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Break on through
Scheda Verificata

Scheda Verificata

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Break on through

Via Giustino Fortunato
75100 Matera
Gialli e Thriller Racconti
1 Review
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“Break on through”

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Matera, oggi.
GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO
“Terribile incidente sulla strada tra Matera e Santeramo. Un morto e tre feriti”
E’ il tragico bilancio della notte scorsa sulla strada provinciale che collega la città di Santeramo con Matera. Un auto con a bordo quattro ragazzi, tutti tra i venti e i trent’anni, si è scontrata con un’auto che procedeva in senso opposto finendo fuori strada. I quattro ragazzi, tutti di Matera, sono i componenti di una rock band che si era esibita in un locale della cittadina pugliese.
Matera, tre giorni fa.
Break on through
Break on through
Break on through
Break on through
Yeah, yeah, yeah, yeah
Yeah, yeah, yeah, yeah, yeah
Le ultime note vibrano ancora nell’aria, assieme alle mie corde vocali esauste. Il pubblico grida, fischia, applaude e reclama il solito bis che non ho intenzione di fare. Voglio scendere dal palco, ho voglia di bere. Tanto. Mi si avvicina Filippo, il tastierista, sorridente come sempre alla fine di ogni concerto. Non capisco perché.
– Oh… Marco – mi costringe a guardarlo – e facciamolo un cazzo di bis una volta!
– Non ne ho voglia, sono stanco.
Scendo dal piccolo palco e muovo tra i tavoli diretto al bar. Passo tra la gente in piedi ad applaudire. Mi piovono addosso complimenti, pacche sulle spalle e pollici in su.
Bravissimo! Siete bravissimi! Sei un grande Marco!
Guardo tutti. Accenno un sorriso, ma ignoro tutti. La musica che canto è solo mia, per me e nessun altro. Essere il vocalist dei Break on through è l’unico modo per poter fare questo. Solo facendola uscire da me per poi rientrare in me mi da piacere. Che ci sia una piazza ad ascoltarmi o nessuno è la stessa cosa. Me ne fotto del successo.
– Mi dai una birra!
– Certo! – la ragazza dietro il bancone mi sorride. Protende verso di me e mi parla all’orecchio con un soffio – che fai più tardi?
La guardo. Le sorrido appena, ma solo per farle capire che sono su questo dannatissimo pianeta. Noto il piercing sul sopracciglio. Dovrebbe averne un altro da qualche altra parte… se non ricordo male.
– Mi ubriacherò e poi andrò a dormire.
– Se vuoi ti faccio compagnia, non ti garantisco dormiremo… ma devi aspettare la chiusura!
– Aspetto.
Sento il suo sguardo su di me mentre spilla. Mi serve la birra dopo due secondi. Io fisso il nulla. Non penso a nulla. A distrarmi dal nulla la voce di Giovanni, il chitarrista. Mi siede accanto, su uno dei trespoli che spacciano per sedie. E’ euforico, purtroppo per me.
– Oh, Marco, abbiamo spaccato anche stasera! – e mi da una pacca sulla spalla che non sopporto – fra tre giorni a Santeramo il pub ci crollerà addosso!
Magari, penso, desideroso di conoscere cosa c’è … to the other side! E’ questo il senso del nome del gruppo, ma nessuno l’ha capito… tranne Silvia.
Faccio una smorfia che nascondo dietro il boccale.
Come cazzo si chiama la ragazza?
– Marco, però almeno a Santeramo un bis lo facciamo?
Che rottura!
– Ma perché è così importante fare il bis?
– Perché è il pubblico che lo chiede!
Me ne fotto del pubblico, la musica è solo per me!
– Senti… sono stanco! Non ho voglia di parlarne adesso.
Sorseggio la birra.
– Tanto lo so che non lo farai – si rabbuia, mi da quasi le spalle e chiede una birra alla stessa ragazza che dopo mi scoperò – comunque dopo Santeramo dobbiamo iniziare a provare per le audizioni a Bari, te lo ricordi?
Me lo ricordo.
Gli rispondo con un accenno del capo.
– Se andiamo bene, possiamo andare a Milano per il provino a X factor.
Non me ne fotte un cazzo!
– Sarà la centesima volta che me lo dici.
Bercio senza guardarlo vedendo il suo volto riflesso nello specchio dietro il bancone.
– Forse perché ci tengo a far bene, non credi?
Mi giro e lo guardo accigliato.
– Hai rotto il cazzo.
Attiro l’attenzione dei pochi attorno a noi. Mi alzo ed esco fuori a fumare. Passo tra la gente dopo aver sentito Giovanni mandarmi a cagare. E’ la cosa più volgare che riesce a dire, gli anni a suonare l’organo in chiesa hanno inibito il suo cervello alla bestemmia. Ora non mi parlerà più fino a domani, quando ci vedremo per le prove.
Esco dall’Arcipicchia. L’aria fresca mi ritempra. Siedo su delle scale lì vicino.
Solo.
Bevo e fumo.
Quando sono a pochi metri da casa sento già il magone di rabbia in fondo allo stomaco. Il cellulare segna le tre del mattino. Mio padre sta urlando contro mia madre. Le parole che usa sono sempre le stesse da anni, sgualdrina, schifosa, donna senza valori e chiude sempre con puttana la ciliegina sulla torta. Poi il corollario delle vessazioni verbali si arricchisce di qualche bestemmia a tema cattolico cristiano. E per concludere con le percosse. La loro quotidianità è questa.
