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Psicologia clinica

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Viale Verona
Trento
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Psicologia clinica

Viale Verona, Trento

–  Buongiorno Tanya, accomodati.
–  ‘giorno.
–  Diamoci del tu, ti va?
–  Come vuoi.
–  …
–  …
–  Come mai sei qui?
–  Mi hanno obbligata. Ho diciassette anni e non posso oppormi.
–  Lo avresti fatto?
–   Io non ci volevo venire.
–  Perché?
–   Perché cosa?
–  Perché non ci volevi venire e perché sei qui.
–  Non lo sai?
–  No.
–  Non ci credo.
–  …
–  …
–  …
–  Uff, va bene, hai vinto. Sono qui perché sono incinta e il medico non vuole farmi abortire.
–  …
–  …
–  …
–  Ha detto che questa volta no, quello stronzo, e che se voglio abortire devo andare da un altro medico. Ma mia nonna ha detto di no, che non mi portava da nessun altro e che dovevo accettare le conseguenze di quello che facevo. È stato lui a dirle di farmi venire qui.
Io non sono matta.
Quando i miei amici scopriranno che vado dallo psicologo mi prenderanno in giro per l’eternità e mi daranno della pazza.
Io non sono pazza.
–  Nessuno dice che lo sei.
–  Ecco, non lo sono. È stato il dottore, quello che stavolta non vuole farmi abortire. E tra quattro mesi sarà troppo tardi.
–  Cosa succede tra quattro mesi?
–  Compio diciott’anni e non dovrò più fare quello che dicono i nonni.
–  …
–  I genitori non ce li ho, vivo con i nonni da quando avevo dieci anni.
#
– Sono figlia unica, i miei hanno avuto soltanto me. Non so se mi volessero bene, probabilmente sì, a modo loro. Però facevano solo danni, non so se mi spiego.
Mi sgridavano tanto e io mi arrabbiavo con loro. Spesso litigavano, ma poi facevano sempre pace e venivano da me e mi chiedevano scusa e mi abbracciavano. Erano buoni genitori, mi portavano dolci e caramelle e giocattoli. Ero anche brava a scuola. Quando portavo a casa dei bei voti loro mi premiavano. Ma bastava un niente per far sì che litigassero: la mamma diceva qualcosa, il papà si arrabbiava, la mamma si arrabbiava di più e così via.
Quando morirono, mi trasferii dai nonni. Qualcuno aveva pensato che sarebbero venuti loro a stare a casa mia, io mi ricordo che a un certo punto mi chiesero cosa preferivo. Risposi che volevo andarmene da quella casa perché quella era la casa di mamma e papà e se loro non c’erano più allora non ci dovevo essere nemmeno io. La nonna stette zitta e cominciò a preparare i bagagli, dopo poche settimane la casa di Lavis era in vendita. Ne fecero un condominio e otto appartamenti.
In un certo senso sono contenta che sia andata così, non avrei sopportato di vedere altri genitori e altri bambini in quella che era la mia casa. Chissà, magari gli avrebbe pure portato male. Invece adesso non c’è più, è sparita. Un condominio nuovo, abitato da gente che non sa.
Ero piccola e non ho che un ricordo confuso di quel periodo. Ricordo che ultimamente i miei andavano d’accordo, era un bel pezzo che non litigavano. Papà riusciva a tenersi un lavoro e mamma aveva riaperto il negozio. Una sartoria, sotto casa. Accorciava pantaloni e gonne, attaccava bottoni, cambiava cerniere… faceva tutte quelle cose che le altre signore non volevano o non potevano fare. Aveva la macchina da cucire e tanti aghi diversi. A me piacevano i fili colorati e spesso il pomeriggio stavo in negozio con lei, intrecciandoli insieme, finché non se ne accorgeva e sgridandomi mi obbligava a disfare le trecce e rifare i gomitoli. Penso avesse capito che mi divertivo, però, perché mi lasciava fare e non si arrabbiava mai più di tanto.
