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Blu acquamarina

Blu acquamarina

Piazza Aldo Moro
Bari
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Blu Acquamarina

visita su Google street view     Piazza Aldo Moro, Bari /button>


Qualcuno mi aveva detto diverso tempo fa che, come pietra, è l’amuleto dei marinai e che la tradizione vuole che sia la gemma delle sirene. E devo dire che in effetti ha molto a che fare col mare: il blu acquamarina, a metà tra il verde e il ciano, è proprio quella tonalità che caratterizza l’acqua del mare. Soprattutto quando quest’ultima appare particolarmente limpida, nelle giornate di cielo terso e con la brezza lungo la costa.

Da sempre ammiro questa sfumatura. Spesso mi è capitato di scorgerla incastonata nei monili, al collo e alle orecchie, nonché sugli anelli alle dita della gente che incontravo. Ma questa volta la vidi nei suoi occhi.

Era la prima volta che vedevo il blu acquamarina negli occhi di una persona. Si trattava di una donna. Quel giorno sedeva nell’autobus sul sedile di fronte al mio. Mi ricordo tutto perfettamente: era l’autobus numero undici, quello che fa capolinea alla Stazione Centrale di Bari, in piazza Aldo Moro, e da lì raggiunge i quartieri periferici della città, passando per Carbonara e arrivando poi fino a Loseto. L’autobus era in partenza e la gente si affrettava a salire per non perdere la corsa.

Non scorsi subito il colore dei suoi occhi. Tutto ciò che vidi all’inizio fu solo la sua capigliatura rossiccia e la sua testa piegata su di una borsa strapiena di cianfrusaglie che era nascosta sotto il sedile. La donna era intenta a cercare qualcosa e poco dopo estrasse un paio di occhiali da sole assai particolare, con una montatura che non avevo mai visto prima, costituita da lenti scure perfettamente rotonde e cerchiate da due colori diversi, l’una rossa, l’altra verde. La rotondità delle lenti era tale che, ad un primo sguardo, mi sembrava quella delle ruote di bicicletta.

A quel punto la donna indossò gli occhiali. Alzò il capo e mi sorrise. Ricambiai il sorriso e poi volsi lo sguardo fuori dal finestrino, attirato dall’incredibile brulicare di gente e di auto tipico di Bari all’ora di pranzo e attraverso il quale l’autobus cercava di procedere. Mi fingevo indifferente ma in realtà nella mia testa ero alla ricerca di una qualsiasi scusa per attaccare bottone e poter così interagire con quella strana persona che suscitava in me una fortissima curiosità.

Ma fortunatamente lei fece prima. «Non riuscire a vedere il sole e la sua luce è la cosa più brutta», disse ad un certo punto. Quell’affermazione mi colpì con la forza di un pugno nello stomaco. «Pensavo che indossando quel grazioso paio di occhiali desiderasse invece proteggere i suoi occhi dalla luce solare», ribattei d’istinto, come se volessi trovare a tutti i costi una spiegazione a quanto lei aveva appena detto. «La luce solare filtra attraverso le finestre, attraverso i vetri, persino attraverso le nuvole. Tuttavia non attraverso le pupille dei miei occhi, non più almeno», proseguì la donna. Fu in quel momento che si tolse quegli strani occhiali da sole e io mi specchiai nei suoi occhi blu acquamarina, così come avrei fatto nell’acqua scintillante del mare in un qualsiasi altro giorno della mia vita.

Ben presto, tuttavia, mi accorsi che quelle gemme negli occhi della donna non rifulgevano dello splendore che dovevano. Quelle pietre preziose non scintillavano di luce, erano come spente, per cui a poco a poco iniziò a prendere corpo nella mia testa la terribile idea che la mancanza di luce negli occhi di quella donna fosse dovuta a cecità. Non che non conoscessi la questione ma di fatto non mi era mai successo di trovarmi faccia a faccia con una persona non vedente, la cui interazione col mondo esterno era resa estremamente difficoltosa dal mancato funzionamento degli occhi.

Diciamo che egoisticamente avevo sempre considerato una tale realtà come qualcosa di molto lontano da me, nonostante fossi entrato in contatto con i problemi della vista sin da bambino, per via di una miopia che, per quanto moderata, mi costringeva praticamente da sempre ad un uso costante degli occhiali. Mi chiedevo in particolare come i ciechi riuscissero a leggere con le dita quegli strani puntini che spesso avevo visto su alcune confezioni oppure negli ascensori, e come potessero, ad esempio, sviluppare delle capacità molto spesso nettamente superiori a quelli dotati di una vista normale, una fra tutte il canto.

Le mie riflessioni sulla vista e sulle sue problematiche tuttavia si interruppero, nel momento in cui la donna di fronte a me fece un gesto che catturò immediatamente la mia attenzione: con la mano tirò verso il basso il sacco congiuntivale di uno dei suoi occhi, rendendo così perfettamente visibile il bianco della sclera intorno all’iride blu acquamarina. In quel momento provai la stessa curiosità mista a timore che si prova all’ingresso di una grotta da esplorare. Ed era proprio così che appariva l’occhio di quella donna, una vera e propria cavità da esplorare. Anche se non ero certo che fosse in realtà un territorio inesplorato.