Stasera sono arrivato appena in tempo, non l’ha ancora picchiata, posso ancora evitare che succeda per l’ennesima volta. Mio padre è un artista della violenza, ogni colpo inferto non lascia mai segni evidenti su mia madre, quantomeno nelle parti a vista. Le sue mani hanno la durezza del marmo e la sua sua forza è quella di un toro.
Entro in casa.
Quando mi chiudo la porta alle spalle vedo mia madre rannicchiata sul divano nel suo solito gesto di autodifesa. Non fiato, solo un piccolo rantolo di lamento. Non serve a niente replicare con lui. Lei ha gli occhi pieni di terrore. Lui è convinto che lei lo tradisca da anni, in pratica da sempre. Io sono convinto che lui non ci sta molto con la testa. Beve come una spugna, da che io ricordi ed è peggiorato da quando ha perso il lavoro. Ora lavora come vigilante notturno, ora hanno pure una pistola.
– Lasciala stare.
Ho urlato.
Fisso mio padre che si raddrizza. Mi guarda quasi fossi un estraneo. In cuor suo lo sono e sento di esserlo. L’uomo che ho di fronte per me è solo colui che mi ha messo al mondo, per il resto è un occupante della casa.
– Vattene al diavolo!
– Non la toccare.
Faccio un passo verso di lui. Da quando avevo dieci anni prendo botte al posto di mia madre. Da bambino le facevo scudo con il corpo, ma da alcuni anni ho iniziato a reagire, a difendermi per non essere ucciso. Oggi saprei uccidere mio padre a mani nude.
Ho brivido lungo la schiena nel rivedere i miei nei suoi.
– E’ tornato il figliol prodigo!
Un altro brivido per il suo sorriso arcigno.
Sento l’alito grave di alcool.
– Sei un vigliacco, perché non te la prendi con me?
Per un attimo vedo la paura attraversare i suoi occhi.
– Non ho paura di te – e guarda un attimo mia madre – tua madre non è quello che vuol farci credere.
– E allora lasciala, trovati una puttana da portarti a letto e da picchiare, visto che godi così tanto nel farlo.
Mio padre abbassa lo sguardo. Vedo la mandibola serrarsi. Ride appena con amarezza. Poi va via.
Mia madre si alza e mi si avvicina spaventata. La guardo. E’ una spanna sotto di me.
– Perché non vi lasciate?
Tutta la tristezza di una vita con un uomo che forse non ha mai amato le attraversa il corpo e la priva di ogni energia. Si lascia andare nuovamente sul divano a fissare il vuoto.
– Non è un uomo cattivo… è solo… solo troppo geloso, poi il lavoro… tante cose…
Sorrido incredulo. Mia madre non ha spina dorsale, questa è l’unica verità. Scuoto la testa incredulo. Non c’è speranza. Non c’è soluzione. Voglio andar via da questa casa, ma mia madre non vivrebbe a lungo da sola tra queste mura.
– Se lo lascio solo… forse…
Inizia a piangere. Non dice altro.
Forse si spara un colpo in bocca e siamo tutti più felici.
Non ho voglia di starla ancora a sentire. Il suo egoismo mi nausea, ma è sempre mia madre. Sembra quasi non voglia ricordare tutte le volte che da bambino ha dovuto medicarmi per le botte prese al suo posto. Sembra aver rimosso le volte che doveva mentire ai miei amici, dicendo loro che avevo la febbre, quando in realtà avevo ematomi su tutto il corpo, di quelli che tirano fuori qualche domanda di troppo.
Esco di casa senza aggiungere altro. Mi rifugio nell’unico posto che mi conforta, il terrazzo. Salgo l’unica rampa di scale tra me e quel mio spazio aperto. Apro la vecchia porta di ferro e mi ritrovo sotto le stelle. Alzo gli occhi chiusi al cielo. Lascio andare la rabbia lungo tutto il corpo e rimango lì per un tempo senza lancette.
– Ancora una serata no, vero?
La dolce voce di Silvia mi riporta dove si trova il mio corpo. Sorrido senza ancora aprire gli occhi. Quando lo faccio la vedo sedere sul cornicione gambe penzoloni nel vuoto sopra i tre piani. Sorride, come sempre lasciandomi appena contagiare.
Annuisco.
Lei è l’unico essere vivente che sento di poter amare, non trovo però il coraggio, la forza e spesso anche la voglia di farlo, ma la sua compagnia è terapeutica. Con lei sento di essere in uno stato di grazia che solo la musica sa eguagliare.
– Mi dispiace.
Mi guarda come solo chi sa amare può fare. Silvia mi ama da quando siamo diventati vicini di casa, avevamo entrambi poco più di otto anni. Diventammo subito amici, di quelli per i quali sei disposto a tutto. Lei è l’unica persona che sa tutto dell’inferno che vivo in casa mia. Quando mi apriva la porta di casa sua, fissava per un solo secondo le mie tumefazioni e non diceva nulla, mi abbracciava, mi teneva stretta a se e aspettava che tornassi a sorridere. Faceva quello che avrei tanto voluto facesse mia madre.
Ora le sono seduto accanto. Sento la sua mano sulla mia. La guardo. Conosco ogni particolare di quelle dita affusolate. Torno a guardare lontano. Di fronte a noi i Sassi con le sue stradine gialle. Ai nostri piedi la città nuova. Guardo di sotto. Ci vorrebbe un attimo e tutto sarebbe finito, risolto. Silvia stringe più forte la mia mano e mi ridesta da quel pensiero suicida come una sveglia salvifica.