Comunque sia, in quell’ultimo periodo ero io quella scontrosa. Ce l’avevo con lei e con il papà perché non erano come gli altri genitori: mi facevano vergognare. Era cominciato quando a scuola ci chiesero di raccontare del lavoro dei genitori e io dovetti rispondere. Papà in quel periodo lavorava per una ditta di spurghi e tutti i bambini risero di me, dicendo “tuo papà lavora con la cacca!”. Mi sentii malissimo: come mai i genitori degli altri avevano lavori normali e i miei no? Così quella sera tornai a casa piangendo e mi arrabbiai con mio padre perché faceva un lavoro imbarazzante. E la mamma invece di prendere le mie difese e darmi ragione, come avrebbe dovuto fare, si schierò dalla parte del papà, contro di me. Non gliela perdonai e per tutta la settimana successiva mi rifiutai di scendere in negozio. Quando mi parlavano rispondevo male ad entrambi e ricevetti anche qualche sberla per questo. Non m’importava, ero arrabbiata con loro. Penso di aver detto cose irripetibili, di aver urlato che non volevo che fossero più i miei genitori e alla fine, esasperati, mi dissero che mi avrebbero mandata un paio di giorni dai nonni per schiarirmi le idee.
I genitori di mia madre, sì. Abitavano a Gardolo, nella parte vecchia.
Ricordo il telefono che squillò ad un orario strano, io ero già a dormire da un bel pezzo. Il nonno si mise il giaccone per uscire e la nonna in vestaglia mi riaccompagnò in camera, dicendomi di tornare a dormire, che avevano sbagliato numero. Ricordo uomini vestiti di nero in giro per casa, alcuni in divisa, e ricordo che mentre il nonno rimaneva con me la nonna uscì e tornò con la valigia grande, quella delle vacanze lunghe, piena di tutte le mie cose. Ricordo lacrime e le due bare e il funerale cui non mi fu chiesto di andare. Ricordo il cemento e le lastre bianche provvisorie, in attesa di quelle con i caratteri dorati e le fotografie. Lo scelsi io, l’oro, insistetti con la nonna. Volevo che i miei genitori avessero il nome scritto con caratteri splendidi e lucidi.
Per un po’ non andai a scuola, non saprei dire quanto. Forse finché non fu di nuovo caldo. I compagni di classe erano strani, mi guardavano in modo diverso. Io detestavo sentirmi diversa, così facevo di tutto per essere normale, per essere una di loro. Non mi piaceva che dicessero di me “poverina, è quella che ha perso i genitori e vive con i nonni”.
#
– Sì, è la terza volta che resto incinta. Alcuni dicono la quarta, ma in realtà uno è stato un falso allarme. Lo so perché ho fatto il test, ormai so come funziona. Solo che stavolta quello stronzo del medico ha detto che me lo devo tenere, che non mi aiuterà. E secondo me non è giusto, non ho nessuna voglia di avere un bambino.
Anche le mie amiche mi chiedono sempre perché io ed Erik non prendessimo precauzioni. Cioè, non è che non ne abbiamo mai prese. Ci siamo messi insieme qualche anno fa, avevo tredici o quattordici anni. Lui diciassette. Insomma, ci siamo messi insieme e dopo poco abbiamo cominciato a farlo. Mia nonna mi ha mandata dal dottore e lui mi ha prescritto la pillola; per un po’ l’ho presa, però mi faceva ingrassare e così ho smesso quasi subito. Insomma, non è che si rimane incinte tutti i giorni, basta stare un po’ attenti. E noi stavamo abbastanza attenti, di solito. Come tutti ogni tanto eravamo un po’ distratti, ma credo sia normale. Il preservativo non lo usavamo sempre, nemmeno quello. No, mi dà fastidio, non sento praticamente niente se lo usiamo.
E no, io ed Erik siamo una coppia fissa ma non abbiamo l’esclusiva. Frequentiamo anche altra gente, diciamo che siamo una coppia aperta. Comunque non sono qui per parlare delle nostre scelte in fatto di sesso, non sono fatti tuoi. Sappiamo delle malattie e sappiamo dei rischi, ma in certi momenti non è che il tuo primo pensiero sia quello. E quindi sì, ogni tanto ci distraiamo e capita che io rimanga incinta. Le altre due volte ho abortito e questa volta quello stronzo del dottore non vuole mandarmi in ospedale. Invece mi tocca venire qui da te, come se fossi matta.
