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Ti va di ballare?

Ti va di ballare?

19016 Monterosso al Mare (SP)
Storie d'Amore Racconti
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Ti va di ballare?

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Estate 2015

Carissimo Silvio.
Sono sicuro che ti chiederai come mai a distanza di tanto tempo (anni), abbia deciso a scriverti e per di più una lettera, come si faceva una volta, scritta di mio pugno e in bella calligrafia.
Come ben sai, l’avversione per le modernità, mi ha relegato nel mio angolo di mondo lontano anni luce dalle vostre frenesie, dalle ansie e dalla logorroica ricerca di un futile benessere.
Mi scuso innanzitutto per non essermi fatto sentire in tutti questi anni, e tu che mi conosci bene, perché non sei stato solo il mio Pigmalione, ma sopratutto amico e consigliere sincero, sai anche della mia insofferenza verso l’umana curiosità.
Fosti proprio tu che mi consigliasti un periodo di riposo lontano dagli affanni quotidiani, dagli stress, in un luogo tranquillo nella mia amata Liguria, quando, invece di continuare a dipingere, cominciai a dare di matto con l’intenzione di bruciare in un solo falò tutte le mie opere. Fosti dunque tu, che un dì m’innalzasti agli onori delle cronache e facesti dei miei dipinti arte. Caro Silvio, a te devo ancora molto e nonostante questo periodo di forzato ozio a contemplare la meravigliosa natura della mia amata riviera, devo ammettere che non tutto il tempo trascorso in quel dolce far niente è andato perduto, anzi, quando invece sembrava che non vi fosse più ritorno, ecco che accadde qualcosa che stenterai a crederci mi destò dal torpore.
In gioventù come ben ricordi, ebbi (ma anche tu non scherzavi comunque), moltissime avventure, molte donne si avvicendarono sotto le lenzuola, chi in cerca di fama, chi alla ricerca di soldi, chi invece di un poco di fortuna, a volte invece ero io ad approfittare di loro, magari con la scusa di un ritratto, sappi però che il più delle volte succedeva esattamente il contrario.
Non essendo per mia natura avvezzo all’innamoramento, quelle occasionali amanti erano solo una panacea alla noia, sì, lo confesso (adesso), comunque credo però (anzi ne sono certo) che io sia stato lo stesso per loro.
Il sesso si coniugava male all’Amore, all’arte e la mia vita, ero nato per stare da solo e le donne erano un capitolo a parte, un post scriptum.
Bene, fino a ora ho solo divagato, non sono mai stato tanto prolisso e credo che ti meraviglierai anche delle tante parole che troverai qui di seguito. Tu che mi hai visto dipingere l’essenziale, ora troverai ridondante quanto sto per dirti, ma quando capirai il perché tutto ti sarà finalmente chiaro, come lo è stato per me.
Procediamo però con ordine, adesso mettiti comodo, perché quello che sto per narrarti credo sia anche una bella storia.
Ozio.
Le mie giornate da quando mi trasferii in quella graziosa villetta con la sua terrazza a picco sul mare trascorrevano tutte uguali; autunno, inverno, primavera ed estate. Freddo e caldo si avvicendavano come le stagioni, come il giorno con la notte, tanto che neanche vi facevo più caso. Per me era comunque quel paradiso tanto cercato, tanto osannato nei miei dipinti e che niente e nessuno lo avrebbe più sostituito.
Certi giorni e anche alcune notti scendevo sugli scogli a pescare, passavo così intere giornate in attesa che qualche sprovveduta preda si facesse catturare per poi cucinarla, ben poche volte invece scendevo in paese a fare provviste, dal mare traevo ciò che mi necessitava e più il tempo passava, meno sentivo il bisogno degli altri e della frenesia della vita in città, tanto che chi avesse avuto la sventura di incontrarmi in quel periodo, avrebbe faticato alquanto a riconoscere in me le sembianze di un essere umano.
Capelli e barba oltremodo lunghi, la pelle bruciata dal sole, avevo quasi del tutto disimparato a parlare, ero diventato così un troglodita a dispetto della società che mi avrebbe voluto più umano, ma a me non importava un accidente e stavo bene così.
Era l’ozio dunque che andavo a cercare, il compiacersi di essere parte della natura, il sopravvivere giorno dopo giorno senza fare più del necessario, respirare con gli stessi ritmi delle maree e attendere lo spettacolo del tramonto.
