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La via Cavour

La via Cavour

Via Cavour
93015 Niscemi (CL)
Luoghi e Paesaggi Racconti
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La via Cavour

Scritto da Cristina Di Pietro

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La via Cavour del quartiere San Giuseppe, adesso, è una strada deserta, dove a volte passano delle auto o posteggiano, ma soltanto perché è comoda alla piazza principale e agli uffici comunali. Come tante altre vie del centro storico non è né larga né stretta, procede dritta e disegna crocicchi squadrati quando si incrocia con le altre. Le case sono basse, non più di due o tre piani che si affacciano uno di fronte l’altro, ammiccanti, come se avessero mille cose da dirsi. Ma le porte sprangate, tristi e legnose, rivelano un presente morto, parlando del passato silenziosamente. Eppure, la via Cavour sapeva bene cosa voleva dire Vita!

“Disgraziato! Fermo devi stare!” gridava Vincenza al figlioletto che le scappava dalla tinozza schiumosa e, mentre lo strattonava con dolcezza, era incerta se ridere o fingersi davvero arrabbiata. Fino a che non le sgattaiolò via del tutto e dovette mettersi a rincorrerlo. E le parve di tornare per un attimo bambina anche lei al vedere quelle gambette agili e scattanti che zampettavano attorno al tavolo per non farsi prendere, a suon di risolini. Giocarono così per un po’, ma Enricuzzo a un certo punto prese di mira la porta, fece la pensata e corse in strada tutto nudo, sghignazzando come un matto.

“Ma tu guarda questo scemo se deve uscire svestito di domenica!” imprecò lei, questa volta con più convinzione e impazienza, mentre si affacciava a guardare la scena e tenere d’occhio il piccolo ribelle anche la zia Concetta che abitava di fronte e, subito presa dal moto di solidarietà, incalzava il bimbetto: “Ricuzzo, ma che fai! Torna dentro, non ne hai vergogna?”

Vincenza, prima di uscire anche lei, doveva mettersi lo scialle e cambiare scarpe e chissà quello in un minuto che guai poteva combinare e a casa di chi, così lo chiamava ancora da dentro casa: “Enricuzzo torna qua che te le do!”. Nel frattempo il padre, accortosi che qualcosa non andava, si affacciava al balcone dal primo piano: “Enrico stai a cura, obbedisci a tua madre che se no io scendo!”. E invece quello sgambettava ancora più lontano, infischiandosene di qualsiasi pericolo e di qualsiasi creanza. Fu una signorina a fermarlo, prendendolo con forza per un braccio. Era sua sorella che tornava con le amiche dalla passeggiata a San Giuseppe: “Enricuzzo! Ma che fai per strada così! Vergogna!”.

Enricuzzo non rise più, perché sua sorella grande, in quanto a educazione, con lui era molto più rigida della madre ed era capace quella sera di farlo dormire da solo nel letto per punizione. Così si bloccò e mentre la sorella lo copriva con la sua giacchetta, se ne tornava a casa indossando anche una faccina mesta. La madre, che nel frattempo li aveva raggiunti a metà strada, gli mollò un plateale ceffone a cui assistettero tutte le vicine di casa, ma fece più rumore che male. Infine, fu costretto a rilavarsi e a vestirsi e finalmente alle dieci in punto tutta la famiglia era pronta e riunita per andare alla santa messa.

Enricuzzo, aggrappato alla gonna scura della madre, usciva adesso tutto serio, vestito a festa e compassato come un adulto, sempre dalla stessa porta da dove prima era fuggito, uccellino implume. Vincenza e suo marito andavano fieri della loro famiglia e orgogliosi si univano alle altre che come loro erano per la strada. La figlia più grande andava a braccetto del padre che guardava dritto davanti a sé con i suoi occhi belli, grandi e scuri, così taglienti da far impallidire i giovanotti che gli guardavano la figlia e le lanciavano certe taliàte per le quali alle volte la ragazza arrossiva; la figlia mediana che ancora si trascinava una vecchia bambola dai capelli ricci e biondi come lei, la moglie ed Enricuzzo, camminavano avanti a loro e infine il più grande, tra tutti chiudeva il piccolo corteo, con la fidanzata e il fratellino quasi adolescente accanto e dietro, a tener d’occhio che non si esagerasse con le effusioni, i genitori della fidanzata. Mentre si passeggiava, sempre tutti salutavano tutti a destra e a sinistra era tutto un fiorire di: “buon giorno e buona domenica e complimenti e auguri”. La Via Cavour era molto frequentata. C’era anche chi veniva apposta dalla campagna con automobili rombanti e passava da lì a colpi di clacson. Allora i ragazzi si levavano dal mezzo della strada e i più scapestrati correvano dietro alla nuvola di polvere per un pezzo. Era raro che piovesse di domenica mattina.

La via Cavour adesso è una strada asfaltata e deserta, con le porte chiuse e di legno vecchio. La sera è buia e tetra e la domenica, ci sia il sole o piova, non si riscalda di risate. Solo una donna si sporge ogni giorno dalla sua porta, se c’è il sole si siede su una seggiolina e aspetta così sul marciapiede stretto, così stretto perché una volta non c’era bisogno di fare divisioni tra chi andava in auto e chi no. Aspetta fino a sera, poi tira un sospiro e rientra in casa. Ma il giorno dopo, fiduciosa si ripresenta. È questa la sua abitudine, da anni. Attorno a lei solo un grande silenzio. Un inquietante e disperato silenzio. Lei aspetta. Sola, vecchia e triste come quella strada. Ogni tanto riecheggia la voce di qualcuno che passa, ma non è nulla, una piccola testimonianza del tempo che continua a scorrere, con o senza di lei. La via Cavour lo sa che presto sarà tutto finito, ma proprio tutto! E insieme a lei si sveglia, insieme a lei si addormenta. Insieme a lei aspetta, abbassa gli occhi e prega.

Circolo16
 

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  1. Francesco Cinquerrui
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    Analisi malinconica ma, ahimè, veritiera. Un centro storico moribondo, in teoria cuore pulsante di una comunità, è il sintomo più evidente di una città che si sta svuotando.

    6 anni fa

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