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Il mare tra di noi

Il mare tra di noi

Via Santa Lucia
80132 Napoli
Storie d'Amore Racconti
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Il mare tra di noi

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Mancava poco all’una di pomeriggio ed avevo appena terminato di scrivere la comparsa conclusionale a cui mi stavo dedicando da settimane. Finalmente la mattinata di lavoro volgeva a termine, ma quella sarebbe stata la giornata più lunga della mia vita.
Che Dio ce la mandi buona, pensavo, riferendomi alla delicata causa di separazione giudiziale nella quale, assieme al mio socio, figuravo come difensore di una donna che aveva vissuto un matrimonio disastroso e che fortunatamente aveva deciso di troncare, allontanando per sempre un marito egoista e violento. Dopo aver salvato il file, spensi il pc e stirai le gambe in avanti sotto la scrivania, stanca ma allo stesso tempo soddisfatta, ritenendo di avere buone prospettive che le nostre richieste nei confronti della controparte venissero accolte.  Mi alzai dalla sedia per sistemare, su una delle scaffalature della grande libreria, il codice di procedura civile che avevo consultato. Chiusi l’anta in vetro e andai a prelevare la mia valigetta da una poltroncina accanto alla scrivania del mio collega.
“Massimo non ce l’ha fatta a rientrare in studio…”, pensai tra me e me, riferendomi alle udienze di quella mattina in Tribunale, mentre richiudevo le immacolate tendine verticali ad una delle finestre dell’ampio studio. Fuori via S. Lucia riluceva più che mai: il sole era alto e diffondeva quel caldo intenso e piacevole di inizio giugno, mentre il mare del Golfo di Napoli, come una tavolozza di colori caldi e luccicanti, mostrava le sue sfumature più intense, facendo risaltare gli eleganti palazzi residenziali e gli ospitali alberghi che dominavano lo scenario della baia.
I miei pensieri furono interrotti dal bip dell’orologio digitale, appoggiato su un tavolinetto, che segnava le 13,00.
“Oddio è tardissimo!”, esclamai tornando alla realtà. Infatti avrei dovuto affrettarmi per andare a prendere a scuola mia figlia più piccola. Così afferrai la borsa e, chiudendo la porta alle mie spalle, mi precipitai nella stanzetta accanto, dove batteva ancora i tasti sul computer l’insostituibile segretaria, nostra dipendente da circa un decennio, cioè da quando io e Massimo, appena trentenni, ex compagni di università e freschi procuratori legali, ci eravamo messi in società.
“Ciao, io vado via!”, esclamai frettolosamente, mentre mi affacciavo sulla soglia della saletta.
“Arrivederci Marisa, ci vediamo oggi pomeriggio”, rispose la segretaria, tenendo gli occhi  fissi sulla tastiera e abbozzando un cenno di saluto con la mano sinistra.
“Ricordati che verso le 16.00 ho appuntamento con la signora Santoro, per la pratica di risarcimento danni”
“L’intervento di rinoplastica?”
“Sì, per piacere fammi trovare il fascicolo sulla scrivania e se dovessi far tardi, dille di spettare!”, conclusi, mentre aprivo la porta blindata per uscire. Scesi l’unica rampa di scale e atterrai di corsa sull’elegante atrio del palazzo, a quell’ora deserto per la pausa pranzo.
“Attento avvocato, vada piano!”, esclamò dalla gabbiola il portiere del nostro stabile, alzando gli occhi dal giornale.
“Grazie Pasquale, lei è sempre così premuroso…buona giornata!”
“E’ sempe na’ bellà iurnata, quando vedo quel sorriso, avvocàt!”, replicò Pasquale ed io  pensavo divertita a come i maschi napoletani, di qualsiasi estrazione sociale, sapessero essere così naturalmente galanti.
In strada prelevai l’auto dal parcheggio e imboccai via Nazario Sauro, oltrepassando poco dopo sulla destra Castel dell’Ovo, adagiato sull’acqua. Raggiunsi il centro e arrivai nei pressi della scuola primaria. Le mie giornate erano tutte così, incastrate minuziosamente tra lavoro e famiglia e probabilmente Pasquale aveva ragione, prima o poi avrei fatto un bel ruzzolone nel tentativo di incastrare i miei impegni e quelli delle mie due bambine.
Già… Ilaria e Chiara, gli amori della mia vita: ho sempre cercato di essere per loro una brava mamma, spesso sobbarcandomi di un peso enorme, soprattutto perché il mio compagno è stato tutto, tranne che un sostegno morale e amorevole. Da qualche mese  mio marito non abitava più con noi; dopo aver cercato più volte di ricucire le nostre  ferite, mi ero accorta che era solo un tentativo unilaterale ed io, che praticamente ogni giorno ero alle prese con vari matrimoni falliti, in quel periodo vivevo in prima persona un rapporto sentimentale in fase terminale.
