Storie di Città

Racconti e Poesie originali e geolocalizzati

  • Home
  • Pubblica e Geolocalizza le tue Opere
    • Regolamento
    • Invia la tua Opera
  • Accedi
  • Registrati
Menu
  • Home
  • Pubblica e Geolocalizza le tue Opere
    • Regolamento
    • Invia la tua Opera
  • Accedi
  • Registrati
  • Sfoglia Categorie
      • 683Poesie
      • 393Racconti
  • Chi siamo
  • Blog
  • Contattaci
Accalappiacani
Scheda Verificata

Scheda Verificata

This listing is being maintained by its rightful owner.

Accalappiacani

Via Casalnuovo
75100 Matera
Racconti Horror Racconti
2 Reviews
Condividi

Condividi:

Condividi:

  • Fai clic per condividere su Facebook (Si apre in una nuova finestra)
  • Fai clic qui per condividere su LinkedIn (Si apre in una nuova finestra)
  • Fai clic qui per condividere su Twitter (Si apre in una nuova finestra)
  • Fai clic per condividere su WhatsApp (Si apre in una nuova finestra)
  • Fai clic per inviare un link a un amico via e-mail (Si apre in una nuova finestra)
Write a Review

Accalappiacani

visita su Google street view  

Mi stanno alle costole, lo so. Lo sento, ma non lascerò si riprendano i miei cani.
Percepisco attorno me la gente che mi guarda in maniera strana. In questo coacervo di esseri viventi malati non meno di me, ci sono loro, quelli che vogliono catturarmi, portarmi via e farmi diventare a mia volta un cane, ma avranno filo da torcere.
Tra gli scaffali del supermercato nel quale lavoro, vedo ogni giorno una miriade di facce, migliaia di occhi che mi scrutano e dietro i quali ci sono tonnellate di pensieri nefandi e perversi, tanto quanto i miei, ne sono certo. Le mie nefandezze, però, sono soltanto nei confronti dei cani, ma la gente non capisce che cerco di far loro del bene. E’ per questo li ho ben nascosti agli occhi di tutti. Loro pensano che un uomo sia malato solo perché tiene un cane legato con una catena. Secondo loro il cane così impazzisce. Mi viene da ridere se ci penso. Il cane è nato per essere legato, fa parte della sua natura, così come lo stare a quattro zampe, l’essere preso a calci e lo sguazzare nei suoi stessi liquami.
Metto a posto l’ultimo pacco di crackers. Guardo i miei colleghi uscire, passandomi davanti senza salutare, come sempre.
Tutti tranne Debora.
– Ciao bello!
Lei è una persona speciale, unica. Lei mi vede, ma soprattutto è consapevole che esisto, ma davvero!
Ricambio il saluto con un leggero sorriso e un movimento della testa.
– Che fai… rimani qui stanotte?
Mi sorride, io non rispondo, ma lo fa il mio cuore per me, perdendo un colpo. Con Debora ci passerei la mia vita penosa, che con lei smetterebbe di essere tale, ne sono certo. A lei direi tutto, anche dei cani rinchiusi nella mia cantina, ma probabilmente anche lei non capirebbe. Nessuno lo capisce che è quello il posto giusto per i cani, lontano dal mondo degli esseri umani. Mia madre, prima di andare a far compagnia ai vermi sottoterra, sapeva tutto e nonostante non lo accettasse taceva. Ha sempre taciuto. Mio padre, invece, era come me. Odiava i cani con la mia stessa intensità. E’ stato lui il mio mentore.
Mando a quel paese il supermercato, i miei colleghi, quel posto pregno di cattiva gente eccetto Debora, ed esco. La mia giornata è finita, adesso devo tornare a casa per dar da mangiare ai miei cani, anche se prima c’è il momento più bello di tutti: aspettare Debora.