– Non ci pensare neanche.
Sorride dopo avermi letto nel pensiero. La guardo. Le sorrido appena. Poi torno lontano, con occhi e mente.
– Fra tre giorni avrò ventisette anni.
Ripenso a Jim Morrison, Jimmy Hendrix, Jenis Joplin, Kurt Cobain… tutti morti a ventisette anni.
– Devi smetterla con questa fissazione di morire anche tu a ventisette anni, hai capito?
Sorrido. Poi mi rattristo.
– Sono stanco Silvia.
La guardo negli occhi. Li trovo lucidi di un pianto imminente. La sua vita familiare non è fatta di momenti tristi. La mia è fatta solo di questi. Silvia ha dei genitori splendidi che le ho sempre invidiato. Ha un fratello molto più piccolo di lei che ama come un figlio. Non mi parla spesso della sua famiglia, lo fa per non farmi star male. E’ serena ogni giorno, il suo volto parla per lei. Parte della sua serenità la dona a me, ma io ormai non riesco a godere di questo regalo prezioso.
– Se non vuoi farlo per te fallo per me.
Abbasso gli occhi e sospiro.
– Se ho ventisette anni è grazie a te.
Lascio che le nostre dita si intreccino.
Silvia piange in silenzio. Ho perso il conto di quante volte il mio pensiero va a lei, Quando annaspo nei momenti tristi e spenti lei è la mia ancora di salvezza. Da sempre.
– Perché non ti lasci amare da me? – tira via le lacrime con il dorso della mano – perché ti porti letto splendidi contenitori vuoti e a me non hai mai dato più di questo?
Mi mostra le nostre mani unite. Faccio una smorfia piena di mille parole. Guardo le nostre dita legate. Poi il nero della notte.
– Ho paura.
La paura di subire la più orrenda delle metamorfosi diventando mio padre. Ho paura che entrambi ci trasformiamo in due esseri umani che si perderanno per strada, finendo per rimanere insieme solo per non odiarsi ancor più.
Silvia lascia la mia mano.
– Ho paura anch’io, credimi, ma sogno di scappare lontano, di andare a Parigi e correre il rischio di vivere la mia vita con te!
Sorridiamo quasi all’unisono. Immagino per un attimo noi due seduti in riva alla Senna, come adesso sul cornicione, e sono felice.
– La mia amica Anita ci ospiterebbe praticamente a vita. Promettimi che un giorno ci andremo insieme?
Non le rispondo. Sa che non succederà mai, almeno fino a quando mio padre non muore. E spero avvenga prima possibile.
Matera, due giorni fa.
Sono in ritardo di quasi due ore all’appuntamento per le prove. Dopo due notti senza chiudere occhio, nel pomeriggio sono crollato come un sasso. Il telefonino era spento. Quando l’ho acceso ha preso a squillare, ma non ho risposto. Era Filippo che mi chiamava senza sosta. Mi sono alzato. Ho lavato la faccia per ritrovare parte della capacità di discernimento che ho lasciato sul cuscino. Con le sinapsi non ancora del tutto funzionanti sono uscito di casa. Nessuno ci ha fatto caso. Mio padre era al lavoro, mia madre chissà dove. Ho camminato per quasi un quarto d’ora e sono arrivato al locale. Un quarto d’ora che mi ha aiutato a svegliare del tutto i miei sensi.
Ora sono davanti il portone di ferro. Sto aspirando le ultime boccate dell’ennesima sigaretta. Sento dall’interno alcuni tiepidi accordi di chitarra. Quello che mi aspetta dentro già lo so, ma non ho molta voglia di stare a discutere. Getto la cicca lontano. Entro. Il suono si spegne. Gli sguardi si accendono. Roberto mi si avvicina a passo spedito dopo aver lasciato la chitarra.
– Marco, hai rotto le palle! – urla. Vedo il suo dito sotto il mio naso – ti credi una grande star e noi musicisti al tuo servizio, eh? Sono due ore che aspettiamo, Cristo Santo!
– Scusami.
Farfuglio, senza cercare di nascondermi dietro scuse puerili. Tolgo la giacca e mi preparo a cantare.
– Scusa un cazzo! – è la volta di Filippo a urlare.
Mi giro e lo fisso. Sento la rabbia montarmi. Poi penso che davanti a me non ho mio padre e gli sorrido.
– Che cazzo ridi!
Filippo si avvicina rapido come un gatto e mi spinge, facendomi barcollare. Vuole litigare. Io no, con lui no.
– Rido quanto cazzo mi pare.
Rido ancora. Filippo perde le staffe e mi colpisce con un pugno sullo zigomo. Barcollo ancora, ma resto in piedi, facendo cadere l’asta del microfono. Sento un dolore acuto sulla pelle. Mi porto una mano dove ho ricevuto il colpo. Le dita si sporcano di sangue. Mi raddrizzo. Vedo Giovanni e Roberto tenere Filippo per le braccia.
– Ma chi ti credi di essere, eh? Tu non sei nessuno, solo un perdente con la fortuna di avere una buona voce, ma per il resto sei niente!
Filippo ringhia, liberandosi della presa degli altri due.
– Non hai rispetto per nessuno! Non te ne frega un cazzo, questo è!
Mentre parla lo fisso, cercando di pulire il sangue con la mano.
– Se lo dici tu!
– Marco, smettila! Filippo ha ragione, siamo stanchi di questo tuo modo di fare, siamo un gruppo e dobbiamo rispettarci a vicenda. Se non ti sta bene… te ne devi andare!