Accadde un giorno d’estate inoltrata, quando la canicola del pomeriggio che scende a picco sul mare si riverbera in milioni di piccole luci e l’unico riparo sono le verande vestite di candidi glicini, mentre mi apprestavo come uopo a gustarmi un meritato riposo, lasciando lo sguardo vagare di là dall’orizzonte. Stavo quindi per addormentarmi, quando il borbottio di un gommone a motore mi fece schiudere un occhio; ecco allora una coppietta che aveva pensato bene di ancorare la loro imbarcazione a poca distanza dalla mia vista e non troppo curanti della mia presenza, aveva preso ad amoreggiare. Poco male pensai e chiudendo le palpebre tentai di riappisolarmi, vana speranza, perché dopo poco un tuffo mi fece riaprire gli occhi un’altra volta e quello che sembrava il preludio di un amplesso, ora somigliava di più a un battibecco tra innamorati, così facendo finta di nulla, cercai allora di tendere l’orecchio per individuare il motivo dell’alterco, ma, ahimè una lingua straniera che non comprendevo rese vana la mia solerzia.
Santo cielo! Stavano proprio litigando e di brutta maniera; lei in mare che impreca e lui sul gommone che imprecava più di lei. Che faccio mi domandai; meglio andarsene e svelare la propria presenza, o fare finta di dormire e godersi il litigio, dopo un lungo attimo di riflessione optai quindi per la seconda possibilità.
Avresti dovuto sentire come litigavano e anche se non capivo un accidente di quello che si urlavano, potevo benissimo intuirlo, poi all’improvviso come un temporale estivo, che senza avviso comincia e senza preavviso finisce, i due fecero la pace, lei ritornò sul gommone e lui mise in moto, anzi tentò, ma il motore fece bizze e il natante non partì più.
L’uomo si dannò come un ossesso dietro quel motore, tentò in tutti i modi di farlo ripartire ma inutilmente, anzi più si sforzava più i suoi tentativi risultavano vani.
Prova e riprova cominciò anche a farsi buio, il cielo si preparava a indossare il suo pigiama per la notte e quella coppia era ancora lì a tentare di rimettere in moto quel dannato gommone per tornarsene verso casa.
Ora era scuro per davvero e quei due erano ancora lì, così mi decisi a farmi vedere prima che fosse troppo tardi.
Fu invece la ragazza che notandomi cominciò a urlare verso di me, poi fu la volta dell’uomo e qualunque fosse stata la loro lingua, non mi ci volle molto a capire cosa volessero, così in meno che non si dica, il loro gommone ormeggiava sotto al mio terrazzo.
Erano una coppia di ragazzi francesi in vacanza qui a Monterosso da una settimana che si erano portati appresso anche il loro gommone, un bel viaggio comunque da Parigi sin qui in automobile.
Dunque lui era Armand l’architetto, un bel ragazzo sulla trentina, rapato a zero e con una folta barba, lei Odette di dieci anni più giovane del compagno, studiosa d’arte, una bella ragazza che non passava certo inosservata, più alta del suo uomo, sfoggiava un sorriso luminoso oltre che un corpo delizioso. Fui il loro ospite per quella notte; così ci accomodammo in veranda per preparare la cena, erano rimasti ancora alcuni pesci pescati la mattina, Odette e il fidanzato erano amanti dell’Italia e della riviera ligure in particolare, parlavano un ottimo italiano anche se il loro accento tradiva la loro provenienza. Fu la ragazza che si offrì di cucinare il pescato ma non di pulirlo, Armand invece si discostò dalle faccende culinarie e decise di sedersi sul dondolo, in attesa della cena.
Rimanemmo dunque Odette ed io a cucinare, la ragazza si districava agevolmente tra i fornelli e io la lasciai trafficare, quindi assieme ad Armand (destatosi dal suo ozio), preparammo tavola e ci apprestammo a mangiare.
Un discorso tira l’altro e un bicchiere tira l’altro, la coppietta sembrava gradire oltre la cena anche il buon vino, che fresco si accompagnava al pescato.
Il vino fa parlare e a volte anche troppo (specialmente quando se ne beve parecchio), così i due oltre che a raccontarsi, si spinsero oltre e finirono sulla causa del litigio del giorno e così prima che ricomincino a discutere, decido di congedarmi da loro, sperando che la notte porti consiglio.
I giorno.
Il mattino seguente incontrai Odette che già in piedi che si aggirava silenziosa per le stanze. Non ci fu bisogno di dire nulla perché il suo viso era tutto un programma, aveva le borse sotto gli occhi, segno di una notte in bianco, la logica mi forzava a pensare che i due avessero trascorso una notte tutto sesso, ma l’espressione alquanto corrucciata della ragazza mi fece riflettere ben altro, chissà!
Le chiesi se gradisse la colazione, lei mi sorrise e mi mormorò:«oui! Un espresso, avec un peu de lait, s’il vous plaît», quindi ci accomodammo in cucina. Mentre sorseggiava il caffè i suoi occhi spaziavano nel vuoto, le sue gesta aggraziate e femminili, davano valore allo scorrere ozioso del tempo e che io mi ricordi non credo d’aver visto mai tanta dolcezza nel bere una tazzina di caffè.
