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Luna piena di luglio

Luna piena di luglio

63074 San Benedetto del Tronto (AP)
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Luna piena di luglio

visita su Google street view  

 

Poco più di un centinaio di euro era tutto ciò che mi stava in tasca. Cento schifosissimi euro,  all’orizzonte l’estate  pronta a friggermi e nessuno con cui raffreddare l’anima.
Si perché a cinquant’anni a malapena eviti i jab della vita, cerchi di schivare,  le giri attorno, scarti alla sinistra e se sei un boxeur navigato, il diretto destro te lo fai scivolare a due dita dallo zigomo. Il problema però, è che Lei, usa molto bene il montante al fegato e ti mette knock out spezzandoti il fiato.
Con gli spicci mi attendeva una maestosa colazione all’italiana, il corrispettivo indie dell’american breakfast. Caffè e cornetto, il pasto del cazzone. Le ultime cose commestibili prima della fine.
Entrai nel bar e ordinai, non avevo fretta, ma trovavo inutile procrastinare la sparizione dell’ultimo dei coglioni.
Presi la tazzina e strinsi tra i denti l’accumulo di burro e crema con cui mi sarei sfamato.
San Benedetto del Tronto bolliva le persone manco fosse stata Tangeri e lo faceva con quella serenità da porchettaro con cui, prima ti rosolava la cotenna e poi, mentre tutto contento ti sciacquavi le palle in mare, ti arrostiva le meningi con un insolazione da record. L’anno prima il terremoto l’aveva fatta ballare e mentre le zone montane erano ridotte a un cumulo di macerie, la cittadina, grazie alla sabbia, se l’era cavata con un twist e il turismo non aveva subito danni.
“Pecore, popolo di pecore dedite alla transumanza del vacanziere, capaci solo di vivere per questi venti giorni prima di tornare nei tuguri ammorbati da spaventosi lavori .”
L’orda di umanoidi pronti per la spiaggia, mangiava a quattro ganasce ogni tipo di dolce facendo attenzione però che lo zucchero fosse di canna e il cornetto vegan o di kamut. Come se queste raffinatezze da stronzi dell’alimentazione li salvasse dall’estinzione di massa che di li a breve avrebbe spazzato il pianeta, lasciando palazzi e stadi a memoria di una razza a precipizio.
Il rumore dopo un po’ si era fatto stantio, come il cornetto che avevo buttato giù, una sorta di vibrazione aveva amalgamato tutte le voci, i motori, la tv, i ragazzini inviperiti. Tutto era stato mescolato da un unico suono proveniente dallo spazio profondo. Poi un battito cadenzato, tum, tum, tum..
“La tabla di Zakir Hussain.”
Qualcosa mi aveva riportato indietro nel tempo a Goa.
Le statue di Ganesh, l’incenso acceso ovunque  per coprire il fumo  della ganja che un centinaio di fricchettoni si stavano sparando nei polmoni.
Ero giovane e dovevo trovare una posizione. Ma non subito, il 1986 era l’anno dei vent’anni e a quell’età non è accettabile progettare niente che non sia un viaggio e una sbornia colossale. Pakistan, India, Nepal, Thailandia, Laos, Birmania, tutta l’Asia possibile per sei mesi di distacco dalla realtà.
Tum, tum,tum… Hussain continuava a battere le dita sulla tabla cadenzando i pensieri.
Tum ,tum, tum… poi un clacson stoppò il cuore che martellava le tempie e San Benedetto mi riapparve davanti con i suoi sorrisi fasulli di bagnanti squattrinati.
“Cazzo, tornare indietro sarebbe veramente la svolta del millennio…” pensai lanciando l’ultima occhiata malevola al bar.
“… ma non è possibile e poi che senso avrebbe?”
In trent’anni ero riuscito a mandare a troie tutto quello che un uomo di buon senso, avrebbe accudito come fosse stato il dentino da latte di Cristo.
Il lavoro, il matrimonio e i figli, la casa e non contento la successiva compagna, che per cinque anni aveva sopportato come un bonzo, le mie mattane da artista.
Si, perché quello che mi aveva rovinato la vita era stata la passione per un demone subdolo e vile; un diavolo dagli occhi di bottiglia che mi aveva trascinato in un inferno  senza uscita, che lentamente aveva masticato e digerito la mia anima.
La scrittura mi aveva distrutto la vita.