I miei occhi fissano quelli di Giovanni. Lo scruto a fondo. E’ deciso.
– Ok, dopo Santeramo me ne vado! Ora proviamo!
Alzo l’asta del microfono. La regolo alla mia altezza e aspetto che i tre prendano posto dietro gli strumenti. Roberto mi si avvicina e mi porge un fazzoletto.
– Pulisciti, appena finiamo andiamo al pronto soccorso, hai bisogno di punti!
– Lascia stare.
Prendo il fazzoletto e tampono la ferita che brucia.
I Nirvana. I Doors. Hendrix e poi ancora Nirvana. Led Zeppelin. Black Sabbath. Metallica. Red hot chili peppers.
– L’ultima.
Ho la gola in fiamme.
Iniziano le note di Rape me dei Nirvana. Mi immergo nelle note e mi lascio violentare dall’onda delle parole graffianti.
Rape me
Rape me my friend,
Rape me,
Rape me again.
I’m not the only one
Hate me,
Do it, and do it again.
Waste me,
Rape me, my friend.
My favorite inside source,
I’ll kiss your open sores,
Appreciate your concern
You’ll always, stink, and burn.
Rape meeeeeeeeeeeeeeeee!
Il bruciore sul taglio fa male, mentre Silvia me lo disinfetta.
– Sei deciso a non andare al pronto soccorso?
– Si.
– Mmmmh… ti rimarrà la cicatrice, se il cerotto non chiude perfettamente, lo sai?
La guardo stando in quella posizione scomoda seduto a guardare il soffitto di casa sua.
– Una in più non farà differenza.
I nostri occhi si ritrovano. Lei affonda il suo nel mio. In quel riflesso rivedo i nostri anni trascorsi insieme. Mi sento fortunato ad averla nella mia vita. Persone come Silvia sono uniche.
– Scemo.
E’ sorridente. Sento un magone d’amore allo stomaco.
– Perché ci sei sempre?
Sadicamente anticipa la risposta tamponando con dell’altro alcool etilico e stringo i denti per la sofferenza.
– Perché senza di me non andresti da nessuna parte!
E’ verissimo. Torno a fissare il soffitto senza perdere il sorriso e l’aura di felicità nella quale c’è anche Silvia… è lei ad alimentarla.
– Ho deciso di lasciare il gruppo.
Silvia si ferma. Era in procinto di applicare il cerotto.
– Davvero?
– Gli altri si sono incazzati perché ho fatto quasi due ore di ritardo alle prove.
Silvia sospira. Conosce il motivo dei miei frequenti ritardi e sa che non li userò mai per giustificarmi con loro.
– Non è per il ritardo di oggi, ma per tutti quelli in questi anni… se solo sapessero…
– Non devono sapere.
Sfuggo alle sue dolci grinfie stizzito. Mi alzo ed esco sul balcone. Ho voglia di fumare. Casa di Silvia ha un balcone adiacente al nostro, ma qui mi sento in pace. Mi poggio al muretto e accendo. Pochi secondi dopo Silvia mi è accanto.
– Lo sai che non ho mai detto a nessuno di…
Si ferma. Guarda in basso. Non riesce davvero a pronunciare le parole giuste, fanno soffrire anche lei, tanto quanto me.
– Lo so, scusami.
Aspiro ed espiro con lo sguardo fisso sul vetro del balcone di casa mia. La luce è accesa. Mio padre starà cenando, prima di andare a lavoro. Mia madre è sicuramente davanti la TV. Appena rimasta sola inizierà a parlare con le sue amiche. Riesco quasi a vederli oltre la tenda. Fino a che lui non esce di casa rimango da Silvia, i suoi genitori quasi non fanno più caso a me.
– La musica è tutto per te, come farai senza i Break in through?
Faccio spallucce. Silvia ha ragione, ma per adesso lascio andare le cose come vogliono andare, senza interferenze da parte mia.
– Potresti farla da solo l’audizione per X factor, ci vengo io a Bari con te!
Sorride scaldandomi.
Ci guardiamo.
Il mio angelo custode.
Santeramo, un giorno fa.
Ho dato il massimo in questo mio ultimo concerto con i Break on throgh. Ho davvero esagerato e la gente ha davvero spaccato! Il locale è diventato una bolgia infernale sulle note Road house blues e come sempre l’abbiamo abbinata a Smells like teen spirit. Ho davvero creduto di essere sotto una casa in procinto di crollare, ma non mi importava. Ho chiuso gli occhi e ho vissuto ogni vibrazione armonica di ognuna di quelle note scritte da persone che amo senza aver mai conosciuto. Come addio alla band ho concesso il primo bis della mia vita con una canzone profetica Nothing else matter. Su quelle note lente Filippo, Giovanni e Roberto hanno capito che li lascerò davvero questa volta… non importa niente altro!
Ora sono seduto a un tavolo assieme a loro. Beviamo birra e fumiamo. Il locale è ormai deserto e il proprietario ce lo concede, mentre lui finisce di sistemare le sedie assieme a una delle cameriere che non smette di fissarmi.
– Si chiama Carla ed è la ragazza del proprietario, quindi non fare cazzate!
Non sono cosi lucido da avere la certezza di seguire il consiglio di Giovanni. Lo guardo. Gli sorrido e lui ha capito. Non farò niente per impedirmi di scoparmi la tipa.
Sorseggio la birra con gli occhi fissi sul didietro di Carla. Il suo boyfriend è uscito fuori a parlare al cellulare. E’ il momento buono. Mi alzo.
