in molti ambienti  per l’apertura ai nuovi e validi autori, senza  preclusione alcuna di carattere critico o politico. Nel salotto romano, quel giorno c’erano molte belle persone che lo attorniavano e lui si muoveva a suo agio, discutendo affabilmente, dimostrando loquacità e simpatia, disinvolto com’era nella sua natura. Il salotto era zeppo, brulicante di voci che si amalgamavano in ogni angolo. Molti erano gli intervenuti che si appoggiavano alle pareti, fra i quali notò un uomo che indossava un abito marrone come il cappello a larghe tese, tipico dei mandriani del mondragonese che lui sapeva ben distinguere. Si rese conto che lo stava fissando da un pezzo, colpito dai suoi movimenti, dalla disinvolta cordialità e simpatia che  manifestava con tutti. Quello sconosciuto, incuriosito, fece in modo di avvicinarlo e senza preamboli gli domando:

“Scusi, lei vive a Roma? Vedo che gode di molta familiarità in questo ambiente e con evidente successo…”

“No, io vengo da Fondi. un paese in provincia di Latina dove ho una galleria d’arte, sono stato invitato dagli amici per questa serata…”

“Ah, allora conosce sicuramente il segretario di sezione del mio partito che è canditato al parlamento?…”

“Si, lo conosco, ma non ho piú rapporti con lui, ho provato ad appoggiarlo, anche procurandogli molti voti, ma mi sono reso conto di non poterlo piú sopportare…”

“Lo so, lo so, lo conosco anch’io…Io sono l’onorevole Capoccini, membro della direzione nazionale del partito…Quello è un tipo arrogante, litigioso, anche quando viene alla direzione del partito minacciando sempre di dare calci nel sedere a tutti. Pretende incarichi impossibili, sbandierando un misero pacchetto di tessere…Lo lasci perdere, se ne venga a Roma nella mia segreteria, ho bisogno di persone preparate come lei che si muovono bene fra la gente…”

“Onorevole Capoccini, non posso,  si già la conoscevo di nome, ma non posso accettare, sono molto impegnato nel mio paese e vivo a stenti con la mia famiglia, non ho la possibilità di affrontare le spese di trasferimento…”

“Ma no, se farà parte dei miei collaboratori, nei primi tempi lei solo si sistemerà nel mio ufficio dove ci sono molte stanze disponibili, poi, poco a poco, dimostrandomi la sua capacità e lealtà, vedrà le si apriranno grandi possibiltà e potrà decidere per il trasferimento della famiglia…Vuol dire che provvisoriamente la vedrà nei fine settimana, come faccio io e tanti uomini politici…Incluso quel presuntuoso del segretario suo compaesano…Anzi, se viene con me, farò in modo da commissariare la sezione del suo paese e darò la delega a lei per rifare un nuovo direttivo…Ci pensi bene e mi venga a trovare al piú presto possibile…”

Gino Marese rimase un attimo silenzioso, senza nessun stimolo di accettare quella proposta, ritenendosi incapace di svolgere attività politica, di gettarsi in quella bolgia di assatanati e perdere la sua libertà di pensiero e di azione. Salutò l’onorevole Capoccini con la vaga promessa di riparlarne, abbracciò cordialmente tutti gli amici e fece ritorno a casa nel calore della propria famiglia.