La malattia di centinaia di incapaci di vivere una vita tranquilla, di avviliti dalla società, morti ammazzati della penna, facevo parte di quel battaglione di distrutti mentali che avevano demolito la loro  vita per un pezzo di fasulla  immortalità.
Tagliai una traversa e respirai lo iodio che l’Adriatico emanava, mi lasciai avvolgere dal sole e dall’aria mediterranea e mi appoggiai a una balaustra del lungomare più bello d’Italia. Il progetto faraonico per l’epoca, il 1931, aveva annichilito tutti per la bellezza, l’architetto elogiato dalle alte cariche del fascismo aveva sbaragliato gli indifferenti con le balaustre a ridosso dell’arenile candide come meduse.
“Ora neanche mi ricordo come si chiamava ‘sto tizio…”
Lanciai lo sguardo oltre gli ombrelloni e lasciai che la mente galoppasse un po’, in fondo me lo potevo permettere, di li a qualche ora mi sarei appeso alla trave e varcato le porte dell’aldilà.
Come Kipling, Stephen King, Orwell, Silvia Plath o lo stesso Hemingway avevo ricevuto l’ennesimo rifiuto da una casa editrice e il mio sogno di guadagnare scrivendo era andato a fanculo, ma mentre loro avevano incassato la botta e sanato l’ematoma all’orgoglio con un paio di drinks, io avevo preso a calci il pc e me ne ero andato di casa.
“Dovevo tentare da un’altra parte…”
La voce dell’indomito ragazzo che ero stato mi spronava ancora, ma avevo alzato il muro di cemento armato fatto da una età vissuta di sogni a cazzo.
“Si proprio a cazzo… sono un maledetto da Dio… lo scrittore, cazzo, potevo avere aspirazioni meno bellicose e aprire un pub, invece no… scrivo perché so farlo e sono anche bravo. Ma vaffanculo, a me e le mie idee!”
Un paio di bikini mi passarono davanti riempiendomi gli occhi di tette e culi, lasciandomi il gusto di salsedine in bocca a torturarmi.
Avevo avuto una marea di donne che avevo strapazzato e altre che avevano preso a calci il cuore, ma anche li, avevo ponta la scusa di essere il portatore dell’amore maledetto, l’uomo a cui perdoni tutto e me la cavavo con punizioni minime, poi avevo esagerato con le mattane e buonanotte alla brigata.
Il caldo si fece più aggressivo sciogliendo la t-shirt rendendola un panno sudato.
“Vorrei una birra…”
Seduto in veranda dello chalet, continuavo a fissare le persone. Torturati da un sole inclemente si torcevano come dei dervisci per ottenere l’abbronzatura perfetta, con il risultato di mostrarsi com’erano in realtà; centinaia di abbacchi su di una graticola.
Il primo sorso tolse la patina dalla lingua, quella invisibile ma consistente insensibilità delle fauci causata dall’arsura.
“Ma si… Usque ad finem.” Sentenziai e mi calai quelle che chiamavo le -mentine per i nervi-, Xanax e un po’  di Diazepam nel bicchiere  per togliere l’amarognolo della Peroni.
La buttai giù di colpo e ne ordinai un’altra facendola indorare con il whisky.
“Altro Diazepam e poi relax.”
Come uno speziale mescolai la pozione magica e ne saggiai la consistenza con una bella sorsata;
soddisfatto indossai i Ray-ban e portai il capo all’indietro. Un pisolino non avrebbe guastato.
“Comunque se lei permette, non si beve così velocemente la birra gelata e poi non la si condisce con tutte quelle cose.”
Sbuffai e sollevai gli occhiali.
La ragazza mi stava davanti e sorrideva.
“Non ho capito…”
“No, niente, mi scusi lei, ma si è steso sul mio pareo.”
A fatica mi sollevai dalla sedia su cui ero crollato e vidi l’indumento.
“Scusa non lo avevo proprio visto…”
“Immagino…” mi interruppe.
“… la sete è una brutta bestia.”
Non molto alta, esile ma con due belle spalle, la giovane si era piantata davanti a me. Il bikini color oro era minimale, lasciando quel fantastico nulla all’immaginazione copriva appena le parti intime.
“Beh, con questo caldo è difficile non disidratarsi.”
Cercavo di mantenere quel minimo di educazione e intrattenerla il tempo di porgerle il pareo e continuare il pisolino. Sorseggiai la birra e la guardai mentre il velo scuro le drappeggiava i fianchi.
“Le dispiace se mi siedo? Non ho più voglia di tornare in spiaggia… e questa è l’unica sedia rimasta.”
In un altro momento avrei gioito e ringraziato Dio misericordioso per il dono, ma quel giorno non potevo mantenere dei contatti con altri umani.