Non volendo disturbare l’idillio tra lei e i suoi pensieri e pensando di farle cosa gradita, le imburrai una fetta biscottata e la posai su un piattino vicino a lei:«è per me?» mi domandò stupefatta.
«Sì» risposi con esitazione e meraviglia, non sapendo se il mio gesto le fosse gradito.
A dire il vero quella mia azione improvvisa e automatica meravigliò anche me, mai sono stato avvezzo a questi slanci cavallereschi e tu caro Silvio lo sai bene, fatto sta’…
«Grazie, sei molto gentile» rispose Odette, che aggiunse:«sai, non sono più abituata a queste cose, Armand è sempre così scorbutico la mattina e quelle rare volte che facciamo colazione assieme, sembriamo due estranei».
Non stento a crederlo, pensai: «però ieri sera mi era apparso molto loquace» le feci notare e lei tranquillamente rispose:«il vino gli fa questo effetto… ma solo con le parole».
Lessi il sottinteso ma non ero nello spirito giusto per controbattere, ah! Se ciò mi fosse capitato solo pochi anni addietro, non avrei esitato un minuto a risponderle con qualche battuta sagace, magari maliziosa giusto per sondare il suo grado di disponibilità nei miei confronti.
Il nostro dialogo però venne interrotto dall’arrivo di Armand, che senza dire neanche buongiorno si sedette al tavolo e cominciò a servirsi; caffè, pane, burro, marmellata e succo di frutta, poi quando ebbe finito, si alzò e senza proferir parola, se ne andò allo stesso modo di come era venuto.
– Bell’amico – mi scappò di dire.
«Scusalo, ma oggi è così, anzi è da ieri che è in questo stato e temo lo sarà ancora per molto», puntualizzò Odette, poi si prese una pausa, quindi si versò il succo nel suo bicchiere, se lo portò alle labbra e lo sorseggiò lentamente, come se non volesse aggiungere altro.
Io che conosco un poco la psicologia femminile, sapevo come sarebbe andata a finire, lei avrebbe voluto che le domandassi e invece tacqui, perché sapevo che sarebbe stata lei a continuare, infatti dopo un poco Odette riprese in mano il filo del discorso; furono mezze frasi, buttate lì senza un apparente filo logico, ma a chi sa’ leggere tra gli spazi…Capii che la sua era un’invocazione d’aiuto.
«Oh, insomma» si sfogò d’un tratto: «a lui non va mai bene niente, d’altronde venire qua con appresso il gommone lo ha deciso lui, per me potevamo farne benissimo anche a meno; ma allora, si è preoccupato di fare rifornimento di carburante? No! Così, per questa sua dimenticanza, ha incolpato me, ma comunque non è per questo che abbiamo litigato ieri sera, quando siamo andati a dormire, mi ha accusata di essermi offerta di cucinare solo per fagli dispetto, perché a lui non piace come faccio da mangiare».
Aspettai ancora senza dire nulla, poi fu la ragazza stessa che infine esplose come in una liberazione: «no! Armand è convinto che tu mi faccia il filo e che io ci stia e solo perché ti ho aiutato in cucina, ecco perché abbiamo litigato ieri sera e adesso mi tiene il muso».
Scoperto dunque l’arcano, continuai però a stare in silenzio, sapevo che lei si aspettava ora una mia reazione; un diniego, un assenso, vedevo i suoi occhi che mi scrutarono ansiosi, “dai, dì qualcosa”, mi sembrava di sentire il suo subconscio che mi parlasse e mi incitasse alla risposta, così buttai lì un ‘ e che ci sarebbe di male’.
Accidenti! Mi accorsi quasi subito di avere parlato a sproposito e di avere usato una frase trita e ritrita, di quelle che usavo anni fa per fare colpo sulle ragazze, ma era troppo tardi oramai per tirarla indietro.
Che conseguenze avrebbero potuto esserci in un innocente, “e che ci sarebbe di male” mi dirai caro Silvio, beh! Innanzi tutto l’età, io avevo passato la cinquantina da un po’ e lei poteva avere si e no poco più che una ventina d’anni, poi il suo fidanzato; geloso, irascibile e permetti di rilevarlo, alquanto inutile, al contrario della sua ragazza che sembrava una principessina di biscuit, uscita da una fiaba di Disney, quindi fu logico che mi aspettassi una reazione da lei, che invece non arrivò, anzi.
«Appunto» continuò la ragazza, come se neanche mi avesse sentito: «non vuol dire nulla, mi sembrava giusto, visto la tua ospitalità, darti una mano e che cavolo»!
Odette era veramente arrabbiata nonostante non volesse darlo a vedere, alcune piccole rughe si formarono agli angoli degli occhi e dalla bocca, adombrando anche se di poco un così bel viso.
