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Zia Maria
Scheda Verificata

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Zia Maria

Via Campo 27
90030 Altofonte (PA)
Diari e Memorie Racconti
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Zia Maria

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Il forno in Via Campo 27 sfornava il pane già alle sei. Filoncini lunghi scuri con la giuggiulena. Zia scendeva un attimo prima che u’ Ciccio sistemava le forme lunghe dietro il bancone. Ne prendeva sempre due che venivano sistemate nella carta spessa color paglia. La sentivamo scendere gli scalini altissimi con le ciabatte nere. Avevano forse i suoi stessi anni, ma nessuna delle due né scarpe né zia invecchiavano mai veramente. Quando rientrava il profumo ci svegliava. Lo riponeva insieme alla sua carta nella credenza. Gli sportelli strusciavano contro il legno e non si chiudevano bene. Nessuna porta invece divideva la cucina dal resto della casa. Una bacinella celeste chiara dai bordi tondi, un lavandino e quattro piatti incastrati l’uno sull’altro erano gli unici oggetti sempre in vista. La zia non stava mai ferma, puliva il pesce e un attimo dopo era alla credenza a sistemare chissà quale oggetto. Sembrava sempre sul punto di ricordarsi cosa dovesse fare veramente. Quando rallentava, si puliva le mani sulla vestaglietta consumata ed entrava in bagno. La porta era dipinta di verde e stava di fianco alla cucina. Non c’erano finestre, solo una saponetta distesa sul bordo del lavandino e una tanica d’acqua. Ad Altofonte l’acqua spariva dall’ora di pranzo fino alla sera.
Io e mia sorella ci giravamo nel letto, cercando una posizione. Il latte intanto bolliva nel pentolino smaltato dal manico lungo e le campane della chiesa rintoccavano ogni quarto d’ora. Ci stiracchiavamo e quando gli occhi non ce la faceva più a stare chiusi, ci guardavamo intorno. Foto in bianco e nero incastrate nel bordo dello specchio, ci guardavano senza sorriderci. Erano illuminate da lumicini rossi tutto il giorno mentre la notte il pavimento scricchiolava come se le anime di tutti quei parenti si fossero divertite a ballare accanto al nostro sonno. La mattina tornava tutto silenzioso, solo la zia si muoveva in quella casa a due piani lunga e stretta come la camicia da notte che ci arrivava alle caviglie. Puzzava di naftalina, eppure ci pareva che quello fosse l’unico profumo di quelle stanze. Il letto era alto e dovevamo sporgerci per scendere con tutti e due i piedi. Le assi di legno si scaldavano subito. Qualche passo e già litigavamo per chi doveva mangiare la prima fetta di pane. A volte arrivavo prima io, altre lasciavo vincere mia sorella più piccola. Scendevamo le scale aggrappandoci al muro freddo. Cercavamo di fare piano ma la zia ci aveva già sentito. Ogni mattina la trovavamo sempre nella stessa posizione, appoggiata con una mano alla credenza per cercare di non rovesciare il latte con l’altra mano. Scendeva nelle tazze tiepido, denso.

– Zia tu non mangi?
Le tazze sul tavolo erano sbeccate, dal manico decorato, di un colore pallido e scolorito. Il pane era sistemato al centro.
– Mi alzasti già, picciridda, io.
Prendeva il pane e lo tagliava a metà. Il coltello scompariva nel centro e poi riaffiorava ai bordi. Due fette. Una per ciascuna. Prendevamo due fichi neri e li spalmavamo sul pane. Il sesamo si sparpagliava sul tavolo. Le briciole rincorrevano le gocce di latte che cadevano dalle fette quando si immergevano. I semini dei fichi si scioglievano insieme alla mollica in bocca. La zia si girava e noi tagliavamo altre due fette. La voce di qualche ambulante ci distoglieva dalla colazione, guardavamo verso la finestra e poi tornavamo a masticare lentamente. Le parole intanto rimbalzavano tra le stradine e le sedie vuote lasciate fuori dalle porte. Se l’ambulante si fermava sotto casa, correvamo al balcone e vedevamo la strada riempirsi di altre “zie” come la nostra. La stessa crocchia dietro la nuca, lo stessa vestaglietta consumata. Il sole disegnava già le ombre. Il fumo del forno non smetteva di salire nel cielo limpido come il caldo non lasciava mai tregua, ma le case erano fatte di pietra. Lì il caldo non entrava, rimaneva nei balconi stretti dai muri screpolati e le inferriate sottili e arrugginite. L’unica cosa che entrava erano le voci che si rincorrevano intorno all’ambulante. Saliva ogni settimana da Palermo con la sua Ape stracolma di oggetti, pentole, scope, padelle. Urlava alle persiane socchiuse e io mia sorella contavamo le persone che si riunivano. Intanto la zia sparecchiava ma noi quasi non ce ne accorgevamo. Il pane finiva nel telo di lino dentro alla credenza. La mollica color dell’oro riposava fino al pranzo quando insieme alle cocuzze fritte ce ne tagliava solo due fette, ma noi ne rubavamo sempre una terza quando lei si girava. Zia Maria lo sapeva e ci lasciava fare.
 

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  1. Matilde Marcuzzo
    Originalità

    Coinvolgimento

    Stile

    Molto bella ..complimenti

    6 anni fa

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