O forse si.
“Prego ci mancherebbe.”
Scolai la birra e ne ordinai un’altra con doppio whisky. Guardai la giovane mostrando il bicchiere, ma lei alzò la mano rifiutando la mia proposta.
“Non bevo mai di giorno, lascio alla sera l’onere di dissetarmi…”
Il profilo metteva in risalto zigomi alti e una bocca carnosa che incorniciavano un naso perfetto.
Aveva i capelli raccolti sulla nuca e le orecchie forate da due piercing a forma di osso. Non avevo mai amato quel genere di cose, mi infastidivano le donne con tatuaggi e panze sforacchiate da  orecchini, le spiagge erano piene di queste etno-chic da quattro soldi, ma a lei quelle due tibie nei lobi stavano divinamente.
“…che fa ora, mi fissa?
“No scusa, mi chiedevo il perché degli orecchini a forma di osso.”
Mentii, ero fermo a guardare quel profilo stupendo, sentivo la testa rimbombare e la bocca impastata. Il cocktail stava facendo effetto.
“ Niente, un vezzo da vecchia signora che mi andava di fare.”
“Insomma vecchia non direi…” Incespicai nelle parole, la lingua si era ispessita, mi alzai e con nonchalance buttai giù la birra per svegliarmi un po’ .
“Ho più anni di quelli che crede.”
“Non volevo essere offensivo e comunque, basta darmi del lei… non sono vecchissimo.”
Buttai la battuta li e corsi al bar, il Campari mi avrebbe rimesso in sesto.
“Dicevamo?”
La giovane mi guardò divertita; dovevo proprio essere ridicolo, e sicuramente lo ero, ma non mi fregava un cazzo. Avevo deciso che quella poteva essere l’idea che aspettavo, la botta di culo per scrivere qualcosa di veramente nuovo. Nella mia testa bacata, mi vedevo attaccato a una bottiglia di Strega dopo aver vinto  l’omonimo premio.
“Cosa dicevamo? Non so, ricordo che discutevamo sull’età.”
Un paio di ragazzotti mi squadrarono dall’alto dei loro vent’anni, mi passarono accanto ridendo. Il più tracagnotto disse:
“Ha un auricolare o è cotto.”
Poi sghignazzanti saltarono il confine tra il mio paradiso e l’allucinante braciere  della spiaggia.
“Idioti…” Sibilai.
“Inconsapevoli come tutti gli uomini di quella età.” Rispose lei sorridendo.
“Può darsi oppure invidiosi della mia posizione.”
Buttai là la frase senza pensarci. Non avevo intenzione di fare colpo, non era il caso, ma qualcosa mi diceva di spingermi un po’ più avanti con lei.
“Lei dice? Beh, chissà…”
Finii il campari e alzai la mano. Il tizio nel gabbiotto stappò un’altra bottiglia.
“Certo che lo dico, volevo ubriacarmi e finirla così, ma mi hai fatto cambiare idea.”
Gli occhi glaciali della giovane mi perforarono e il battito cardiaco mi accelerò bruscamente. Ristabilizzai la pressione con lo Xanax.
“Ecco vedi, mi hai fatto emozionare guardandomi così.”
La ragazza scoppiò in una risata fortissima, come se avessi fatto una battuta esilarante.
“Mi perdoni, me ne hanno dette tante, ma questa è bellissima.”
“Cioè nessuno ti ha mai parlato di emozione?”
Si asciugò gli occhi con un fazzolettino e mi sorrise di nuovo.
“Non in questi termini… gli uomini preferiscono essere più diretti. Amano parole tipo… mi fai morire, i tuoi occhi uccidono o mi togli il respiro. “
“Un classico.” Pensai.
Sentivo la testa sempre più leggera, forse avevo esagerato con le gocce e le pillole, ma poi feci spallucce; sicuramente era colpa del caldo. In tempi non troppo lontani erano il mio pasto quotidiano e dopo un oretta di sonno ero di nuovo lucido e pronto a rompere i coglioni al prossimo.
“Non vedo perché preoccuparmene?”
“Di cosa?”
La ragazza mi guardò curiosa, evidentemente avevo pensato a voce alta. Dovevo trovare il modo di riprendermi e l’unico modo era mangiare.
“Senti, so di risultare scortese o forse invadente, ma io andrei via, a pranzo… se vuoi vieni con me…”
“Cos’è, un invito?”
Sorrisi a mia volta e la guardai. La ragazza si alzò e sempre sorridendo si aggiustò il pareo. Era decisamente carina, non una bellezza eclatante ma possedeva un fascino tutto suo.
“Andiamo?”
Pagai le bevute e le rotolai appresso. Ancheggiava  e sbatteva sul marciapiede rovente le infradito che aveva ai piedi.
Parecchie persone guardavano nella nostra direzione, forse incuriosite dal tizio che seguiva, mezzo claudicante, la bella ragazza.