#
– Spero di non ingrassare troppo, dicono che la gravidanza faccia ingrassare e c’è gente che mette su decine e decine di chili che poi non perderà mai più. Se ingrasso nessuno mi vorrà più, i ragazzi non mi guarderanno e rimarrò sola tutta la vita. Ormai a scuola lo sanno tutti che sono incinta e ogni tanto qualcuno mi dà della troia: Erik mi ha lasciata dicendo che il bambino non è suo e la voce ha fatto presto a fare il giro della città. Credo proprio che abbia ragione, ho fatto qualche calcolo ed effettivamente è praticamente impossibile che il bambino sia suo. Però non saprei dire nemmeno io di chi è figlio esattamente, eravamo in piena estate e quello è stato un periodo veramente pieno di feste. Ma non importa, no? Tu non mi chiederai certo di chi è questo bambino, a te non importa un bel niente, come a tutti gli altri. A te importa solo che ti paghino e che io venga qui a parlarti – ma forse anche se stessi zitta non cambierebbe niente, tu verresti pagato lo stesso e non dovresti stare qui ad ascoltare la storia di una ragazza di cui non ti importa proprio nulla. Odio quando fai quella faccia idiota, sai? Potresti dirmi qualcosa, ogni tanto, una cosa qualsiasi, giusto per farmi capire che ti interesso e che te ne frega qualcosa di me. Invece no, sei come gli altri, mi lasci parlare ma non mi ascolti mai e non capiresti, non capisci, non puoi capire.
– Cosa, non capisco?
– Niente, non puoi capire niente. E non capirai mai niente. La nonna, non mi ha mai sgridata. Tutto quello che facevo le andava bene. Prima no, prima non era così, ma dopo che i miei sono morti è stata sempre troppo buona. Come se mi compatisse. Io detesto la compassione.
Così provavo a fare di tutto per scioccarla, per far sì che si arrabbiasse con me come faceva la mamma e che mi sgridasse un po’. Andavo male a scuola, ma lei mi diceva cose tipo “non preoccuparti tesoro, recupererai”. E poi ho scelto quella scuola che non mi piaceva e l’ho scelta completamente a caso, soltanto perché ci andavano le mie amiche. E le ho portato a casa Erik e una volta ci ha trovati nudi sul divano ed è stato in quel momento che mi ha accompagnata dal dottore che mi ha parlato e mi ha dato la pillola.
La prima volta che sono rimasta incinta un po’ avevo paura di dirglielo ma in un certo senso ne ero anche contenta. Sapevo che era la volta buona, che mi avrebbe sgridata e si sarebbe arrabbiata, invece niente. Mi ha accompagnata dal dottore e poi in ospedale senza dirmi una parola. Mi guardava in modo strano, a metà tra il deluso e il compassionevole, e io quello proprio non lo sopporto.
La seconda volta è stato uguale e adesso non mi guarda quasi nemmeno più.
Il nonno è morto qualche anno fa.
Ma forse se ingrasso le farò schifo e me lo dirà e la disgusterò – certo, faccio prima a trovarmi disgustosa io. Io non voglio ingrassare, e se poi quando avrò partorito rimango grassa? I ragazzi non mi vorranno più, sarebbe terribile.
Io non voglio restare sola.
#
– Guarda che schifo, ora si vede la pancia. Non lo posso più nascondere, meno male che è inverno e quando esco metto il giaccone. Se fosse estate sarebbe peggio, invece ancora i professori a scuola forse non se ne accorgono. Lo so che dovrò lasciare la scuola per qualche tempo e probabilmente mi bocceranno, ma poi posso sempre continuare l’anno prossimo oppure lasciar perdere e trovarmi un lavoro. Pensavo che potrei iscrivermi alla scuola per estetiste e poi aprire uno studio tutto mio. Ma devo ancora decidere, intanto devo vedere come fare nei prossimi mesi.
Io questo bambino non lo voglio. Sarà un maschio, a quanto mi dicono, ma io sono giovane e mi voglio divertire. Lo darò in adozione. Non ho nessuna intenzione di rovinarmi la vita per fare la mamma, ho solo diciotto anni.
E soprattutto per quanto cazzo di tempo dovrò ancora venire qui da te a rompermi i coglioni?