– Dove vai?
Filippo è quello che vuole mettere in riga sempre tutti.
– A pisciare.
Muovo verso il bagno, lanciando un ultimo sguardo a Carla. Poi Filippo si alza e mi ferma.
– Aspetta – abbassa la voce – il tizio non ci ha ancora pagato, se fai una cazzata non prendiamo un centesimo.
Lo guardo. Disprezzo la sua venalità. Ha un futuro più come produttore che come tastierista, sa sempre far quadrare i conti.
– Tu fai cassa e poi aspettatemi in macchina… devo pisciare!
Mi libero di lui e mi avvio verso il bagno. Ho davvero bisogno di orinare. Entro e non chiudo la porta a chiave. Alleggerisco la mia vescica e mi sento leggermente meglio, nonostante la testa sia comunque ancora molto leggera, forse troppo. Quando ho finito, tiro lo scarico, chiudo il water, mi ci siedo sopra.
Chiudo gli occhi e aspetto.
Sento la porta dell’antibagno aprirsi. Lentamente. Sorrido ancora a occhi chiusi. Poco dopo Carla entra nel bagno e si richiude la porta alle spalle. Sorride. Prima che uno dei due possa dire qualcosa, mi slaccia i pantaloni, lei abbassa i suoi leggins. E’ brava, sa come far eccitare un uomo! E dopo un tempo brevissimo che non riesco a calcolare siede sopra di me. Facciamo sesso come pazzi, senza freni inibitori. Rido di piacere e sento che non resisterò a lungo, ma il mio corpo mi smentisce. Carla emette piccoli gemiti di piacere e sembra insaziabile, ma è palese, vuole fare in fretta per non essere scoperta. Io più di lei.
Troppo tardi. Succede l’inevitabile. Il tizio bussa alla porta con ferocia.
– Apri questa cazzo di porta, Carla, o la butto giù!
Vedo Carla in preda al panico. E’ diventata bianca come un cencio e non sa come destreggiarsi nello spazio angusto per rimettersi in sesto senza far rumore. Non so perché ma inizio a ridere, mentre con tutta la naturalezza di questo mondo occupo un angolo del bagno e tiro su i pantaloni.
– E’ occupato!
Urlo e rido.
– Apri questa porta, brutto pezzo di merda, così facciamo i conti!
Rido come un pazzo e non capisco più niente. Carla è nel panico totale, vorrebbe uccidermi, ma non può.
– Fabio – piagnucola – non è successo niente, non ti arrabbiare!
E io rido.
– Smettila di ridere imbecille!
Urla Carla.
– Apri! Vedrai come smette di ridere quel coglione!
Urla il tipo dall’altra parte.
– Fabio, ti prego… non mi menare!
– Se apri adesso non ti tocco!
– Promettimelo!
– Apri!
Urla. E io riprendo a ridere più di prima.
Carla, con la mano tremula, apre il chiavistello e appena il tizio se la ritrova davanti la prende per i capelli e la scaraventa lontano, facendola cadere tra urla di dolore.
E’ lì per terra come un lenzuolo usato e sporco. Carla inizia a piangere come una bambina per quello che l’aspetta. La fisso un istante. Una pioggia di ricordi tristi ricade su di me. Il mio sorriso scompare di colpo e fisso il tizio che già si sta avventando contro di me nello spazio angusto, ma non fa in tempo. La rabbia di una vita di percosse esce tutta in un solo gesto. Colpisco con la fronte il setto nasale del tizio e sento un rumore sordo di osso che si rompe. Fabio si porta le mani al volto e urla di dolore. Io non ho sentito niente. Le urla riempiono lo spazio assieme al sangue che scende lungo la camicia e poi a terra. E mentre indietreggia gli sferro un calcio all’inguine che lo fa tramortire senza che riesca a dire o fare niente altro. Carla si è ripresa e lo soccorre.
– Ma sei pazzo? Vuoi ammazzarlo?
Accenno un sorriso eloquente. Ho difeso una stupida, un bel contenitore vuoto, l’ennesimo della mia vita. Senza aggiungere altro mi giro ed esco. Il tizio sta grugnendo qualcosa. Non appena ne avrà le forze si alzerà e mi inseguirà. pochi secondi e sono fuori. Il resto del gruppo mi aspettano in auto. Filippo mette in moto. Ha capito che dobbiamo filarcela al più presto. Siedo al lato passeggero.
– A tutto gas!
In quell’istante il tipo con il naso rotto esce dal locale e si avventa sull’auto e per un solo secondo non la tocca.
Filippo è sbiancato nel vederlo in quello stato.
– Cristo Santo che hai combinato?
Roberto mi sta guardando, mentre Giovanni guarda se il tipo ci sta inseguendo.
– Niente.
– Ma l’hai massacrato!
Faccio spallucce e sorrido. Ho fatto solo quello che lui mi ha chiesto di fare, dargli una lezione!
Tra Santeramo e Matera, oggi.
Sono le tre del mattino. E’ il mio ventisettesimo compleanno e sono alla guida dell’auto del padre di Filippo. Il resto della band dorme. Filippo mi ha ceduto il posto appena fuori città, non sentendosi in grado di guidare fino a casa. Secondo lui ero quello più lucido! Ho iniziato a ridere, poi ho guardato i due seduti dietro. Filippo aveva ragione, ero quello messo meglio. Non ho smesso di ridere anche mentre sedevo davanti. Dopo pochi chilometri sulla statale mi sono ritrovato accompagnato dal silenzio del sonno degli altri tre.