Di quella proposta non disse mai niente alla moglie, sapendo che pure nelle ristrettezze si sarebbe opposta, per lei andava bene come stava, pur nelle difficoltà quotidiane che crescevano. Così, lo avrebbe tenuto stretto a sé, morbosamente gelosa, ogni volta imbronciandosi, quando lui era impegnato nelle sue manifestazioni locali  e contornato di gente sconosciuta, particolarmente di belle ed eleganti donne che arrivavano e doveva accompagnarle in giro. C’era sempre qualche intrigante e sadica linguacciuta che andava a riferirle di averlo visto in bella compagnia, come succede nei paesi in cui tutti si conoscono e nessuno sfugge al pettegolezzo. Puntualmente,  doveva affrontare il disappunto della moglie, sempre rosa dal dubbio e dalla gelosia, non accettando alcuna spiegazione, non riuscendo a capire che per lui si trattava solo di svolgere il ruolo di ospite in relazione alla sua attività.  Era  piú  atroce il suo dubbio quando lui partiva per andare a ricevere un premio per la sua partecipazione personale alle manifestazioni artistiche, giornalistiche e letterarie, spesso nei luoghi piú lontani dove soggiornare qualche notte. A volte, era costretto a rinunciare per quieto vivere, anche non potendo far fronte alle spese di viaggio sottraendole alle esigenze di famiglia. Insomma, una sorda, talvolta esplodente battaglia, sia per il chiodo fisso della moglie che dubitava della sua infedeltà, sia per le precarie condizioni in cui versavano. Tuttavia, lui andava avanti arrangiandosi in mille modi per portare a casa saltuari miseri guadagni, soffrendo in silenzio per settimane, quando non poteva disporre nemmeno di cento lire da dare ai figli. Lo confortava, tra alti e bassi, la forza di sopportazione e la capacità della moglie che sapeva provvedere alle  quotidiane esigenze, con l’aiuto discreto dei genitori, accudendoli con sviscerato amore, come profondo ed esclusivo nutriva per lui. Aveva un amore sincero, un legame forte e indistruttibile, per il quale riusciva a superare ogni difficoltà d’una vita tribolata, pure nella sua ostinata diffidenza, perfino dubitando che lui non l’amasse veramente. Non riusciva a convincerla, spesso ripetendogli che non si spiegava perché l’avesse sposata se non l’amava. Nè lui, nei tormentati momenti, trovava  parole per farle comprendere che l’aveva scelta fra le tante donne conosciute,rifiutando i compromessi di comodo e aiuto ecomico offertogli. Nella piena convinzione di scegliere liberamente un suo cammino di vita, affrontare e superare qualsiasi ostacolo, fino a raggiungere un proprio traguardo ideale. E lei era la donna senza pretese, innamorata profondamente, che lo aveva accettato com’era. Così come lui l’amava a modo suo, senza troppe parole, a causa delle difficoltà che spesso lo rendevano taciturno, afflitto dalle amarezze quotidiane, senza potersi sfogare con lei il cui unico assillo era il dubbio di non essere amata e la precarietà economica in cui vivevano. Aspirava ad una vita semplice, senza problemi esistenziali, in contrasto con le ambizioni artistiche e letterarie del marito, ben contenta se si adattasse a fare un qualsiasi lavoro, anche fra i piú umili, data la carenza di strutture industriali nel paese, purché portasse a casa un salario fisso. Insomma, una donna di poche pretese, che non aveva sogni particolari, al contrario di lui che li faceva ad occhi aperti, pur immerso nello scoramento per la realtà che lo circondava, insonne nelle lunghe notti in cui smaniava di essere inondato dalla luce di una nuova alba.

Nel frattempo, considerando positivamente quelle iniziative e l’affluenza di persone mai viste prima e che affollavano alberghi, trattorie e bar, inoltre dando lustro al paese, il sindaco in carica lo  invitò al comune per discutere sul da farsi. Era stato anche lui un compagno di scuola al quale, spesso, fece compiare i temi d’italiano, che allora teneva strette le redini della Giunta Amministrativa. Anche lui, prima di colarsi anima e corpo nella politica, aveva organizzato manifestazioni teatrali e musicali con amici appassionati. Ma poi, le aveva accantonato per dedicarsi in pieno al partito. All’inizio, lo avevano messo da paravento come commissario della sezione, al fine di placare l’ira dei vecchi maneggioni litigiosi che periodicamente causavano la caduta del consigli comunali per rifarne altri con chiunque fosse disponibile ai compromessi. Il maggior partito dell’epoca, in cui c’era un’aspra lotta interna per il potere, mai condiviso con tutto il direttivo, grazie ai nominati di comodo consenzienti ad appoggiare ogni decisione suprema. Alla fine, per colpa di due o tre personaggi che si alternavano nella carica di sindaco o di assessore, in quella sezione si registrarono risse continue, per cui fu nominato commissario, ritenendolo un giovane timido che non avrebbe dato problema alcuno, in attesa che si appurassero le cause della cattiva e personalistica gestione, al fine di nominare un nuovo segretario con il  direttivo.