Il caldo mi aveva messo k.o., mi sentivo mancare le forze.
“Strano, non mi pare di aver esagerato.”
Pensai, mentre mi trascinavo  dietro la sculettante tizia.
Gli occhi pietosi delle persone mi facevano sentire tutto il peso dei miei anni, mi ricordavano le ramanzine di Paola, la mia ultima compagna, quella che se ne era andata dopo l’ultimo litigio a causa del romanzo.
“Sei un coglione, questa è la verità, non hai talento, non hai mai avuto voglia di fare un  bel niente e per finire sei un flaccido impasticcato del cazzo.”
L’ultima frase mi era rimasta impressa nella memoria, ma onde evitare di dimenticarla l’avevo trascritta su un post it e appiccicata vicino al computer. Era mia intenzione di usarla nel romanzo che stavo ultimando.
“Sei un perdente, non capisco cosa mi ha fatto stare con te questi anni.”
Il rimbombo della porta sancì la fine della storia.
“E tutto solo perché, avevo venduto il poco oro rimasto per pagare il viaggio e soggiorno a Milano.”
Volevo incontrare il gigante dell’editoria e convincerlo di stampare il mio capolavoro -La luna piena di luglio- , visto che via mail non avevo ricevuto la risposta che aspettavo, se non un lapidario, le faremo sapere.
Tutto poi era finito in una bolla di sapone, il viaggio un buco nell’acqua, l’editore non mi aveva ricevuto e il resto… beh, mi trascinavo sul lungomare alla ricerca di un ristorante insieme a un incantevole donna.
“Ce la fai?”
Annuii e sorrisi, finalmente mi aveva dato del tu, tutti quei lei mi stavano sulle palle.
Giunti in prossimità del porto, ci infilammo nell’unico ristorante che reputavo degno di essere chiamato tale. Un vetusto posticino al porto, con arredamento anni’70 e un mono menù che prevedeva antipasto, spaghetti con le vongole e frittura, senza possibilità di cambi da almeno trenta anni.
Ci accomodammo accanto alla finestra, da li ci arrivava un po’ di brezza e potevamo godere di un bel panorama.
“Cosa porto?”
“Mah…direi il menù completo per due e un litro di frizzantino.”
Ordinai senza chiedere alla ragazza cosa gradisse, ma mi sentivo bene, per la prima volta in tanti mesi, alcol, farmaci e una bella donna mi avevano dato il groove giusto.
Il cameriere rimase stupito dalle richieste, forse dopo aver squadrato la ragazza e notata la magrezza, non pensava avrebbe mangiato tutta quella roba. La mia partner scosse la testa.
“Facciamo così…” dissi infastidito dal risolino del tizio.
“… un antipasto, uno spaghetto e la frittura per lei.”
Lo fissai con durezza mentre andava verso le cucine.
“Che stronzo… cosa avrà mai da ridere?”
“Ricorda che il mondo è degli inconsapevoli e che tu non ci potrai fare più niente.”
“Tranne scrivere un bel romanzo.” Anticipai.
Buttai giù il primo bicchiere di frizzantino e chiusi gli occhi. L’idea di farla finita mi era passata per il momento. La vita sarebbe continuata e a dritta e a storta avrei continuato a scrivere nonostante tutto.
“Scrivere un romanzo?”
“Si non te l’ho detto? Sono un romanziere, non conosciutissimo, ma ho la mia nicchia di fans.”
Continuavo a mentire, non c’era nessuna nicchia di fans, tutto ciò che avevo scritto era stato letto e acquistato da quei pochi amici che alla fine mi avevano lasciato solo a causa del mio carattere.
“Bello, ma non trovi che anche avere dei fans, sia inutile alla fine di tutto?”
“L’arte però ti rende immortale.”
“Anche gli stermini di massa ti rendono indimenticabile.”
Affogai la mia risposta in un altro bicchiere e con una badilata di alici.
Ingoiai sotto lo sguardo severo della donna.
“Ho avuto un passato poco glorioso, la verità è che sono uno scribacchino da quattro soldi con l’ego grande come quello di Umberto Eco.
“Lo conosco.”
“Chi? Umberto Eco?”
La ragazza annuì col capo e mi sorrise.
“L’ho conosciuto nel febbraio del ’16.”
“Cazzo poco prima che morisse e come hai fatto ad avvicinarlo?”
“Casualità.”
“Avessi avuto la tua fortunata casualità dalla mia, forse avrei  potuto fargli leggere qualcosa di mio e chissà, magari mi avrebbe dato una mano a pubblicare.”
Bevvi un altro bicchiere e affondai il viso nella pepata di cozze, per affogare l’amarezza nell’unica cosa vera della vita. Il cibo.