Mi ero sposata con Luciano una volta conclusi gli studi di giurisprudenza: lo avevo conosciuto durante gli anni dell’università e, nel corso del fidanzamento, era sempre stato dolce e premuroso. A quel tempo lui era alle prese con gli esordi impegnativi e tumultuosi della professione di commercialista.
Dopo il matrimonio iniziai a lavorare facendo tirocinio in uno studio legale: ben presto però rimasi incinta di Ilaria, un’immensa gioia per me, ma da lì cominciarono le prime difficoltà del nostro rapporto. Infatti Luciano cominciò a delegare volentieri a sua moglie tutte le incombenze familiari, sia dal punto di vista pratico, che da quello psicologico.
Tre anni dopo seppi di aspettare la seconda bimba, lieta di dare una compagnia ad Ilaria, ma, dopo la nascita di Chiara e le emozioni del suo primo anno di vita, le responsabilità di genitore cominciarono a opprimermi: il mio compagno infatti, non solo non aiutava, ma rincarava la dose affermando che per tutte le donne è normale avere un po’ di stanchezza, facendomi sentire un’incapace. In quegli anni potevo contare solo sull’appoggio morale e spesso anche pratico di mia madre, mentre mia suocera, che anni addietro era scappata con un altro, lasciando il figlio adolescente, non l’ho mai conosciuta.
Arrivai a scuola giusto in tempo per il suono della campanella; posteggiai l’auto nei pressi del portone d’ingresso e dopo qualche secondo vidi Chiara, col suo grembiule celeste stropicciato e le sue deliziose treccine spettinate, scendere di corsa la breve scalinata e venirmi incontro a braccia aperte, con un adorabile sorriso stampato sul viso.
“Ciao mamma!”, trillò, gettandomi le braccia al collo.
“Buongiorno, piccola mia!”, esclamai con gioia, fissando il suo sguardo cristallino. “Presto, corriamo a prendere Ilaria, che ci starà aspettando! Chissà la nonna cosa avrà preparato oggi per pranzo…”.
Solitamente io e le mie figlie pranzavamo da mia madre, così, mano nella mano, ci avviammo verso l’auto, mentre la piccola mi raccontava le novità della sua mattinata scolastica. Chiara mi somiglia tantissimo, non solo fisicamente con quei suoi capelli e occhi chiari, ma soprattutto caratterialmente. L’ho sempre guardata con ammirazione e mi sono sempre sentita fiera di lei. Quando frequentava la prima elementare, scoprimmo che era affetta da un lieve deficit intellettivo, che le causava disturbi di apprendimento e quindi disagi nello studio di alcune materie, ma lei è sempre stata caparbia e ce l’ha messa tutta per non restare indietro rispetto ai suoi coetanei. Purtroppo anche in quella battaglia sono rimasta da sola. Luciano si è disinteressato quasi completamente della situazione.
Dopo pranzo, a casa di mia mamma, ci accoccolammo sul divano a chiacchierare e a ridere di gusto, soprattutto quando Ilaria, mia figlia di tredici anni, ci raccontava gli ultimi pettegolezzi della classe.
“L’ho capito, sai mamma, che a Federica piace una cifra Luigi, e si vede che anche lui è cotto, ma rimane lì impalato a guardarla come un pesce lesso, mai che prendesse un’iniziativa…uomini! “, sbuffò Ilaria con un lampo di malizia nei suoi occhi vivaci, da donna in erba.
“Cara mia, ti ci dovrai abituare a questi uomini!”, sentenziai divertita.
“Lo so, la madre di Linda, la mia compagna di banco, lo dice sempre: gli uomini vivono su un pianeta e le donne su un altro, e non si incontreranno mai!”, ribatté Ilaria.
“Chissà che invece questi due pianeti, così distanti, non possano avvicinarsi in una combinazione astrale unica…”, riflettei in silenzio sulle parole di mia figlia.
D’improvviso Chiara irruppe nel discorso, come era solito fare, quando si sentiva tagliata fuori. “Mamma, cos’hai fatto ieri? Sei tornata tardi…” La piccola era sempre curiosa di sapere cosa facevo quando mi assentavo da casa, mal celando la sua gelosia nei miei confronti.
Chiara si riferiva al corso di pittura che frequentavo, da alcuni mesi, ogni giovedì sera dopo il lavoro, a cui mi ero iscritta nel tentativo di ritrovare una delle mie vecchie passioni di gioventù e di prendere del tempo per me stessa.