«Non dovresti arrabbiarti così, un bel volto come il tuo non dovrebbe conoscere la collera», le feci notare, un sorriso allora la illuminò, poi mi guardò come una bambina che voleva farsi perdonare una marachella.
Un attimo d’imbarazzo gelò entrambi, bisognerebbe cambiare discorso e così ruppi il ghiaccio: «dai, allora andiamo a raccogliere muscoli per la pasta e chiediamo se anche Armand si unisce a noi».
Odette gradì di buon grado, il suo fidanzato invece non fu poi così entusiasta, ma accettò lo stesso dato che comunque poteva tenere sotto controllo la fidanzata da ogni mia eventuale avance.
Tutto procedeva bene, ognuno badava a raccogliere la sua razione di molluschi senza fiatare e in questo modo si arrivò in santa pace all’ora del pranzo, quindi senza sollevare inutili discussioni, io stesso mi proposi come cuciniere avviandomi col bottino.
Con l’odore della pasta con i muscoli che si diffondeva nell’aria non dovetti aspettare molto, perché la coppietta di colombe si unisse al desco, finalmente entrambi erano sorridenti, forse avevano fatto pace, anche Armand era loquace, bene, ero contento, poi più tardi pensai, rifornirò di benzina il gommone di quei due così potranno tornare finalmente a casa in pace e letizia.
«Così tu sei un pittore», mi domandò a bruciapelo Armand tra una forchettata e un’altra, risposi di sì e a quel punto intervenne Odette: «bene, allora mi piacerebbe farti da modella».
Non volli rispondere, quindi mi limitai a imboccarmi con un’altra forchettata abbondante di spaghetti, fu Armand invece a continuare il discorso: «perché no, a me sembra una gran bella idea, che ne dici Renato».
A dire il vero erano parecchi anni che non impugnavo più un pennello, perché anche la voglia di dipingere mi aveva da tempo abbandonato, così come il desiderio di stare tra la gente, ma questo loro non lo sapevano, come non sapevano chi io veramente fossi, non conoscevano nulla di me, se non a malapena il mio nome e che dipingevo e forse era meglio così.
Così facendo buon viso a cattivo gioco accettai ma a una condizione, essendo sicuro che la mia clausola non venisse accolta: «va benissimo, ma come avrete notato, tutti i miei ritratti sono dei nudi, quindi gradirei ritrarre anche Odette senza vestiti».
La ragazza sorrise aggrottando le sopracciglia, il suo ragazzo credendo che io scherzassi, mi disse con nonchalance: «se a lei va bene», io allora la guardai e lei annuì timidamente; «devo dedurre che sia un sì», rivolgendomi a Odette e lei: «oui, bien sûr» e l’espressione di Armand si tramutò in un sol colpo in una maschera scura, quando la sua ragazza alzandosi mi chiede dove volessi che lei posasse.
Sì lo so, a volte sono talmente bastardo che neanche mi rendo conto, ma è più forte di me, così rivolgendomi ad Armand gli domandai se avesse delle preferenze riguardo al panorama e lui credendo di farmi dispetto m’indicò proprio la veranda con la ringhiera a picco sul mare.
Il tempo di prendere tutto l’occorrente e di preparare la tela, poi venne la volta di Odette, che senza batter ciglio si tolse il costume e attese con pazienza le coordinate per mettersi in posa.
Silvio, tu sai che sono un tipo sbrigativo e le mie modelle mi piace metterle a posto da me, un po’ come si fa’ con i manichini. Così cominciai col posizionare le braccia, uno la feci poggiare sulla ringhiera, l’altra lo lasciai scivolare sensualmente su un fianco, la testa leggermente indietro, una gamba ad angolo, con un piede che poggiava per terra, poi non soddisfatto della luce che illuminava il volto della mia modella, la feci spostare e ricominciai a sistemarla daccapo, in poche parole, mi ci volle una buona mezz’ora di aggiustamenti e spostamenti, prima che essere soddisfatto. Molto meno contento invece fu Armand, che stufo di tanti spostamenti se ne andò chissà dove lasciandomi solo con Odette.
Non sono mai stato attratto dalla perfezione devo dire; tutte le modelle che ho ritratto, hanno sempre avuto un particolare, che se vogliamo usare questo termine le valorizzava, ho sempre prediletto i fianchi grandi, le forme abbondanti, le misure giunoniche, ma questa volta non erano tanto le forme di Odette che mi attraevano, anzi lei di florido non aveva nulla, era la sua personalità e per la prima volta, avrei dipinto non la forma ma l’essenza.