Gino  Marese conosceva bene quel compagno di scuola e di strada che diventò sindaco mentre lui era emigrante. Aveva l’aspetto di un ragazzo bonaccione, timido, innocuo, con un sorrisetto ironico sempre a fior di labbra, che nascondeva la furbizia di un monaco spogliato. Poi, rivelò una scaltra capacità di attorniarsi di molti poveri  cristi  che accrescevano il proprio pacchetto di tessere di partito che lui stesso pagava, in cambio di aiuto personale e un posto di lavoro adeguato per molti padri di famiglia. In verità, così operando, aveva risolto molte situazioni di povertà, assicurandosi la devozione assoluta e una forza elettorale superiore a qualsiasi altro canditato del suo partito. Insomma, il ragazzo dall’apparenza innocua, aveva gabbato finanche le manovre della direzione provinciale, garantendosi i favori di alcuni deputati  al governo eletti con l’apporto determinante dei suoi voti e obbligandoli a ripagarlo con qualsiasi appoggio. Quel sindaco, ormai insediato da parecchi anni, aveva consolidato il potere che gli consentiva di dominare nel paese. Fu contento di aver ritrovato il compagno di scuola dopo tanti anni e che dimostrava capacità organizzativa in campi prima ritenuti impossibili da praticare. Voleva offrirgli il patrocinio del comune costituendo un Comitato Promotore per la  programmazione annuale delle varie manifestazioni cittadine.

Alla prima riunione dell’Aula Consiliare con tutta la Giunta presente al completo, partecipò su invito anche il pittore concittadino venuto apposta da Roma. Naturalmente riverito da tutti, che si sforzava di dissimulare la sua vanità ed il disappunto per dover trattare alla presenza di  quel ragazzo che considerava poco qualificato. Ma fu proprio Gino Marese che scaltramente lo propose quale presidente del nascente comitato, adducendo che fosse il piú qualificato e rappresentativo. Cosa che lui non si aspettava ma accettò gongolante e profondendosi in mille ringraziamenti per la stima che gli dimostrarono con un applauso tutti i presenti, compreso l’amico pezzo grosso che, invece, avrebbe voluto lui essere presidente per manipolare a suo lucro. Infatti, aveva lo sguardo vago e dilatava la bocca in un sorriso amaro, degluttendo saliva, ma non disse parola. Sapeva che quel pittore che lui strumentalizzava per fini politici viveva a Roma e non aveva tempo nè voglia d’impegnarsi per il proprio paese, mentre per lui che vi risiedeva il Comitato sarebbe stato un mezzo per accrescere la sua schiera di elettori. Inoltre, poteva eclatantemente dimostrare la sua figura d’uomo di grande levatura culturale, oltre che mettere le mani nei finanziamenti. Per cui, dopo aver manovrato il pittore convincendolo a rinunciare alla creazione del Comitato, che non sarebbe servito a niente in quel paese di “contadini analfabeti”, alla seconda riunione si fece delegare per scusarlo del rifiuto alla  carica di presidente, essendo troppo impegnato nella sua carriera. Così, l’ambiguo politico che aveva peso nell’amministrazione comunale, fece capire che si doveva  escludere quel ragazzo insolente che voleva distruggere per toglierselo dai piedi.

 

 

