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Linea 37

Linea 37

Stazione Centrale
40121 Bologna
Storie Vere Racconti
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Linea 37

Bologna stazione centrale, piazza Medaglie d’Oro

Proveniva da Via Bombicci e ad arrivare alla stazione ci metteva una vita. Ad ogni fermata Stella chiedeva “scendiamo?” tormentata dal caldo, urtata e sballottata su quell’autobus che era sempre pieno. Maria, la mamma, le promise che mancava poco, le descrisse la stazione con le sue cose belle, la magia dei treni, il sottopasso che sembra un ventre di balena, ma soprattutto il becchettare dei piccioni che carpiscono invisibili briciole, i resti dei resti di frettolosi passaggi. E poi promise un gelato, un giornalino di quelli chiusi nella busta con tante sorprese, purché stesse buona. La stazione si offrì finalmente, un formicaio gigantesco con selve di passi ritmati dai tocchi del grande orologio, marce vocianti di eserciti vacanzieri, le gambe nude e pallide delle ragazze che dovevano presto brunirsi al sole della riviera. Maria prese in braccio la sua piccina, la folla era una minaccia, già l’aveva perduta in un supermercato, quando si era allontanata a guardare i giocattoli e lei l’aveva cercata aggirandosi come impazzita, tremando all’idea delle zingare o dei trafficanti di bambini. Le gambe nude e sottili si intrecciavano, diventavano roveti che impedivano il passaggio, e poi c’erano gli stormi grigi dei piccioni che si alzavano in volo un attimo prima di essere raggiunti, una nuvola che seminava piume leggere e oscurava un po’ l’azzurrissimo cielo, ma non portava la pioggia. Stella li voleva stringere. Erano così belli… scese a terra con uno scatto e con la manina libera protesa cercava di catturare per un po’ quella libertà apparente, o almeno sfiorare il dorso di uno degli alati abitatori della stazione, di quel bizzarro non luogo, che si aggirano al pari dei barboni, abituati a dormire sotto i neon che ronzano come zanzare, pieni di insetti morti, rimasti intrappolati, ingannati dal chiarore.
Si fecero largo a fatica, Maria, Stella e la loro valigia a rotelle, aprivano un po’ il fiume umano che si richiudeva, sigillava la scia appena dietro con saltelli di scarpette da tennis. L’orologio all’ingresso occhieggiava, derideva la fretta e la noia, per lui il tempo era un ritmo, la mera misurazione di porzioni di infinito, un’invenzione tutta umana per togliersi il piacere dell’assoluto.
Il binario mandava vampate di caldo, le ragazze vuotavano bottiglie di acqua gelata e lattine che lampeggiavano al sole, deliziose nelle loro magliette abbondanti con le facce dei divi del cinema e della TV. Stella e i piccioni avevano ripreso il loro tira e molla. Lei aveva le briciole e pretendeva in cambio di poterli toccare, ma quelli, in uno svolazzo di cenere bigia, indietreggiavano un passo, due passi. Mai troppo lontani né abbastanza vicini. Maria chiamò sua madre con un telefono pubblico, di quelli a gettoni. Li sentiva scendere veloci nel ventre dell’apparecchio: “Ciao mamma, arriviamo alle tre”, poi di nuovo a rincorrere Stella. Non superare la linea gialla, sennò il treno…
Ne vide la testa ferrosa avvicinarsi, le breccia sottili come zampe di insetto sfiorare i fili elettrici con piccole faville e vampate di calore disperse nell’aria rovente. Solo le dieci e poco più, la giornata si annunciava molto calda. “Vieni, Stella, che arriva il treno!” e la bimba con gli occhi sgranati su quel mostro benigno, un po’ spaurita, infilò la sua piccola mano in quella della madre. Maria la strinse un pochino e le sembrò di aver spinto un pulsante, perché proprio in quel momento… Un boato e una luce che sembrava un altro sole congelò le risate, i passi, lo sferragliare dei convogli, gli svolazzi dei piccioni. La stazione si dilatò come un pallone, come un polmone che è stato troppo tempo senza respirare. Poi si contrasse, lo spasimo dei morti, frammenti di ali e di stoffe si mischiavano come farfalle, odore di fumo e di angoscia. Chi era vivo scavava con foga le macerie per trovare i volti stupiti di chi non ce l’aveva fatta e pareva domandare: “perché sono morto?”. L’orologio si fermò su quell’ora della fine del mondo: le 10,25 di sabato 2 agosto 1980. Era divenuto un monumento ai caduti, un angelo triste chino sulla tragedia, sulla morte insensata.
Maria non scavò, non pianse, non gridò con il volto impolverato di calcina. Dopo il boato prese il volo con Stella per mano, sorvolò quel binario, il treno che non sarebbe più giunto, così a braccia aperte, come due angeli o due supereroi volavano sul pianto, sulle macerie, sulle ferite sanguinanti di una città colpita. Le gambe delle ragazze si intrecciavano al suolo come una stuoia. Maria divenne una creatura di luce in un tempo che durò un’eternità. Pensò che sua madre si sarebbe preoccupata non vedendole arrivare, ma alla TV avrebbero di sicuro raccontato la verità.
I soccorritori usarono l’autobus della linea 37, carlinga dalle ali strappate, per traghettare i feriti agli ospedali: sotto il grande orologio fermo furono allineati corpi, paralleli e vicini, sbarre di una prigione. Chi vide pensò all’inferno, alle bocche fameliche di Lucifero, un diavolo tutto di carne che aveva potuto spezzare le ossa a una mattinata d’estate, un sabato di vacanza e ritorni, di allegria e gioventù. Parecchi piansero, strinsero i pugni; la vita non ci fornisce sufficienti anticorpi per reagire a un dolore così. Stella fu adagiata fra i caduti, una principessa assopita raccolta in un letto di grigie piume di piccione, ma Maria… nessuno la trovò, era sparita. Scavarono a lungo, riportando alla luce tragedie e tristezza, ma niente tracce di Maria.
Il 37 fece la spola più volte, col suo carico di malati e vergogna, di grida soffocate di chi non chiedeva vendetta, solo una ragione.
La polvere si adagiò e sfumò la tragedia, il tempo la portò lontano, sempre più indistinta, come un convoglio nella nebbia, e fu possibile lenire il dolore. Ad una stazione più in là, nella ridente Toscana, da allora una donna torna ogni giorno ad aspettare un treno che le riporti sua figlia, ha voglia di riabbracciarla, sono passati tanti anni dall’ultima volta. In parte la ferita della stazione di Bologna è stata guarita, lo squarcio del muro della sala d’aspetto è stato chiuso con un vetro, c’è un orologio nuovo che ammonisce sul tempo che fugge. C’è la solita confusione, la gente parte ed arriva, di quello che accadde qualcuno non sa, non era ancora nato. I treni si incrociano, si soffermano, ripartono. Chissà, uno di loro un giorno o l’altro riporterà Maria a casa.

 

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  1. Anna Maria Funari
    Originalità

    Coinvolgimento

    Stile

    Una pagina luttuosa della nostra storia vista attraverso gli occhi di Maria e Stella, inconsapevoli vittime della follia umana e ignare della precarietà della vita.
    Il racconto in viva voce, coi suoi toni pacati,sembra quasi voler attutire la brutalità di quell’azione, senza tuttavia cancellare il dolore.

    7 anni fa

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