“Sì, è vero, amore mio, mi sono trattenuta un po’ di più. Anche ieri l’insegnante ci ha affascinato con le sue tecniche, che un giorno spero di poter mettere a frutto e, perché no, farti un bel ritratto!”, le risposi entusiasta, cercando di nascondere un leggero tremore nella mia voce.
In realtà il ritardo del giorno prima era il motivo per cui, quella sera stessa, avrei dovuto incontrare mio marito. Così, approfittando del fatto che era ora di rientrare in studio per gli appuntamenti del pomeriggio, ne parlai frettolosamente alle bimbe.
“Ascoltatemi bene, ragazze. Stasera la mamma deve vedere il papà per parlare della nostra famiglia e del fatto che è da un po’ non viviamo più insieme”, esordii. A quel punto Ilaria, mia figlia maggiore, si rabbuiò, essendo al corrente della situazione tra me e Luciano; mi rendevo conto che purtroppo anche lei stava soffrendo, più di Chiara, essendo maggiormente consapevole.
“Mamma, dimmi la verità, papà non tornerà più a casa, vero?”, chiese sommessamente Chiara.
“Piccola mia, qualunque cosa decideremo io ed il tuo papà, ti assicuro che non cambierà il fatto che vi vorremo sempre tanto bene”, le risposi, avvicinandola a me con un forte abbraccio, mentre sentivo le lacrime salire prepotentemente. Quindi chiesi a mia madre il favore di farle dormire a casa sua.
Ilaria e Chiara mi salutarono stringendomi forte, più del solito: diedi loro un bacio sulla guancia, mentre mia madre, con gli occhi lucidi, mi guardava senza dire niente.
Chiusi la porta d’ingresso e scesi le scale a piedi, cercando di allontanare quel fastidioso senso di inquietudine che mi si era appiccicato addosso, come il caldo opprimente di un’afosa giornata estiva.
Entrai in macchina e ripresi la strada per tornare a lavoro. Guidando, non potei fare a meno di osservare, dal finestrino, l’acqua leggermente increspata dalla piacevole brezza del primo pomeriggio: cercavo di godere appieno di quella fresca carezza, mentre il penetrante sentore salmastro mi riportò inevitabilmente alle bellissime sensazioni vissute la sera prima.
**********************
A casa di mia madre avevo mentito alle mie figlie. Il giorno precedente non avevo frequentato il corso, o meglio, arrivata sotto casa del maestro, che ospitava pochi allievi sulle colline di Posillipo, parcheggiai nei pressi del portone. Dopo essermi guardata attorno, scesi dall’auto e attraversai la strada: lui era lì, ad aspettarmi nella sua auto.
Mi ero preparata con cura a quell’ incontro, non mi sentivo così femminile da tempo: lasciato il mio solito tailleur, avevo indossato un tubino smanicato, color verde smeraldo,  abbinandolo ad un trucco più sofisticato del solito.
Entrai nel crossover bianco e d’impulso gli gettai le braccia al collo, felice ed emozionata come un’adolescente. Lui ricambiò il mio abbraccio, affondando il viso tra i miei capelli: ci guardammo a lungo, senza parlare.
Avevo conosciuto Stefano proprio durante le lezioni del corso di pittura, alcuni mesi prima:  mi aveva colpito sin da subito, soprattutto per quel suo sguardo profondo, che spesso  mi capitava di incrociare tra un cavalletto ed un altro, messo in risalto dal suo viso, leggermente abbronzato e incorniciato dai suoi capelli castano mossi. Dopo un paio di lezioni ci trovammo a scambiare qualche parola e seppi così che era un professore di lettere, di un paio d’anni più grande, che insegnava in un istituto tecnico di Napoli.
Stefano si rivelò una persona dai modi delicati, con un tono di voce pacato e rassicurante, mai invadente, con cui subito entrai in sintonia. Inoltre non potei fare a meno di apprezzarne il sorriso aperto e sincero. Nelle settimane a venire cominciammo a conoscerci meglio e mi confidò che era separato dalla moglie, da cui, con suo grande rammarico, non aveva avuto figli; con molta naturalezza io gli raccontai dei miei problemi con Luciano, trovando in lui un interlocutore attento e discreto.
Ben presto mi resi conto di pensare più volte, nell’arco delle mie giornate, a quel sorriso, a quegli occhi, a quella voce… Non vedevo l’ora che arrivasse il giovedì per poterlo rivedere: ogni pretesto era buono per cercarci con lo sguardo o per accorciare le distanze, sfiorandoci. Quando ero vicina a lui, mi sentivo bene, rilassata e viva, mi sentivo a casa.