Il carboncino tracciò sulla tela i contorni della mia modella mentre lei mi parlava della sua infanzia, erano i pochi ricordi di una madre assente e dell’ombra che era suo padre e mentre con la matita rifinivo i dettagli, lei mi rivelava i ricordi di scuola; cominciai quindi a cancellare i tratti superflui dalla tela mentre Odette mi sussurrava del suo primo amore, stesi la prima mano di colore per lo sfondo e lei mi descriveva della sua città e dei suoi sogni, dipinsi il sole e lei mi confessò di Armand e dei loro progetti, quando ebbi quasi completato lo sfondo lei chiese di me e allora mi fermai, perché quello che ne sarebbe uscito fuori non sarebbe stato il mio più bel ritratto, perché sarebbe stata una verità per troppo tempo negata; sono sempre stato un egoista, soprattutto con le donne, ho approfittato di loro e della loro buona fede, sono stato quel che si dice un bastardo, eccole qui tutte le mie conquiste e se sono sempre stato solo, lo devo a me, al mio carattere scontroso, al mio ego smisurato.
Sulla tela oltre ai perfetti contorni di Odette, vidi anche la mia brutta ombra che incombeva su di lei, come un orco che stava per afferrare la sua preda alle spalle, per poi divorarla.
Vidi quell’ombra lugubre che sovrastava su quella piccola preda indifesa e per la prima volta ebbi paura per lei, sapevo che potevo fare ancora del male e ne ero cosciente e quindi prima che potessi ferirla, gettai la maschera e mi svelai per quello che ero.
Provai dunque a ridipingermi con i colori vividi della verità, vestendomi di una realtà che avevo sempre tenuto nascosto sotto l’apparenza di un’assurda asocialità, non mi volevo più nascondere e seppur ora velavo il mio volto dietro una tela, la mia voce è chiara come l’aria del mattino e ferma come una scogliera.
Odette ascoltò in silenzio mentre continuavo a raccontarmi e a dipingerla, la sua pelle brillava nuda sotto il sole del pomeriggio, piccole gocce di sudore le imperlavano il viso mentre mi fissava e il suo sguardo penetrante m’invadeva il cuore. Piccola e nuda creatura, come una lucertola stava al sole come un corallo stava al mare, lei posava incurante del sole che le brucava la pelle, dei miei occhi che le penetravano nell’anima e delle mie mani che vorrebbero accarezzarla.
Un tempo non avrei aspettato oltre, avrei cacciato tutto all’aria; pennelli, colori e tela e l’avrei posseduta così sulla ringhiera e poi?
E poi come sempre sarei rimasto da solo a contemplare un freddo ritratto, ancora una volta.
«Ma non hai paura» le chiesi,
«paura di che» mi rispose,
«di me».
«E perché»?
«Perché ora sai chi sono veramente»,
«no, tu non sei realmente così»
«ah! E come sono»
«diverso da come ti sei descritto, tu sei buono, lo so, lo sento».
Tu sei buono mi disse, che strano sentirselo ripetere e non sapevo se prenderlo come un’offesa, non ero abituato ai complimenti, come non ero più avvezzo a essere fissato così come stava facendo adesso Odette.
«Hai finito? Posso vedere», mi domandò dopo un po’, io annuii in silenzio; lei allora scese dalla ringhiera e senza preoccuparsi di mettersi nulla addosso, venne a sbirciare il mio lavoro.
Mi passò davanti e ponendosi nel breve spazio tra me e il dipinto cominciò a scrutare la tela; sentivo il suo profumo, il suo collo mi sfiorò più volte le labbra, i suoi fianchi erano fin troppo vicini alle mie mani e il suo corpo era esageratamente aderente al mio.
«Allora ti piace», le vorrei domandare e invece lo sussurro al suo orecchio e anche se la mia intenzione era quella di sviare da quel corpo nudo le mie voglie, ottenni invece l’effetto contrario, lei si voltò di scatto e involontariamente (?), le sue labbra si trovarono a tiro delle mie e il bacio diventò quindi una conseguenza inevitabile.
Breve e a occhi aperti, poi: «no aspetta, no, non così», Odette mi stupì, quindi si alzò sulle punte dei piedi e stringendomi le mani nelle sue mi disse di chiudere gli occhi e mi baciò nuovamente, questa volta più a lungo e più intensamente e davvero non mi ricordavo più che si potesse baciare in questo modo.
Poi come se all’improvviso si ricordasse qualcosa si divincolò e spostandosi lateralmente dalla tela, cominciò a osservarla da diversi punti di vista; si avvicinò per poi allontanarsi di nuovo, mi passò da dietro, facendo capolino dalle mie spalle, ammirai il suo viso fermo in un’espressione attonita di perplessità, mentre rimuginava, poi a un tratto esplose in una fragorosa risata: «Sì! Hai fatto proprio un bel lavoro».
Vederla ridere così di gusto, fece ridere anche me, e si sa’ che le risate sono contagiose, poi d’improvviso la mia modella si fece seria: «cosa ci vedi in quel ritratto» mi domandò.
Non ci dovetti pensare poi molto, perché la risposta era di fianco a me, che mi fissava impaziente.