QUINTO CAPITOLO

Quel giorno, nell’Aula Consiliare, dopo l’introduzione del sindaco che si diceva entusiasta delle premesse che c’erano per sviluppare nel paese una valida azione turistica e culturale, non perse tempo a prendere la parola il “pezzo grosso” della politica. Disse di essere portavoce del pittore, definendolo ipocritamente “amico fraterno”, che in verità si era lasciato strumentalizzare in cambio di alcuni incarichi avuti dal partito. Con ampi gesti plateali e ghigni da gorilla, abituato agli sproloqui nei comizi di piazza, convinto di possedere l’arte oratoria, dimostrò di voler stroncare quell’iniziativa sul nascere, così poteva vendicarsi anche degli affronti subiti da quel ragazzo che non voleva assoggettarsi alle sue direttive. Addusse che il pittore, secondo quanto asseriva, era “d’accordo con lui”, non diceva mai che fosse lui ad essere d’accordo con qualcun’altro, ritenendo che non servisse a nulla organizzare manifestazioni artistiche, letterarie e musicali in un paese di contadini che avevano ben altri problemi. Inoltre, non c‘erano le premesse per sviluppare un “redditizio mercato di quadri”. Per lui, il mercato, occupava sempre il primo posto nella sua mente. Oltre tutto, lui e il pittore appartenevano alle alte sfere dei collezionisti e mercanti d’arte, i quali particolarmente, scartavano il “sottobosco culturale provinciale” di cui non approvavano il velleitarismo. Nessuno, specie i non qualificati, doveva permettersi di profanare il tempio della sapienza in cui c’erano loro quali grandi sacerdoti. Specie certi individui presutuosi che non avevano titoli .
Era chiara l’allusione a Gino Marese che se ne stava calmo e silenzioso, tuttavia pronto a scagliare una sedia in testa al tronfio politicante che si reputava un qualificato addetto ai lavori, fra le menti piú illuminate d’Europa. Nella sua carta intestata evidenziava titoli di giornalista, scrittore, esponente della sezione cultura della direzione nazionale del partito, chi, finanche, aveva pubblicato un libro di poesie illustrato in copertina con un brutto disegno dell’amico pittore. Perciò, non poteva proprio accettare di discutere allo stesso tavolo abbassandosi al tale livello dei mediocrità.
Gino Marese lo lasciò sfogare fino in fondo, senza scomporsi, mostrando indifferenza per quel vaniloquio, rendendosi conto affettivamente della grettezza mentale di quell’individuo che da vent’anni prendeva in giro i suo scarsi elettori, sopportato dagli ignoranti dei partiti rivali nel consiglio comunale il cui unico scopo era quello di spartirsi gli sporchi affari. Mentre lui inveiva contro tutti nel paese ché non sapevano capire la sua grandezza cultural-politica, negandogli da anni i voti necessari per essere eletto alla camera dei deputati. Per cui cresceva la sua ira,in ogni occasio-ne gridava furente, nei comizi e nei capannelli dei ruffiani di piazza, nella sezione del suo partito in cui sopraffaceva con arroganza ogni timida opinione degli iscritti. Insomma, non aveva qualità per avere successo in politica, non aveva garbo o la scaltrezza necessaria per conquistarsi le simpatie e la fiducia degli elettori, era come i tanti che con ipocriti sorrisi e false promesse raggiungevano le alte vette nel governo. Lui pretendeva solo sedere al parlamento per millantati meriti eccezionali e sottomettere tutti al suo potere nel paese, anche per far sentire il suo peso nella direzione del partito per i suoi alti meriti. Così come si vantava, ogni volta che si facevano le frequenti campagne elettorali, pur subendo puntuali sconfitte.
Ciò considerato, in quell’Aula Consiliare in cui rimbombava solo la sua voce, mentre il sindaco e tutta la giunta comunale tacevano annichiliti, Gino Marese prese la parola. Disse che non si spiegava il perché un uomo colto come lui e che perfino aveva pubblicato un libro di poesie, fosse tanto avverso alle iniziative culturali in favore del paese. E che a lui non importava assolutamente niente di dover sedere fra cotanto senno, ché poteva continuare liberamente da solo ad operare secondo ciò in cui credeva e riteneva necessario per il proprio paese. Sarebbe andato avanti unica-
mente con i propri mezzi, come già faceva, avendo anche l’adesione di personaggi dell’arte, la letteratura e la musica ben piú importanti in campo nazionale.
Il genio politico si erse minaccioso, invaso da una delle sue solite convulsioni, e con un ghigno feroce urlò: “Cosa, che cosa! Io non ti permetto, non sei all’altezza di giudicare…” Convinto di spaventare l’insolente ragazzo che, invece, teneva ben stretta una sedia per colpirlo come meritava. Fortunatamente, prendendolo per un braccio, lo fermò in tempo il regista concittadino, anche lui presente a quella riunione, approvando le osservazioni di Gino Marese, dicendo che si bisognava fare qualcosa per il paese, smetterla di pensare che non si potesse fare niente, se non si faceva mai niente. A parte il regista che in quella riunione nell’Aula Consiliare prese le sue difese, si rese conto che il sindaco suo ex compagno di scuola rimaneva muto, come niente dissero tutti i componenti della giunta,evidentemente anch’essi succubi del “pezzo grosso”.Chiaramente per non contrariare l’alleato, il sedicesimo consigliere necessario per comporre la giunta comunale, il quale in quell’occasione subdolamente minacciava di farla saltare se non avessero approvato il suo parere negativo.