***********************
In quell’intimo abbraccio nella sua auto, le nostre labbra suggellarono un bacio a lungo desiderato e, in un cielo senza nuvole, lievi pennellate di oro e arancio tratteggiavano il tramonto ideale di quell’ intesa perfetta.
Ci muovemmo di lì per non dare troppo nell’occhio e percorremmo i tornanti che si susseguono lungo il quartiere collinare di Posillipo, mentre dal finestrino ammiravo, come fosse la prima volta, le luci in lontananza delle auto in corsa e delle case che timidamente cominciavano ad illuminare la baia partenopea, inerpicandosi fin su le pendici del Vesuvio, inebriata dall’arietta frizzante della sera e dall’inconfondibile odore di salsedine.
Rallentando dopo un chilometro, Stefano accostò sulla destra della carreggiata, nel punto in cui, dal promontorio che domina il mare, appare adagiata sull’acqua l’isoletta di Nisida, legata alla terraferma da un sottile lembo di terra. Scendemmo dall’auto e ci incamminammo verso il muretto di protezione: ci catturò immediatamente la visione della collina a strapiombo sulla striscia di cemento che conduce all’ isola, sede del penitenziario minorile.
Nel raggiungermi, Stefano mi cinse delicatamente la vita. “Sai che esiste una leggenda su questo posto?”, esordì con lo sguardo rivolto verso l’orizzonte.
“Ah sì?”, risposi incuriosita, con un’espressione volutamente infantile.
“La leggenda racconta di un ragazzo, di nome Posillipo, che si era follemente innamorato  di una giovane donna, Nisida appunto. Lei, tanto bella quanto insensibile, dapprima lo ammaliò, poi non ne volle più sapere. Invano il giovane tentò di conquistarla, niente però scalfì il suo cuore, così Posillipo decise di farla finita e un giorno si gettò in mare.”
“Che storia triste…”, riflettei a voce alta, mentre, voltandomi, notai la nube scura che attraversava gli occhi di Stefano.
“ Già…” proseguì. “Ma il fato decise che, lungo la sua caduta, Posillipo venisse trasformato in un promontorio, mentre a Nisida toccò la sorte di divenire uno scoglio, posto proprio di fronte a lui, da cui il giovane avrebbe potuto osservarla per l’eternità”.
“ E’ la storia di un amore impossibile…”, osservai.
“La storia di due realtà vicine, molto vicine, destinate a non incontrarsi mai. Proprio come noi, Marisa”, concluse lui amaramente. “Il mio stato d’animo è questo, ti sento mia, ma non come vorrei, sento che ci lega qualcosa di forte e profondo. Poi, se torno alla realtà, vedo  estendersi il mare tra di noi”.
“Sì, però Nisida era una donna fredda e spietata…”, aggiunsi con un nodo in gola.
“Già, Nisida era una malafemmena, tu invece, piccerella mia, sei tutto ciò che un uomo può desiderare, non potrei chiedere di più, se non fosse che sei legata ad un altro”, continuò, guardandomi come fosse la prima volta.
Prendendomi il viso tra le mani, mi baciò nuovamente ed io ricambiai. Sentivo il suo desiderio crescere sempre più, mentre le mani scivolavano lungo i miei fianchi, accendendo il mio corpo. D’istinto lo allontanai.
“Perdonami Stefano”, proruppi, mentre controvoglia mi liberavo dal suo abbraccio. “Per poterti amare come voglio, ho bisogno di sentirmi del tutto libera. Lo devo anche alle mie figlie”.
“Non dire niente, amore”, e nel pronunciare quelle parole, mi strinse a sé.
Il giorno dopo telefonai a Luciano, chiedendogli se potevamo vederci: lui accettò. Così quel pomeriggio, dopo il pranzo a casa di mia madre e dopo aver salutato le mie bambine, tornai allo studio in preda ad uno stato di inquietudine: non so cosa mi aspettassi da quell’incontro, o forse lo sapevo.
Con la signora Santoro mi accordai per sottoporla ad una perizia, al fine di un’eventuale quantificazione del danno estetico da lei subito. Vidi in seguito un altro paio di persone e poi salutai Massimo che andò via prima del solito.
Riuscii così a trovare il silenzio necessario per poter affrontare la serata con mio marito.  Immaginavo che probabilmente lui avesse una relazione, ma per me oramai non aveva alcuna importanza. Ciò che sapevo per certo è che amavo un’altra persona.