#
– Ogni tanto calcia, sta cominciando a starmi simpatico. Sì, un maschio. Mia nonna ha detto che se voglio lo posso tenere, che non devo farmi problemi e che non sono obbligata a darlo via. Ma non sono nemmeno obbligata a tenerlo. Ci penserò, intanto continuo così. L’altro giorno ero in ospedale per una visita e mentre ero in fila alle casse ho conosciuto un ragazzo – ok, lo so, detto così sembra idiota. Conoscersi in ospedale è stupido.
Però questo ragazzo non mi conosceva nemmeno di vista o per sentito dire, non abbiamo ancora trovato nessun amico in comune. Ed è strano, perché da queste parti alla fine ci si conosce più o meno tutti, mentre lui appunto non lo conoscevo. Si chiama Marco e siamo usciti a bere una cioccolata calda come si faceva quando andavamo alle scuole elementari – o come fanno i vecchi.
Marco è carino, non uno di quelli che appena lo vedi pensi “che figo”, però è carino. Ed è simpatico. E intelligente. Abbiamo parlato di un sacco di cose, ci vediamo anche domani. Con lui mi trovo bene. È una cosa stupida, lo so, ma lui mi fa sentire diversa, quasi quasi mi fa desiderare di essere diversa. A volte mi fa anche sentire un po’ in colpa.
Ad esempio, quando la settimana scorsa gli ho raccontato di come è successo che sono incinta e che effettivamente non sono ben sicura di chi sia il padre e che non so ancora cosa voglio fare del bambino. Lui mi ha guardata e non ha detto niente, ma capivo che mi disapprovava. E io mi sono sentita improvvisamente stupida e sciocca e così infantile e vorrei  a tutti i costi dimostrargli che sono migliore, che posso essere migliore, che posso cambiare.
Mi sa che mi sto innamorando di lui.
#
– Oggi è l’ultima volta che vengo qui, anche se ormai non sono più costretta a venire mi dispiaceva sparire nel nulla senza farti sapere come è andata.
Il bambino l’abbiamo chiamato Luca. Marco ha detto che gli piaceva l’idea di fare il padre e così alla fine l’abbiamo tenuto. Adesso viviamo tutti e tre insieme, ci siamo trasferiti da poco: i primi giorni io e Luca stavamo in casa con la nonna, ma non era giusto rimanere a vivere con lei.
Le prime settimane sono state difficili: non credevo che un bambino desse tutto quell’impegno, ecco perché insistono tanto con le precauzioni e non restare incinta e tutto il resto. Comunque ormai ho capito come fare e io e Marco vorremmo avere presto un secondo bambino. Per il momento lui lavora e io mi prendo cura della casa, anche se a volte faccio fatica e vorrei ricominciare a uscire con le altre ragazze della mia età.
Altre volte le guardo e penso che sono tutte delle bambine, che non sanno cosa vuol dire avere famiglia e responsabilità e tutto il resto. Capirai, loro vanno ancora a scuola e la loro massima preoccupazione è quella di trovare come vestirsi o il trucco o i capelli. Io invece adesso mi devo preoccupare di Luca, che non si faccia male, di cambiarlo, dargli da mangiare e farlo dormire, di far trovare i vestiti puliti a Marco, pulire la casa, fare da mangiare e tutto il resto. Sono una donna adulta, ormai.
Ed è proprio perché sono una donna adulta che non tornerò a scuola. Non mi sembra davvero il caso, non riuscirei a stare seduta nei banchi insieme a quelle ragazzine. Loro sono piccole e sciocche, non abbiamo nulla in comune e trovo i loro discorsi davvero infantili. Non durerei tre giorni insieme a loro, quindi no, a scuola non ci torno. Senza contare che i professori ti trattano da bambina, mentre io sono un’adulta e sono ormai abituata ad essere trattata da adulta. Cercherò un lavoro, quando Luca sarà un po’ più grande e potrà stare da solo con la nonna.
E siccome sono adulta, sono cambiata e sono più responsabile. Per questo non ho più bisogno del tuo aiuto, di venire qui a parlare e parlare mentre tu non mi dici nulla. Questa è l’ultima volta che mi vedi, d’ora in poi me la cavo da sola.

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