Mi sento sereno, nonostante tutto, nonostante non avrò più una band, nonostante abbia appena compiuto ventisette anni, nonostante non abbia alcuna voglia di pensare al mio futuro. Persino di averne uno. Tutto quello che vedo è il nero, denso e spesso come la notte che ci avvolge.
Fino a qualche anno fa avevo la certezza che sarei morto prima di compiere ventisette anni. Ero deciso, mi sarei suicidato. Immaginavo di farlo dopo essermi ubriacato a dovere per poi schiantarmi con l’auto di mio padre contro un muro o un albero. Non è da me preparare una corda e appendermi per il collo, c’è troppo tempo per un ripensamento. O tagliarmi le vene, anche lì c’è il rischio di poter correre ai ripari. L’ideale era la pistola, ma era troppo complicato trovarne una, quella di mio padre è intoccabile. Con il passare degli anni quell’immagine di quell’istante si è sfuocata. Cerco di capire il perché, anche se il mio cuore lo sa. Tutto questo ha un nome, un corpo, un sorriso: Silvia.
All’improvviso un rumore sordo, come di una esplosione. L’auto sbanda. Non riesco a tenerla ferma. Sembra un cavallo imbizzarrito. Sento lo stridio di gomme. Vedo delle luci. Sento la cintura strattonarmi all’indietro. L’auto esce di strada. Sotto di noi sento la terra, ma tutto sta assumendo una prospettiva capovolta. L’auto si sta ribaltando. La mia testa urta il lato dello sportello. Il finestrino finisce in mille pezzi. In quello sciabordio terrificante vedo i corpi dei miei amici sbattuti come cenci privi di forza e di forma. Tutto è come in una istantanea che non riesco a mettere a fuoco mai. I secondi diventano minuti, dolore e lamenti che non so se provengono dal mio corpo o dai corpi che quasi mi ritrovo addosso. Il mondo diventa nebbia. Il suono diventata cupo. Le luci si arricchiscono di mille striature che il mio occhio non riesce a togliere via. Una fitta atroce alla spalla mi impedisce di capire cosa sta succedendo attorno a me. Il labirinto nel mio orecchio riesce a restituirmi il senso dell’equilibrio e dello spazio, a capire dove sono. Sono appeso alla cintura di sicurezza come una marionetta senza fili. Avvicino le mani alla faccia e le guardo. Non vedo sangue se non sul pollice che ha toccato la ferita allo zigomo che si è riaperta. Lentamente riesco a mettere sempre più a fuoco, purtroppo sono vivo. Mi guardo attorno in quel mondo sottosopra. Filippo accanto a me non c’è, lo sportello è aperto, sembra essere stato divelto dall’urto e dal ribaltamento. Guardo dietro di me. Roberto e Giovanni sono uno addosso all’altro, sembrano immobili e privi di vita, in realtà sono incastrati dal loro stesso peso e da quello della strumentazione che gli si è rovesciata addosso schiacciandoli, praticamente.
– State bene? – chiedo, con un filo di voce rauca.
Roberto urla all’improvviso, come svegliatosi da un incubo.
– Credo di essermi rotto una gamba, Dio mio!
– Non riesco a muovermi – dice Giovanni – sono incastrato, porca puttana!
– Ma stai bene?
Cerco di trovare il pulsate che mi liberi dalla cintura salvifica.
– Non lo so, non lo so!
Appena trovo il bottone, premo e cado di peso sul tetto dell’auto e un dolore atroce mi si irradia per tutta la spalla. Stringo i denti e cerco di trovare il modo di uscire dall’abitacolo. Mi trascino attraverso il finestrino senza vetro e mi ritrovo fuori. In pochi secondi apro lo sportello passeggero, ma sento che è incastrato. Il terreno ne impedisce l’apertura completa. Infilo le dita nel piccolo spazio che si è formato e tiro con tutte le mie forze. Sento la spalla che mi fa malissimo. Tiro. Uno strattone. Due. Tre. Al quarto, assieme a un urlo liberatorio lo sportello si apre e alcuni pezzi della strumentazione escono fuori. Li butto via e trovo il corpo di Giovanni che, privo di forza, si accascia. E’ dolorante, ma sveglio.
– Provo a tirarti fuori di qui! – gli dico.
Non mi risponde. Lo prendo dalle ascelle. Sento dei passi dietro di me. Qualcuno è venuto in nostro soccorso.
– Dio mio! – dice una voce.
– Vai dall’altra parte – dico con l’affanno dello sforzo per liberare Giovanni – ci sono altre due persone nell’auto.
Due uomini eseguono e sento Roberto urlare di dolore nel momento in cui cercano di aiutarlo.
– Ha una gamba rotta – dice uno dei due – cerchiamo di fare piano.
Quando Giovanni è steso sul terreno lo guardo in faccia.
– Stai bene?
– Credo di si – mi dice, spaventato e dolorante.
– Vado a cercare Filippo.
Giro attorno all’auto deforme sotto il suo stesso peso e una paura atavica mi attanaglia le viscere, mentre vedo i due soccorritori che hanno uscito il busto di Roberto che urla come un pazzo, sofferente. Nella penombra della notte rischiarata dalla luna, dai fari ancora accesi della nostra auto e i riflessi di quelle ferme sul ciglio della strada, cerco e trovo quasi subito il corpo del mio amico.