Luciano arrivò verso le 19.00. Era scuro in volto. Accennando un laconico saluto, mi accolse in macchina e si incamminò verso Mergellina; di lì proseguì in cerca di un posto tranquillo dove fermarci, per cui salì su Via Petrarca. Dopo poco accostò per parcheggiare.
Rimanemmo in macchina alcuni minuti, senza proferire parola. Oltre la ringhiera panoramica, quella sera il mare era una tavola immobile. In lontananza il Castel dell’Ovo si stagliava contro il Vesuvio, sporcato da una leggera foschia: infatti, contrariamente alla serata precedente, c’era un’afa opprimente. Mi sentivo soffocare.
Luciano si voltò verso di me. “E allora posso sapere il motivo di quest’incontro? Cos’è che dovevi dirmi di tanto urgente?”, mi chiese seccato.
“Non lo immagini proprio? Credi che possiamo ancora andare avanti così?”
“Ah, ho capito”, rispose in tono sarcastico. “Vuoi sbarazzarti di me, perché ti sei messa con un altro, vero?”.
A quelle parole rimasi spiazzata, come faceva a sapere?
“Perché dici così? Se non sbaglio, quando ti ho chiesto di prenderci una pausa, non hai battuto ciglio: hai fatto la valigia e sei andato a stare da tuo padre”, ribattei, preparandomi al peggio.
“E ora vorresti fare la santarellina? Ti ho visto sotto il portone con quello lì, ti fai pure accompagnare a casa?”. Il suo tono di voce era freddo, ma i suoi occhi cominciavano ad arrossarsi. Probabilmente Luciano mi aveva visto qualche volta, quando capitava che Stefano mi scortasse dopo il corso.
“ Lui è un insegnante che frequenta il corso di pittura… Ma il punto è un altro. Noi due ormai non ci amiamo più’, te ne sarai accorto immagino?”
“Fammi il piacere e non trovare scuse per potertela spassare. Dì la verità ci sei stata a letto?!”. Luciano cominciava ad alzare il tono della voce, mentre il suo corpo si irrigidiva.
“Non è come pensi tu!”. Ero sul punto di scoppiare a piangere.
“Smettila con questa sceneggiata, sei solo una stronza! Che razza di donna ho sposato?!”, cominciò ad urlare, mentre i passanti ci guardavano con aria di disapprovazione. “Sai che ti dico? Andate al diavolo tu e il tuo professore da quattro soldi, tientelo pure se ci tieni tanto, non me ne frega più un accidente!”, urlò.
Luciano mise in moto e ripartì sgommando. Io non riuscivo a trattenere le lacrime e nel frattempo gli chiedevo di calmarsi e ragionare. Fuori era ormai buio: terrorizzata, vedevo  la terrazza panoramica sulla destra scorrere sempre più velocemente e la scia luminosa sull’acqua, di una luna incredibilmente piena ed abbagliante, sembrava starci dietro a fatica.
Mio marito continuava ad accelerare, percorrendo in discesa la strada e zigzagando tra i tornanti.  Lo supplicavo di rallentare, mentre il mio corpo diventava di pietra. In una frazione di secondo due luci abbaglianti inondarono prepotentemente la carreggiata. Misi le mani davanti agli occhi per proteggermi, l’impatto fu violentissimo, sentii i vetri andare in frantumi e lo stridio delle lamiere, dolori lancinanti sul viso, sul petto, sulle gambe… Poi il nulla.
***********************
E’ trascorso più di un anno da quel giorno maledetto.
Luciano nell’impatto purtroppo perse la vita. Io mi sono salvata per miracolo, anche se oggi sono ancora visibili, sul mio corpo, i segni di quel terribile incidente.
Le cicatrici forse un giorno spariranno, ma i segni dell’anima, quelli no, non spariranno mai.
Dai rilievi stradali della polizia è emerso che mio marito non cercò di frenare, per evitare l’impatto col furgone.
Tante, troppe volte ho cercato un perché. Forse in un attimo di follia voleva negarmi ogni possibilità di essere felice, forse voleva farmi pagare l’abbandono da parte di sua madre.
Durante questi mesi terribili ho potuto contare sull’amore di Stefano, il mio uomo, che non mi ha lasciato sola neanche un secondo, su quello di mia madre, ma soprattutto delle mie figlie. Le ragazze sanno che il papà è morto nell’incidente e in futuro non so se riuscirò a spiegare loro quello che è successo veramente.
Di una cosa però sono certa: ho avuto tanta fortuna, la vita mi ha dato un’altra possibilità, penso ad altre donne che invece, nella mia stessa situazione, non ce l’hanno fatta. In fondo desideravo solamente poter continuare a vivere, desideravo finalmente provare a volare.

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    PAOLA SALZANO

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