Ad ogni modo le mie perplessità non durarono a lungo. La donna, pur non riuscendo a vedermi e forse resasi conto dell’impatto che il suo gesto aveva avuto su di me, riprese a parlare. «Lo so che i miei occhi hanno il colore dell’acqua del mare e so anche che ti ci stai specchiando in questo momento. Non riesco a vederti ma lo avverto». «Co… Come dice, signora?», replicai a quel punto balbettando e sentendomi in qualche modo colpevole per averla fissata in quel modo. «Non credere che io non sappia l’effetto che i miei occhi hanno sulla gente», proseguì la donna, «e comunque quel mare che tu vedi è come se fosse “morto”. Hai mai sentito parlare del Mar Morto? Ecco, proprio così».

«Be’, il Mar Morto è in realtà un lago salato. E i laghi sono masse d’acqua all’interno delle cavità terrestri. E le cavità terrestri formano spesso delle grotte, delle meravigliose grotte da esplorare. Guardando degli occhi di quel colore, è inevitabile pensare a tutto questo, signora», risposi, senza più balbettare e facendo sfoggio di tutte le mie reminiscenze geografiche.

La donna accennò a quel punto un debole sorriso. Evidentemente le mie associazioni le erano piaciute, tant’è che poco dopo ricominciò a parlare. «Mi riempie di gioia sapere che guardando i miei occhi ti vengono in mente le meraviglie della Terra. Ma vedi, a causa della cataratta ho sviluppato ormai da tempo una cecità pressoché totale ad entrambi gli occhi e pertanto essi non saranno mai più i mari ondosi e scintillanti di una volta, a dispetto del loro colore. E quanto alle incredibili grotte cui facevi riferimento, i miei occhi non sono delle cavità inesplorate. Molti medici le hanno visitate e numerosi sono stati gli interventi ai quali mi sono sottoposta per cercare di recuperare almeno in parte la vista ma purtroppo non hanno portato ad alcun risultato significativo. E pensare che prima della malattia lavoravo come infermiera ed osservavo la sofferenza dall’esterno, con l’errata convinzione che non mi avrebbe mai riguardata e che potesse capitare sempre e solo alle altre persone».

Vidi a quel punto spuntare due lacrimoni dagli occhi della donna. Quell’acqua salata scorreva copiosa lungo il suo viso, come se fosse stata l’ultima riserva di un lago che stava ormai scomparendo. Nel frattempo un’altra donna si era fatta largo in mezzo alla folla dell’autobus per poi avvicinarsi a noi. Offrì un fazzoletto alla signora, cercando in qualche modo di confortarla. Disse inoltre che involontariamente aveva ascoltato la conversazione e che questa l’aveva colpita in modo particolare perché anche lei era interessata da un problema alla vista, anche se non direttamente.

Si trattava in realtà del suo compagno, tormentato da un serio problema ad uno degli occhi e dovuto alla fuoriuscita di liquido dai vasi sanguigni nella parte centrale della retina, la macula, il che in pratica causava un rigonfiamento ed ispessimento della stessa, favorendo così la comparsa di difficoltà visive. La donna domandò quindi alla signora non vedente se fosse a conoscenza di una qualsiasi terapia risolutiva, essendo lei un’infermiera, oppure se sapesse il nome di qualche luminare a cui rivolgersi per quel dannato problema che prima o poi avrebbe portato il suo uomo alla cecità.

Per tutta risposta lei scosse il capo e dopo un attimo aggiunse: «Non bisogna avere paura dell’oscurità. Neanch’io ormai la temo più. In fondo la morte vera e propria è preferibile ad una vita non vissuta. Il mio desiderio più grande è adesso quello di continuare a vivere la mia vita nonostante tutto e assaporarne ogni minuto fino in fondo».

Ero ammutolito da quelle parole e poco dopo mi accorsi che quella conversazione aveva attirato l’attenzione anche di altri passeggeri. Ad un certo punto calò nell’autobus un silenzio irreale. Forse ci stavamo chiedendo tutti come fosse possibile continuare ad amare la vita nonostante quella condizione di oscurità perenne, in cui non era mai materialmente possibile cogliere la differenza tra il giorno e la notte, tra il sole e la pioggia, tra il bianco e il nero, tra il giallo e il viola.

Intanto l’autobus era giunto nel quartiere di Carbonara di Bari ed io ero ormai arrivato. Guardai quella donna per un’ultima volta, quindi mi alzai e mi preparai alla discesa. Ma quegli occhi erano già dentro di me. Prima o poi sarei andato a passeggiare sul lungomare della città e li avrei scorti, scintillanti più che mai, nell’immensa distesa blu acquamarina, perdendo il mio sguardo al di là degli scogli e verso l’orizzonte.

 

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