E’ immobile. Non sembra essersi accorto di nulla. Mi avvicino e mi chino su di lui. Guardo il suo volto. Il suo sguardo è fisso nel vuoto. Lo tocco. Non fa un cenno di vita.
Urlo nella notte. Mi lascio andare sul quel corpo e inizio a piangere disperato.
E’ il giorno del mio ventisettesimo compleanno, dovevo essere io a morire, non tu!
– Voglio andarmene di qua! – dico a Silva, mentre mi metto a sedere sul letto dell’ospedale.
– Devi riposare! – mi dice lei, preoccupata.
– Voglio andarmene – ringhio, contro l’unica persona che è venuta a trovarmi.
Ho una spalla lussata, ora è fasciata. Niente di rotto. Giovanni ha una frattura a un polso, Roberto a una gamba. Oltre a una serie infinita di ematomi e lacerazioni su tutto il corpo.
Filippo è morto, sbalzato fuori dall’auto.
Non doveva essere lui a morire.
– Non doveva essere lui a morire! – dico, dando voce ai miei pensieri.
– Non dire cazzate! E’ stato un incidente!
– Ero io a guidare, Dio mio!
– Non è colpa tua – dice Silvia, sincera – un’auto vi è venuta addosso dopo una curva, non potevi far niente per evitarlo.
Chiudo gli occhi. Ho voglia di scomparire. Ho voglia di riavvolgere il nastro della mia vita e ricominciare tutto daccapo.
– Sono risultato positivo al test alcolemico, vero?
Silvia abbassa lo sguardo. Ha già risposto.
– La polizia dice che la situazione così si è complicata, ma tu non hai colpa per Filippo, capito?
Prende il mio volto tra le sue mani e mi costringe a fissarla. Poi mi abbraccia forte e inizia a piangere come una bambina. Con il braccio libero ricambio la dolce stretta e mi lascio andare nel suo corpo. Trovo in lei l’unico rifugio sicuro. Mi aggrappo a Silvia come un naufrago a una boa e cerco di ritrovare il controllo dei miei pensieri.
– Portami a casa, per favore – le sussurro.
– D’accordo, vado a parlare con il dottore – dice allontanandosi da me. Mi sorride amorevole. Mi dona una carezza leggera, poi fa una cosa che desideravo facesse da sempre… mi bacia delicatamente sulle labbra.
– Per quello che vale… auguri!
Poi esce dalla stanza. La guardo muoversi e sento che la amo come nessun altro nella mia vita.
Il mio angelo custode.
Siamo tornati a casa dopo due ore, la polizia mi ha fatto delle domande, poi mi ha lasciato libero di andare. Silvia mi ha portato nella sua casa di campagna.
“Qui starai più tranquillo” mi aveva detto, preparandomi il letto dove lei dorme quando passano i fine settimana in questo posto silenzioso e amico. Dopo pochi minuti sono crollato, fiaccato da tutto quello che mi è successo e dagli antidolorifici che mi hanno stordito.
Al mio risveglio era buio, non avevo idea di quanto avessi dormito. Silvia era seduta sul letto accanto e mi ha accolto con un dolcissimo sorriso, misto al profumo di sandalo che aleggia nell’aria.
Mi si è avvicinata e mi ha baciata, ma questa volta con tutta la profondità del nostro amore.
“Credo di amarti, Marco!”
Le ho sorriso e le ho donato una carezza.
“Credo anch’io!”
Siamo rimasti stretti l’uno all’altro per un tempo lunghissimo senza dir nulla. Ed è stato favoloso.
“Mi ha chiamato tua madre” ha detto, mentre ci preparavamo a uscire di casa per tornare nel mio inferno.
“Si è ricordata che esisto!”
“Le ho detto quello che è successo e che stai bene” poi si è rabbuiata “e che saresti tornato presto a casa.”
Non ho scelta.
“Quando tutto questo casino sarà finito voglio ricominciare tutto daccapo” le ho detto “con te!”
Silvia mi ha abbracciato forte e ha pianto senza freni inibitori.
“Andremo dove vuoi, Parigi, Milano, a me basta stare con te!”
Le ho sorriso. Le ho baciato i capelli e poi ho cercato i suoi occhi.
“Mi avevi promesso Parigi!”
Mi ha detto si con la testa, con la gola stretta dal magone non ha pronunciato altre parole.
E notte ormai. Per tutto il percorso fino a casa non abbiamo quasi parlato, ma l’aria era spessa, piena della felicità che emanano i nostri corpi, felici dei progetti che ci apprestiamo a costruire insieme. Non mi importa più di mia madre, di mio padre e di quello che rappresentano, ormai ben poco.
Silvia parcheggia e appena spegne il motore sento le urla provenire da casa mia. E’ la voce di mio padre. La paura e la tristezza ci piombano addosso di colpo e mi appresto a scendere.
– Devo andare! – dico alla mia Silvia.
– Ti aspetto in terrazza.
Le sorrido appena, mentre di sottofondo le urla in casa mia aumentano. Entro. Ho una strana sensazione, questa volta la voce di mio padre sembra diversa, più carica di rabbia e meno di alcool, meno impastata. Mia madre, invece, sta piagnucolando disperata. Non l’ha mai fatto.
Mi chiudo la porta alle spalle e arrivo in soggiorno. Non ci sono. La paura aumenta.
– Sei una puttana! – urla – una lurida puttana!
Vado in camera da letto e la scena mi lascia senza fiato.
Mio padre sta puntando la pistola contro il letto. Vedo mia madre nuda sotto le coperte e accanto al letto, in pieni, in mutande, un altro uomo che istintivamente cerca di raccogliere le sue robe sparse per terra.