«Io dipingo il bello», risposi.
«E allora io sarei bella», mi sfidò Odette.
«Tu rappresenti la bellezza, ma anche la bellezza paragonata all’eternità è solo un attimo, un momento che passerà presto, se tu non lo saprai fermare».
«E come si può fermate il tempo», mi chiese.
«Il tempo non si può fermare, possiamo fissarne solo pochi momenti, la vita è fatta di istanti che passano troppo veloci, certo abbiamo le foto, i ricordi, tutto quello che la mente incamera nella sua memoria, ma i ricordi sono così tanti, che quelli nuovi si sostituiranno inevitabilmente a quelli vecchi e così via e se non sapremmo mantenerli vivi scompariranno, così io per te oggi ho fermato il respiro del tempo e l’ho donato un attimo all’eternità».
Odette per tutto il tempo del mio monologo non mi staccò gli occhi di dosso, non si mosse di un millimetro e rimase così come mamma la fece, come se per lei essere nuda fosse naturale come respirare.
«Hey, avete finito laggiù», la voce di Armand che ci riportò di colpo sulla terra ferma, l’uomo era ancora lontano ma si stava appropinquando veloce verso di noi, Odette invece non ebbe fretta nel rivestirsi e io a sistemarmi dietro il mio dipinto.
«Accidenti, sono andato un po’ in giro in cerca di carburante, ma mi sono perso, è tutto un labirinto qui» , Armand era deluso, probabilmente era uscito alla ricerca di benzina per poter fare ripartire il gommone, ma trovandosi in un dedalo di stradine, viottoli e carruggi col loro vertiginoso saliscendi e non riuscendone a venirne più a capo, dovette arrendersi e tornare indietro con le pive nel sacco.
«Bastava che me lo chiedessi», gli dissi con aria scherzosa.
«Perché tu ce l’hai» mi domanda.
«No» risposi e sia Odette che io scoppiammo in una fragorosa risata.
Armand non sembrò aver preso bene la mia battuta di spirito, tanto che si allontanò stizzito imprecando qualcosa in francese, la ragazza capì il momento e si precipitò verso il compagno cercando di calmarlo; i due confabularono per un poco, poi sparirono di botto.
Rapsodia delle stelle.
Il fuoco della carbonella ardeva ancora quando il buio s’impossessò a forza della volta celeste, sfrattando il sole dal suo scranno, così stufo di attendere i miei cortesi ospiti, buttai sulla brace alcuni gamberoni che avevo messo da parte pensando di gustarmeli da solo in santa pace, ma evidentemente il profumo emanato dai miei semplici manicaretti era un richiamo troppo forte per chiunque si trovasse nei paraggi e in men che non si dica, Armand e Odette mano nella mano fecero la loro ricomparsa.
Hanno fatto pace pensai a malincuore vedendoli arrivare, poi continuando a trafficare: «se ne volete anche voi, prendete i piatti e le posate e non dimenticate il vino».
Eravamo di nuovo riuniti tutti e tre seduti uno in faccia all’altro senza fiatare, si sentiva solo l’infaticabile lavorio delle mani indaffarate a sbucciare i crostacei e il sommesso biascico delle mascelle a divorarle.
Tutto filava liscio, il vino scendeva lieto giù nelle gole così allegro e a volte senza toccare i bicchieri, che rimangono immacolati a rifletter la luce delle stelle.
«Voglio ballare, non si può lasciare andare una notte così senza musica» disse d’un tratto Odette alzandosi di scatto: «vado a cercare qualcosa di adatto, non muovetevi», quindi sparì nei meandri di casa.
Quando ritornò era raggiante e a passi di danza invitò sia me che Armand a darle una mano, c’era da portare fuori sulla veranda l’impianto stereo; poi quando fu tutto sistemato e scelto con cura la colonna sonora della serata, la musica ebbe inizio.
La colonna sonora della serata era già bella che decisa, Odette iniziò con una compilation di disco-music revival e si mise a ballare da sola, a lei si unì poco dopo Armand, mentre io rimanevo in disparte a contemplare.
Non mi è mai piaciuto dimenarmi al ritmo di musica, preferivo altri contorcimenti che di solito si fanno in coppia, quindi mi limitai a guardare. Osservai il duetto; lei sinuosa e decisamente sexy nel suo striminzito costume da bagno, la pelle abbronzata che luccicava sotto la luna, le braccia al cielo, come se volesse afferrare le stelle e lui? Un pezzo di legno con degli incredibili boxer da mare, d’indecifrabile colore, a torso nudo e con una birra in mano che accennava a timide quanto impacciate movenze.
Odette, ripetutamente m’invitò a fare parte della combriccola, ma quella non era musica per me, così quando anche il suo compagno di danze cedette alla fatica, la ragazza cambiò musica e quindi anche danze.