Gino Marese, impassibile, dopo aver espresso tranquillamente le sue conclusioni, mostrandosi disinvolto e senza rancore, ribadì che poteva fare a meno di loro. Da solo poteva svolgere la propria attività come voleva e poteva, umilmente, secondo le proprie possibilità, con l’appoggio di personaggi veramente qualificati e importanti. Le sue parole furono una mazzata in testa al “pezzo grosso” che rimase ammutolito, degluttendo saliva amara. Nessuno dei presenti seppe intervenire per dissuaderlo, cercando di opporsi, facendo capire all’alleato politico che un Comitato Comunale offriva ad essi stessi ampie possibilità di programmare ogni manifestazione cittadina e decidere sui finanziamenti. In modo da coinvolgere la scuola, gli intellettuali ed ogni singolo cittadino che avesse a cuore la valorizzazione del patrimonio storico-culturale della città, potendo anche allargare il proselitismo elettorale di ognuno di loro nel paese.
Ma quel comitato morì prima di nascere, per volontà del pittore inavvicinabile e dell’iracondo uomo politico, ambedue coalizzatisi contro Gino Marese, pensando così di eliminarlo, perché non aveva i titoli e l’idoneità per affiancarsi ad essi. Soprattutto, perché voleva discutere al loro livello e si rifiutava di farsi strumentalizzare per i loro scopi personali.
Egli, come ribadito, andò avanti per la sua strada operando e accrescendo relazioni ed amicizie in ogni parte d’Italia e del mondo, tramite la sua rivista che faceva arrivare gratuitamente, in molti ambienti culturali. Ebbe appena qualche sostegno da alcuni abbonati, ma faceva enormi sacrifici per far fronte alle spese postali. Senza mai scoraggiarsi dei duri sacrifici affrontati, lottando quotidianamente con il nemico denaro che lo aspettava in casa., per le necessità familiari che non riusciva a soddisfare. Le sue entrate economiche erano sempre scarse e discontinue, mentre le spese aumentavano mano mano che i figli crescevano, bisognosi di vestiario e scarpe, libri e quaderni per la scuola ché in Italia sono stati sempre costosi e soggetti alla speculazione commerciale degli editori. Mentre il governo non ha mai adottato le giuste misure di legge per aiutare le famiglie meno abbienti. La cosidetta “scuola dell’obbligo” in cui assegnare gratuitamente libri di testo, era quasi un’elemosima, che però finiva sempre per favorire i figli benestanti dei compari di partito, con la complicità degli insegnanti faziosi e insensibili alle vere necessità delle umili famiglie, incapaci di reclamare i diritti di legge, timorosi delle ripercussioni negative sulle pagelle dei figli. Pagelle che lui leggeva nauseato dai formali e ripetuti giudizi di quegli insegnanti, spesso sgrammaticati, che aveva in pratica, quale membro dei circoli scolastici, i quali avrebbero dovuto zappare la terra degli avi. Invece, come al solito, si diplomavano forzatamente, mediante raccomandazioni particolari e ricompense adeguate dei genitori, disposti a tutto pur di vedere diplomato un figlio. Poi, con lo stesso sistema, sempre peggiorato, avevano facilità di collocazione, seppure incapaci di svolgere la relativa professione, altrimenti detta “missione”. Una situazione di carenza assoluta aggravata dalla dilaniante politica che andava creando sette di potere, confusione dei ruoli, nessuna volontà d’impegnarsi nella formazione scolastica dei giovani al passo con le nuove esigenze europee. In Italia, salvati i pochi giovani che esprimevano il proprio talento mediante un appassionato studio extra scolastico, e che riuscivano ad affermarsi in qualsiasi parte del mondo, allontanandosi da una
maggioranza che li plagiava, derubava e sviliva anima e corpo, strumentalizzati da politici corrotti che spietatamente anullava in loro ogni valore e possibilità di futuro.
Per oltre cinquant’anni, Gino Marese, si è dedicato alle attività artistiche, letterarie, musicali e di qualsiasi altro genere, stimolando rivalità ma una evidente crescita culturale e civile nel paese. Contemporaneamente ha sempre lottato, al di là di ogni interesse personale, riuscendo con i pochi amici del consiglio d’istituto a far costruire un nuovo plesso scolastico da parte del Ministero della Pubblica Istruzione che prese a cuore le istanze di necessità della popolosa cittadina,dovendo lottare anche con l’ostracismo di dirigenti e professori assuefatti negli obsoleti e carenti edifici privati adibiti a scuola media, senza rendersi conto nemmeno che un nuovo plesso serviva soprattutto a loro. Qualcuno, scioccamente tentava di azzittirlo,dicendo: “Lascia stare, contentiamoci di quello che abbiamo, basta qualche restauro, non serve costruire nuovi edifici…” Una imbecillità, ancora piú grave, proprio per essere espressa da uno dei dirigenti ritenuto fra i piú qualificati rappresentanti della scuola e della politica. In realtà, sulla soglia della pensione, aveva passato la vita inconcludentemente, nutrendosi solo di vanità ed egoismo. Come, sordamente, avversato dai molti politicanti locali che in cinquant’anni, pur occupando posti decisionali di potere, non si erano mai impegnati per dotare il paese di nuove strutture necessarie per offrire ai giovani di sviluppare il talento in ogni espressione della vita sociale e civile. Anzi, spendevano fior di milioni per affittare inadeguati edifici privati, in combutta con i proprietari per prebende personali.
Ma, alla fine, superando ogni ostacolo, impossibile per condizionare il Ministero della Pubblica Istruzione che non permetteva a nessuno di mettere le mani in pasto, il nuovo plesso fu costruito per dar vita al ciclo scolastico a tempo pieno che comprendeva la scuola materna, le elementari e la media statale. E fu un altro fiore all’occhiello per tuti quelli che s’impegnarono caparbiamente, fino vedere realizzato il moderno edificio in una bella zona verde, spaziosa, comoda nella viabilità e densamente popolata. Anche se all’inaugurazione, lui e tutti gli altri fautori non furono invitati, mentre l’arrogante sindaco in carica si mise la fascia tricolore a tracolla, attorniato dal codazzo ossequienti dei professori, facendo credere ai meno informati che fosse frutto del suo operato.