Lei lavora con me da poco più di due mesi. Non è una gran lavoratrice, ma si fa voler bene da tutti. Il direttore la tiene molto in considerazione, anche se passa molto tempo al cellulare. Lo fa di nascosto, ma io la vedo, perché i miei occhi la cercano in continuazione. E la trovano sempre.
– Il mio ragazzo… – mi disse un giorno, rossa in volto per l’imbarazzo dopo averla colta in flagrante e avermi mostrato il cellulare – lavora a Milano e ci sentiamo spesso… – poi si era avvicinata, fino a farmi sentire il suo profumo – solo che stiamo per lasciarci, siamo in crisi – e il suo volto si era rattristato di colpo, facendo però gioire le mie interiora.
Sono sicuro che qualcosa di buono sta per succedere nella mia vita, avevo pensato quel giorno, fiducioso di poter conquistare quella ragazza dolcissima.
– Ti prego… non dire nulla al direttore… – e mi aveva mostrato nuovamente il cellulare – altrimenti mi manda a casa, ok?
E da quel giorno abbiamo quel segreto in comune e un segreto ti lega a una persona a doppio filo.
Me ne sto seduto sul mio Scarabeo sgangherato e aspetto che lei esca. Nonostante abbia lasciato il suo corridoio cinque minuti prima di me, non è ancora uscita. Come sempre sta indugiando nel chiacchierare con le altre ragazze del supermercato. Non ho idea di come ci riesca. La più simpatica di quelle arpie la soffocherei molto volentieri.
Eccola.
Debora ha una chioma fluente, di un nero corvino, sempre raccolta dietro la nuca durante il giorno. E quasi a volermi far star male, nel momento in cui esce fuori, mentre mi si avvicina li scioglie, lasciandoli ondeggiare fino a giungermi vicino. Le mie narici si riempiono del profumo dei suoi capelli. I suoi occhi, neri anch’essi, sono un colore unico, uniforme, iride e pupilla. Ha una pelle che sembra seta, anche se non ho potuto ancora toccarla. E’ alta e magra, ma il suo seno è generoso, pieno, sodo. E’ una dea.
– Perché mi aspetti ogni giorno?
Rispondo con una alzata di spalle.
Perché ti amo, vorrei dirle, ma non lo faccio. Neanche oggi.
– Senti… – e si guarda le spalle, come chi è in procinto di commettere un reato – anche se… – e mi guarda – anche se dicono cose strane sul tuo conto qui dentro – e indica il supermercato alle sue spalle – io non ci credo – e mi fissa.
Dio mio quanto la amo, penso.
– E cosa credi? – le chiedo, con il cuore che sta per frantumarsi.
– Beh… – sorride imbarazzata – credo tu sia soltanto una persona sola. Nient’altro! – mi guarda facendomi sentire un uomo, dopo quarant’anni di inutile esistenza.
Le gambe mi tremano. Se scendo dalla sella della moto sono certo di cadere. Le mani hanno quasi degli spasmi, mentre indosso il casco. Sento gli occhi di Debora che mi fissano e vanno oltre lo scrutare, scavano. Entrano dentro di me e tolgono via pezzi di anima.
– Non dici niente? – mi chiede, mentre giro la chiave.
La guardo.
– Devo andare!
Premo il pulsante e il motore gira con il suo rumore di ferodo. Spingo lo sterzo e lascio che le ruote tocchino l’asfalto. In tutto questo gli occhi di lei sono su di me.
– Io e Lorenzo non stiamo più insieme – mi dice, prima che parta.
La guardo. Le sorrido.
Devo andare, penso, i miei cani avranno fame. Non mangiano da ieri.
Abbasso lo sguardo e accelero. Le giro quasi attorno, mentre lei rinuncia a guardarmi andare via.
Devo andare dai miei cani, penso, anche se li odio non posso farli morire di fame.