“Tango” annunciò, ecco! Pensai, ora sì che comincia a ragionare, con passi felpati la ragazza s’avvicinò ad Armand, invitandolo ancora a ballare, ma il ragazzo spossato per la fatica e dalla birra, neanche le rispose, allorché anche Odette si sedette sbuffando contrariata.
Bhè! Pensai, un tango non si rifiuta mai, così visto che nessuno si muoveva, mi alzai e mi diressi verso la ragazza: «ti va di ballare» le domandai, lei senza dire nulla, si alzò, mi poggiò la mano destra sulla spalla, mi afferrò la mano sinistra, poi fissandomi negli occhi mi sorrise e solo dopo partimmo col tango.
Lunfardia dipanava le sue sensuali note come un tappeto sonoro, i nostri passi erano segnati e dovevamo solo seguirli, Armand se la dormiva della grossa disteso sulla veranda, Odette ben sveglia, mi stringeva ad ogni passo sempre di più, la luna diventava ruffiana e smorzava le stelle, cosicché erano i nostri occhi a brillare nella notte. Le nostre labbra si avvicinavano sfiorandosi pericolosamente in un gioco di forza, chi cederà per primo?
Il resto mio caro Silvio te lo puoi immaginare, non sono mai stato tanto prolisso con le parole come tu sai bene e per certe cose, quel tipo di cose, ho ancora la pudicizia di tenerle per me.
Così crudo e vero nei mie dipinti, dove nulla è lasciato all’immaginazione, così morigerato e timido nei sentimenti, dove lascio che sia l’immaginazione a prendere il sopravvento, già! Che vuoi farci, due parti convivono in me, come il giorno e la notte.
E come la notte lascia il passo al mattino, il nuovo giorno trovò ancora Odette e me a parlare fitto fitto seduti sul dondolo.
II giorno.
«…ma Armand, dov’è», tutto un tratto Odette scattò in piedi scuotendosi da dosso quel caldo torpore portato dalla notte e come in preda a un’ansia cominciò a cercarlo.
Inutile dirlo, la sua agitazione si riversò anche su di me accidenti:«presto guarda, guarda, qui» si mise a strillare, la raggiunsi e in men che non si dica e la ragazza mi fece notare un paio di ciabatte, vicino alla ringhiera della veranda a picco sul mare.
Silenzio.
Istintivamente guardammo giù verso le onde che sbattevano sulla scogliera sottostante e lo sguardo si fissò su qualcosa tra i flutti, quelle onde troppo grosse m’impedivano di vedere meglio, sembrava una sagoma umana, ci mancava anche quello.
Odette vedendo quello che vedevo io, urlò «è Armand madonna santa…» in preda al panico. Mi ci volle non poco per calmarla, la ragazza tremava come una foglia ed era incapace di emettere qualsiasi suono, allora l’abbracciai e la strinsi forte e solo così allora finalmente si lasciò andare a un pianto liberatorio.
Per lunghissimi minuti rimanemmo così, con lei a piangere a dirotto tra le mie braccia e io incapace di prendere una qualsiasi decisione logica.
Se è Armand quel coso in mare non possiamo lasciarlo lì pensai, rimanderemo a dopo tutto il resto.
Scossi Odette – non è ora di piangere adesso, c’è tempo dopo per le lacrime, semmai – e la esortai con le buone a darmi una mano.
Scendemmo giù per la scogliera stando ben attenti a non finirci anche noi, le onde erano davvero enormi ed era difficile distinguere tra i flutti cosa realmente fosse quella sagoma sbattuta dalle onde.
Ogni cavallone che giungeva sulla riva rischiava di trascinare in mare anche noi, allora io tentai di sporgermi per avere una migliore visuale, ma le onde mi spingevano indietro, d’istinto cercai la mano di Odette, ma lei si era rannicchiata in un angolo con le mani che le nascondono il viso come se non volesse vedere.
Non c’era nulla da fare, più io mi avvicinavo, più i flutti sembravano invece volere inghiottire quella sagoma, mi ricordai allora che nel magazzino degli arnesi dove avevo riposto anche il gommone della coppia, avevo la mia fidata canna da pesca col mulinello, a mala parata userò quella per tentare di portare a riva quella sagoma o qualsiasi cosa fosse.
Detto e fatto, ma nel magazzino non c’era più nessuna traccia né del gommone, né della canna da pesca e quindi un sospetto cominciò a farsi strada nella mia mente; vuoi vedere che quel figlio di buona donna di Armand è scappato col canotto lasciando qui la sua ragazza? Ma senza benzina come avrà fatto, penso, bhé! Ci sono sempre i remi e avrà usato quelli e allora quella cosa in mare cosa sarà?
Odette non si mosse di un millimetro dalla sua posizione originaria ed io non volli per il momento riferirle delle mie scoperte e se solo quell’accidente che è lì in mezzo alle onde, venisse un poco più a riva…