Un mondo si sgretola davanti a me. Un mondo fatto di mille immagini e pensieri, pensieri di una madre che credevo una vittima, ora capisco essere il carnefice.
– Sei contento ora? – urla mio padre nella mia direzione – hai visto che avevo ragione?
– Marco, ti prego, aiutami, digli si abbassare quella pistola e non fare sciocchezze – mia madre piange.
Io sono immobile e incapace di reagire. Guardo alternativamente lei, mio padre e quello sconosciuto che si è portato a letto mia madre. Tutto scorre come in slow motion senza che alcun particolare mi sfugga. Scuoto la testa incredulo.
– Ti odio! – urlo in direzione di mia madre.
Mi giro per andare via per sempre da questa casa.
– No aspetta dove vai? – mi urla dietro lei.
Mi fermo. Torno a guardarla.
– Via da questa casa! Non mi rivedrete mai più!
– Non te ne andare… mi ucciderà!
La fisso. Poi fisso mio padre. Poi il nulla.
– Non mi importa più!
Mio padre inizia a tremare, in preda alla follia di quel momento.
Parte un colpo. Colpisce mia madre in pieno petto. Muore all’istante nel suo talamo nuziale. La fisso, incredulo e senza capire cosa stia succedendo, se è davvero successo! Se è davvero morta.
Dio mio!
Mia madre ha gli occhi fissi al cielo nel suo ultimo urlo morto in gola. Il sangue ha tinto di rosso le lenzuola bianche. L’amante di mia madre ha gli occhi sbarrati mentre mio padre punta su di lui la pistola. Io sono immobile. Non ho la forza di muovere un muscolo, sono pietrificato.
L’altro colpo parte da quella pistola assieme a un nooo stroncato nella gola di quell’uomo sconosciuto, colpito in pieno petto anche lui. Il contraccolpo lo la fa sbattere al muro. Poi si accascia a terra come un sacco vuoto, privo di vita. Mio padre abbassa la pistola. Mi guarda.
– Hai visto che avevo ragione?
Vedo mio padre iniziare a piangere come un bambino. Ora posso capire tutta la sua rabbia.
E’ tutto finito. Torno a sentire la vita nel mio sangue. Mi giro e vado via. Mi incammino verso la porta per andare dalla mia Silvia. Solo in quel momento mi rendo conto che qualcuno sta bussando e urlando. E’ il mio angelo custode. Sorrido, al pensiero di vederla.
Altri tre passi e sono da lei, per sempre.
Altri due.
Un altro.
Apro la porta e me la ritrovo di fronte. Mi sento pervadere da un soffio di gioia infinita, quasi avessi visto per la prima volta la luce, la vita. Il volto di Silvia, però, è il ritratto del terrore. Il suo sguardo è perso dietro di me. Quando tutto mi è chiaro esplode un altro colpo di pistola. Un dolore assurdo mi trafigge la spalla. Silvia urla. Il mio corpo non risponde più ai comandi. Mi accascio per terra senza che possa farci nulla. Non sento più gambe, braccia, tutto. I rumori si fanno ovattati. La voce di Silvia mi giunge da lontano, mentre urla il mio nome disperata. In quel mondo privo di spazio mi giunge il rumore di un altro colpo di pistola ancora. Poi più nulla, solo la vista mi è rimasta. E vedo lei, la mia Silvia. E’ lì anche nell’ultimo secondo di vita che mi resta. Voglio accarezzarla, ma non ci riesco, il braccio è morto prima di me. Le sorrido.
Ho freddo.
Ho viaggiato a lungo in un mondo fatto di sogni. Ho rivisto la mia esistenza e ne ho sottolineato ogni traccia importante. Non ho cancellato niente. Tutto quello che mi è passato attraverso mi ha reso quello che sono, nel bene o nel male.
La nebbia di quella esistenza priva di sostanza fatta di carne, ossa, rabbia e dolore mi ha avvolto e mi ha tenuto al sicuro, guidandomi lungo una strada che non so com’è fatta. Mi è sconosciuta.
Credo di essere arrivato… to the other side!
– Ehi, ciao!
Apro gli occhi lentamente e ancora una volta rivedo Silvia. E’ l’ultimo volto che ricordo di aver visto e il primo al mio risveglio.
– Cos’è successo?
– Tu cosa ricordi?
Metto a fuoco la mente assieme alla vista. Mi guardo attorno, sono steso in un letto d’ospedale attaccato a strane macchine che emettono versi fatti di bip continui.
– Mio padre ha…
Silvia dice si con la testa, prima di parlare.
– Ha ucciso tua madre, il suo amante, ha sparato a te e… – deglutisce – e poi si è sparato un colpo in testa.
Alzo gli occhi al cielo. E’ tutto finito. E’ tutto ricominciato.
Silvia prende la mia mano e la stringe. La guardo. La amo.
– Sei sempre disposta a partire con me? – e le sorrido.
Lei dice si con la testa e inizia a piangere. Poi mi abbraccia piano, facendomi sentire una fitta per tutto il corpo.
– Fa piano… vuoi uccidermi?
– Scusami!
E ridiamo insieme come vecchi amici. Come amanti. Come un uomo e una donna. Come quello che siamo: un uomo rinato e il suo angelo custode.

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  1. Antonella
    Originalità

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    Complimenti è veramente molto bello é stato un piacere leggere

    6 anni fa

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    Francesco Sciannarella

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