Ma Gino Marese, indifferente a quell’arroganza e faziosità, sapeva come far conoscere la verità, ne aveva i mezzi d’informazione. Insomma, era un osso duro per gli avversari che non avevano denti per poterlo rosicchiare. Instancabile, andando avanti disinvoltamente, non sottraendosi mai a promuovere tutte quelle iniziative che scuotessero il proprio paese dai pareri e pregiudizi negativi, dal torpore caratteristico che paralizzava la vita sociale e culturale. Lui, fra le altre iniziative, con un gruppo di giovani organizzò il “Premio Letterina di Natale” per gli alunni delle scuole elementari che parteciparono da tutta Italia, patrocinato dal Presidente della Repubblica Italiana, dal Papa Giovanni Paolo II, dall’Arcivescovato e da molte altre importanti personalità.
Fu un grande successo che si verificò proprio nella nuova aula magna della scuola media di cui lui e i componenti del Consiglio d’Istituto della vecchia sede ne avevano promosso la costruzione. In quell’occasione ancora si dimostrò che tutto si può ottenere con un impegno serio e capacità organizzativa. Riuscendo ad annullare la ritrosia iniziale dei maestri della scuola locale, poi ansiosi di partecipare vedendo che le scolaresche provenivano da tutte le provincie italiane, finanche dalla ex Serbia in cui, in quella brutta epoca era in atto lo sterminio etnico. Insomma, tutti quelli che lo avevano osteggiato, a cominciare dai due compari dell’arte e la politica, si rammaricarono di non avergli concesso credito di fronte ai successi che crescevano mettendo in luce il proprio paese in Italia e all’estero, il paese al quale sempre rifiutarono di dare un proprio fattivo contributo.
Gino Marese, invece, gli si era dedicato anima e corpo, consumando il vigore dei migliori anni della sua giovinezza, impegnandosi in diverse iniziative collaterali, fra tante tribolazioni per portare avanti la propria famiglia, primo e vero traguardo che esalta la sua esistenza sulla terra. Un traguardo difficile da raggiungere per chi resta irretito dall’errata mentalità secondo la quale la famiglia impedisce di seguire una personale carriera, specie nel mondo dell’arte. Al contrario, tutti i suoi duri sacrifici li ha condivisi con la sua famiglia. Soprattutto con la moglie, una donna che saputo amarlo oltre ogni misura, soffrendo con lui, sostenendolo nei momenti piú difficili, sapendo provvedere a tutte le esigenze dei quattro figli che sono cresciuti sani e intelligenti, prima di ogni altra cosa, nutriti ed educati con il suo esclusivo profondo amore di madre. Insomma, una famiglia
dalla quale non si è mai staccato, anzi, spesso rinunciando a tante cose che, pure importanti per la sua attività, le riteneva superflue. Nella sua coerenza, rifiutando ogni compromesso per una facile ricchezza, tra l’inganno e l’ipocrisia. Era il suo modo di pensare ed agire, non concepito e denigrato da quanti sono disposti ad annullare coscienza e dignità pur di ottenere una vita facile, senza scrupoli. Lui, invece, sulla soglia degli ottant’anni, festeggiato le “Nozze d’Oro”, è rimasto economicamente povero, ma ricco di esperienze e sempre animato da traguardi ideali, conquistandosi la stima dei propri concittadini che apprezzano la validità di ogni sua attività, sia personale che in favore del paese. E seppure resta sempre isolato dalla vita pubblica, egli continua ad impegnarsi nella valorizzazione del patrimonio storico-culturale della propria città, sempre con obiettività, operando attivamente sui moderni mezzi della comunicazione globale.
Gino Marese, può considerarsi un premiato dal destino che lo ha sostenuto in un lungo e tribolato tragitto fino a raggiungere i suoi traguardi ideali, con passione e tenacia nello studio autodidattico e la pratica nei vari campi della sua personale creatività. Senza mai porsi problemi teorici di tecniche accademiche ma esprimendo liberamente ciò che sente dentro di sé. Per cui ama definirsi, quando gli si chiede quali titoli di studio possiede: “Tutto quello che so l’ho imparato strada facendo…” Ed è stato lungo il suo tragitto, sudato il suo acquisito patrimonio intellettuale, incomprensibile per chi non conosce la sua lunga parabola di sacrifici, tra rinunce, emarginazione, ostracismo che però hanno rafforzato il suo carattere volitivo per apprendere tutto quello che potesse. Così come, camminando per le strade del mondo, con gli occhi lunghi e le orecchie tese, è riuscito a comprendere e farsi comprendere in diversi gerghi dialettali e lingue, le più parlate fra le maggiori che rendono possibile andare in qualsiasi paese senza smarrirsi per le strade, dialogare tramite gli odierni mezzi di comunicazione globale. Sempre attento ad ogni innovazione, tra i primi a metterle in pratica, è riuscito a conquistarsi la stima di operatori internazionali nei campi dell’arte, la letteratura, il giornalismo. In particolare, nell’uso parallelo della lingua spagnola che lo ha accreditato in qualificati ed attivi ambienti letterari nelle maggiori città e paesi iberolatimoamericani, in un’intensa e quotidiana collaborazione. La sua rivista pubblicata in piú lingue, i libri in italiano-spagnolo e le traduzioni di poesia figurano nelle biblioteche fra le piú importanti. Per questo suo impegno ha ricevuto pieno riconoscimento nel circoli letterari internazionali, particolarmente, da alcuni anni è stato nominato Presidente e membro honoris causa d’importanti istituti storico-letterari e legislativi in Argentina, mentre i suoi libri-documenti sulla storia rinascimentale della sua città figurano anche nell’Università Nazionale di La Plata e altre, collocati in molte biblioteche di paesi del mondo. Mentre i suoi poemi sono letti in importanti manifestazioni internazionali promosse e patrocinate da enti impegnati nel messaggio di pace e fratellanza per il benessere nel mondo.