Probabilmente qualche divinità in fondo al mare ascoltò le mie invocazioni perché un‘onda più grossa delle altre sbattendo sugli scogli riportò a riva quella benedetta sagoma, facendoci scoprire che non era il corpo senza vita di Armand, bensì un fottutissimo giubbotto salvagente.
Mostrai quindi le spoglie di Armand a Odette che asciugandosi le lacrime e passata la paura, cominciò invece a inveire contro il ragazzo.
Non ho mai sentito tante offese uscire dalla bocca di una ragazza.
Ah! Silvio, avresti dovuto vederla come si aggirava su e giù per quella spiaggetta imprecando e urlando, quanti insulti e quante maledizioni al suo indirizzo, che se solo una fosse andata a segno, di Armand non sarebbe rimasto più nulla.
Lasciai quindi Odette a lanciare insulti, mentre seduto sopra uno scoglio con un giubbotto di salvataggio in mano, aspettavo che passasse la buriana.
Anche la tempesta più brutta passa, il mare si quieta e Odette, finito il suo rosario, si avvicinò, si asciugò le rimanenti lacrime, tirò su col naso e poi freddamente mi disse: «ok, voglio tornare a casa mia, non voglio rimanere qui neanche un minuto di più», io annuii e senza dire nulla ritornammo a casa.
Dovrà pur esserci qualche vestito, magari appartenuto a qualche mia ex, pensai ad alta voce, mentre mi affannavo a cercare degli indumenti per la ragazza. Che diamine, aveva solo il costume da bagno e quell’altro se l’era filata via senza dire nulla e d’altronde non potevo neanche lasciarla andare via con niente.
Finalmente dopo tanto cercare, trovai qualcosa di decente; un vestitino bianco estivo di tela ma era meglio che niente e accidenti, allora vorrà dire le comprerò qualcosa.
Odette ci mise due minuti a prepararsi, poi si piazzò come una statua a fissare il nulla, senza fare nulla, in attesa che io mi muovessi e a vederla in quello stato di trans, mi caddero tutti i sentimenti e un impulso di fare alla svelta per non vedermela più attorno, s’impadronì di me.
Ora anche quella remota voglia di farle un qualsiasi piacere mi abbandonò – è già tanto che ti accompagno alla stazione – pensai tra me.
Anche tutto il tragitto in auto fu scena muta, come fu silenzio quando le chiesi per quale destinazione volesse il biglietto: «Ventimiglia va bene» chiesi, poi le mesi in mano degli altri soldi e aggiunsi: «arrivata a Ventimiglia, poi saprai tu dove andare» ma quel punto, Odette scoppiò a piangere.
«Davvero vuoi che me ne vada», mi borbottò tra le lacrime.
«Ma sei tu che te ne vuoi andare», le risposi seriamente.
«Sì, hai ragione è un bene per tutti e due», asserì asciugandosi le lacrime.
Un lungo e freddo silenzio ci accompagnò al treno, credo non ci sia più nulla da dire e un qualsiasi addio sarebbe stato comunque di troppo, la guardai per l’ultima volta, ma il suo sguardo era perso ormai dietro alle colline, affrettai quindi il passo per guadagnare l’uscita più in fretta che potevo, un ultimo sguardo verso lei e il treno stava sbucando dalla galleria, bhé! Pensai, non posso andare via così, come ho fatto sempre, senza dire nulla, senza voltarmi indietro e senza rimpianti.
Così; «senti, se un giorno ti volessi venire a trovare, troveresti del tempo per un vecchio amico?», le domandai tornando sui miei passi.
Lei, si girò di scatto e come se non aspettasse altro e mi risponde: «avrei tutta la vita, per te».
«E allora perché aspettare, la vita è adesso, dopo potrebbe essere troppo tardi», le risposi.
Come vedi caro Silvio a volte nella vita capitano cose che neanche lontanamente puoi immaginare e queste cose ti cambino l’esistenza dall’oggi al domani.
L’età non conta, nulla conta se non l’essere felici e la felicità è un’opzione che non contempla un certificato di garanzia.
Ti ho voluto scrivere questa lettera senza sapere il perché, forse sentivo solo il bisogno di comunicare a qualcuno questa mia improvvisa felicità, o forse avevo solo necessità di scriverla per rileggerla e per esserne sicuro.
Tu che mi conosci bene caro Silvio, sai anche che questa lettera non ti arriverà mai, perché in questo scritto c’è qualcosa di talmente intimo, talmente “mio” che nessuno mai neanche Odette dovrà mai sapere.
Spero che capirai.
Con Affetto, Renato.

 

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  1. Eleonora
    Originalità

    Coinvolgimento

    Stile

    Un racconto che sembra un quadro. Pennellate leggere e delicate, ma che arrivano al cuore. Molto bello.

    7 anni fa
  2. Gigliola
    Originalità

    Coinvolgimento

    Stile

    favoloso, scritto benissimo, molto coinvolgente.

    5 anni fa

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