Per evitare di essere visto quando vado dai cani, ho messo a punto un piano ben congegnato per fregare i maledetti occhi che scrutano la mia esistenza. Occhi che mi guardano ogni istante, ne sono certo. Mi sento un Winston Smith moderno, consapevolmente braccato.
La mia casa è nella zona sud della città, a ridosso dei vecchi Sassi. Ed è in una di quelle vecchie abitazioni, dimenticate dai materani prima e da Dio dopo, che vivono i miei cani. Forse dovrei dire sopravvivono. In quell’antica casa abbandonata e trasformata in cantina da mio padre, lui ci faceva il vino. E nonostante sia passato a miglior vita quando avevo solo quindici anni – e da quel piacevole giorno ne sono passati altri venticinque – parte di quel tanfo è ancora tutto lì, su quel pavimento fatto di argilla. Sembra quasi che quel posto abbia assorbito così tanto vino da non riuscire a smaltirlo. Neanche gli escrementi dei miei cani, reclusi lì dentro da due anni notte e giorno, hanno cancellato del tutto quell’odore pungente che mi scatena solo pessimi ricordi. Anzi, ora mescolato al nuovo fetore, lo rende ancora più insopportabile.
Quando arrivo a casa trascorro una buona mezz’ora vagando tra quelle mura amiche e protettrici. Poi ceno, solo come un cane, e guardo la TV con pochissimo interesse.
E aspetto il calare della notte.
Quando gran parte della città dorme, prendo l’ascensore fino al piano sotterraneo, lasciando la luce in soggiorno e la TV accese. Nel garage mi cambio e indosso solo indumenti dismessi e neri, per confondermi meglio col buio.
Il garage è a ridosso di via Lucana. La parte posteriore, però, affaccia sulle vecchie case di via Casalnuovo, in pieno Sasso Caveoso. Esco dalla finestra e mi ritrovo sulle tegole di una di quelle abitazioni. Scivolo lungo il muro della casa che è separata da quella accanto da un metro di vuoto. Non so perché quel vicolo cieco sia stato lasciato così, ma è molto comodo per le mie esigenze. Quando esco di lì sono in strada e mi confondo con il mondo arcaico e privo di anima della Matera antica. La mia cantina è a duecento metri da quel punto. Niente di più facile, mentre il Grande Fratello mi scruta, guardando stupidamente la luce dalla finestra del soggiorno, convinto che stia guardando la solita fiction tediosa in TV.
Ho solo tre cani, la mia cantina non mi permette di tenerne di più. In dieci metri quadri non posso metterne altri. Ho dovuto persino rinunciare a una bella cagna che vagava sola per strada.
Cammino lungo la strada di acciottolato. Entro nel vicolo scavato nel tufo che mi porta nelle viscere delle vecchie case scavate, un tempo rifugio di emigrati di origine slava. Cammino sulla strada che altri non è che un continuo di tetti delle case del livello inferiore.
Sono solo.
E solo adesso non mi sento osservato.
Sono a dieci metri dalla mia cantina e già il tanfo degli escrementi mi prende la gola. Sono due mesi che non cambio la terra del pavimento, sto diventando sempre più pigro, forse perché i tre bastardi non si lamentano. Probabilmente hanno perso le speranze di tornare liberi e si sono rassegnati a sguazzare nell’intruglio flatulente delle loro feci miste all’urina.
Mancano cinque metri e trattengo il respiro fino a che non entro nel piccolo atrio davanti alla porta. Qui ho scavato una nicchia nel tufo chiusa con una porta di ferro. Dentro vi è l’acqua, il sacco di croccantini e gli stivali di gomma per non inzaccherarmi le scarpe.
Sono in apnea da troppo tempo, decido di mettere il fazzoletto sul naso e la bocca. Sono davanti alla porta di ferro. I cani all’interno stanno piangendo, nonostante la loro bocca sia tappata. Li odio ancora di più quando piangono.
Con il respiro che sento ridondare nelle orecchie, apro la porta della nicchia. Prendo gli stivali. Tolgo le scarpe da trekking e li indosso. Prendo i croccantini e la tanica con l’acqua. Con la chiave che ho in tasca apro il lucchetto. Il fetore è immane, passa attraverso il cotone e mi provoca un conato di vomito. Non riesco proprio ad abituarmi. Per fortuna le cantine attorno alla mia sono in completo stato di abbandono e nessuno può sentirlo.