 

Ora invia una Recensione

Annulla risposta

Altre Storie in Zona

    Un paese per vivere

    Luigi Muccitell

    Profilo dell'Autore

    Collegati con l’autore

    • Twitter URL
    • Facebook URL

    Visualizzazioni

    579

    Sei un Autore?

    Autore

    Unisciti al nostro Progetto!

    Registrati su Storie di Città. Potrai pubblicare e geolocalizzare le tue opere, lasciarle impresse in un luogo, farle leggere a migliaia di lettori e potrai promuovere gratuitamente i tuoi libri!

    Registrati Ora

    STORIEDICITTA.IT

    "Dedicato a tutti coloro che conoscono l'arte dello scrivere, a chi ama viaggiare, ma soprattutto a tutti quelli che hanno sete di leggere!"

    Il Team di Storiedicitta.it

    www.storiedicitta.it

    Storie di Città

    • Condizioni d’uso
    • F.A.Q.
    • Privacy Policy
    • Pubblicità
    • Contattaci

    Link interessanti

    • Bookabook
    • Eppela
    • Amazon Libri
    • Scuola Holden
    • Salute Privata
    Copyright Storie di Città - storiedicitta.it © 2019 Tutti i Diritti Riservati
    • facebook
    • twitter
    • google
    Copy Protected by Chetan's WP-Copyprotect.

    Login

    Register |  Lost your password?