“Si da modo a tutti di vivere al meglio, con decoro, dignità e quel tot di fortuna che non sempre è apprezzata; poi per un motivo che sfugge alla logica si tende a cambiare strada, a sovvertire le normali leggi della natura per questa voglia mostruosa di prevalere sugli altri…”
Ascoltavo la donna parlare come fossi sotto un incantesimo, ingoiavo il cibo meccanicamente, senza assaporarne l’essenza, lasciando il poco margine alla masticazione e il lavoro ingrato allo stomaco, rendere il bolo alimentare digeribile. Buttai giù tutto il vino e guardai il cameriere che capì al volo le mie intenzioni portando un altro mezzolitro.
“…la vita comincia la sua corsa verso la fine già nel momento del primo respiro, il conto alla rovescia parte subito, i compleanni scandiscono l’arrivo al termine a ritmo di feste e regali. Ci si prepara al grande salto senza consapevolezza, convinti che non ci tocchi e che siano sempre gli altri a dover soccombere.
“Non temo la morte…”
“Ah no?”
Mi pulii la bocca dall’unto degli spaghetti e sollevai il bicchiere.”
“… no, non la temo, in quanto posso decidere da me quando farla finita, quindi non temo malattie o incidenti. Solo io posso darmi la morte.”
La guardai sorridere e alzarsi, ancheggiare fino all’uscita, slacciare il pareo e sollevarlo sopra la testa, lasciandolo cadere sulle spalle. Poi, più niente. Solo il latrare delle sirene.
La giornata aveva cominciato a virare verso lo scuro, lasciando il campo alla luna. Il satellite era nel pieno del suo splendore e illuminava il mare increspato creando un effetto meraviglioso. Il popolo dei vacanzieri terminava la giornata col caratteristico struscio sul corso cittadino aggredendo gelaterie e locali per spegnere l’afa e l’arsura che attanagliava i loro corpi.
“Già… corpi, ammassi di ossa e muscoli sull’unica cosa seria non generata dalla chimica, l’essenza o anima che dir si voglia…”
Camminò fino alla statua del pescatore, l’omaggio della città ai figli che avevano preso la via dell’ignoto, poi tagliò verso il centro.
Il pareo nero stretto in vita dava sensualità al suo ancheggiare; scivolava tra la folla come la brezza marina, con la stessa delicatezza sfiorava le persone valutandone la vitalità, cercando quella falla in cui infilarsi e strapparne la vita.
La ragazza attraversò il mercatino con le sue casette di legno colorato e girò verso la grande fontana del corso, quella con alle spalle il faro e fissò la gente.
“Per stasera non ho nulla da fare qui… io e te ci vedremo domattina al mare…” disse al bambino che accanto a lei mangiava un gelato.
“… domattina il mare tirerà fuori dai suoi fondali una bella corrente e noi ci faremmo un bel bagno, un lungo, lungo bagno.”
Il ragazzino annuì e corse poi verso i genitori.
“… il tuo bagno più bello, il più profondo della tua breve ma intensa vita.”
La Morte si sfilò il pareo e alzatolo sopra la testa lo lasciò ricadere sulle spalle sancendo la fine del piccolo. Quella notte, nessuno sarebbe più  deceduto a San Benedetto, la Nera Signora avrebbe concesso la grazia di vivere a tutti, sotto lo sguardo materno della luna piena di luglio.

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  1. Vissia
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    Finale frettoloso, ma scorrevole e non ridondante

    6 anni fa
  2. Liam
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    E’ un bel racconto, molto interessante

    6 anni fa
  3. Gio
    Originalità

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    Conosco il luogo e ho letto il testo con piacere. Bel racconto, forse troppo frettoloso il finale che sacrifica un bambino per un adulto insoddisfatto. Povero bambino… ma si sa, la vita si conclude per tutti con la morte che arriva quando vuole. Atropo taglia il filo e l’uomo dipende dalle sue forbici. Auguro all’autore il successo che merita anche se, a mio avviso, qualche incertezza ortografica in meno e minori parolacce avrebbero reso più piacevole il testo.

    6 anni fa

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    Frank66

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