Accendo la torcia elettrica e illumino tutto attorno. Mi chiudo la porta alle spalle. Nel fascio di luce vedo i cani che si sono rifugiati nell’angolo più lontano, intimoriti. Hanno smesso di piangere, sanno che se non lo fanno prendono calci fino a che non smettono. Hanno imparato. Sono uno a addosso dell’altro, si proteggono a vicenda.
Un giorno, mentre riempivo le loro ciotole, uno dei tre mi si avventò contro, pieno di rabbia. Me lo scrollai di dosso senza problemi, ma mi aveva fatto andare su tutte le furie. Lo picchiai fino a farmi male la mano, ma gli altri due cercarono di proteggerlo, prendendole a loro volta. Erano riusciti nel loro intento: avevano diviso in tre la dose di percosse che spettava solo a uno di loro.
Li sto osservando.
Loro scrutano me, anche se non mi hanno mai guardato in volto. Tremano, per il freddo probabilmente. Sono zuppi su tutto il corpo. La mia cantina è tutto fuorché calda e confortevole. Uno dei tre è più malandato, essendo più piccolo di età e di corporatura. Ma non mi importa. Osservo la catena che hanno attorno al collo. E’ completamente arrugginita e non aiuta a guarire dall’infezione che gli ha provocato, ma anche di quello non mi importa.
Muovo qualche passo verso di loro, facendoli raggomitolare ancora di più uno sull’altro. Cerco la ciotola per il cibo. La vedo, è unica per tutti e tre. E’ rovesciata. Quella con l’acqua invece è ancora lì, ma piena di microscopici insetti che galleggiano sul pelo di quel liquido un tempo incolore e inodore. Non mi importa neanche di quello. Parte del cibo caduto dalla ciotola rovesciata si è mescolato al lerciume per terra. Gli stivali si sono già inzaccherati, rendendo il mio camminare un po’ incerto. I tre cani sono adesso in ombra, mentre con un piede rimetto a posto la ciotola del cibo. Sento il rumore della catena e vedo la sagoma dei loro corpi. Riempio la ciotola di croccantini. Poi li poggio per terra e metto un po’ di acqua pulita, senza disfarmi di quella putrida, tutto questo mentre tengo la torcia in tasca a illuminare il soffitto. Non posso poggiarla in nessun altro posto, non essendoci angoli puliti.
Il loro pasto è pronto, ma adesso viene la parte più odiosa. Devo liberare la bocca lercia delle tre bestie per dar loro modo di nutrirsi, nonostante mi importi poco quanto vivano ancora. Questi tre cani sembrano resistenti, credo che dovrò sopportarli per parecchio ancora.
Mi avvicino a quello dei tre che sta meglio. Lo guardo dritto negli occhi, mentre tengo la torcia in una mano e allungo l’altra verso il bavaglio sudicio. Libero la sua bocca piena di lacerazioni e piaghe.
Non emette un solo fiato, ha imparato la lezione.
Vai… forza! – gli dico con rabbia.
Poi con un clangore fastidioso lo vedo muoversi verso la ciotola e affondare la bocca nel cibo e ingozzarsi con foga.
Mi avvicino al secondo, fiaccato dalla prigionia ma vigile. Tolgo il bavaglio anche a lui che molto più lentamente del primo muove verso la ciotola, senza fiatare a sua volta.
Il terzo lo odio ogni giorno di più. É malandato, non ha quasi più energie ormai, devo spingerlo verso la ciotola con forza, lordandomi ancor più le mani. Oggi, però, sembra stare un po’ meglio. Lo libero dal bavaglio, ma non si muove. Ha gli occhi semi chiusi. Non è infastidito nemmeno dalla luce della torcia.
– Se non ti muovi… i tuoi amici ti lasceranno digiuno, idiota! – gli ringhio contro desideroso di prenderlo a calci.
Sembra aver capito. Quasi strisciando si muove. Lo vedo arrivare alla ciotola quando il primo è già sazio e sta bevendo l’acqua putrida.
Punto la luce alternativamente sui miei cani bastardi.
Sorrido.
Mi diverte vederli chini sulla ciotola sporca e mai lavata. Fisso il più malandato di tutti, il piccolo, fa fatica a mangiare, persino a deglutire. Ha mandato giù due bocconi solamente e si appresta a bere. Il primo, il più grande e anche più resistente di tutti, è andato nel suo angolo, non è più nella mia visuale.
Improvvisamente sento un rumore di catena che striscia velocemente. Giro lo sguardo e punto il fascio di luce, ma prima di riuscire a dire o fare qualcosa, il più grande mi si avventa contro, muovendosi con l’agilità e la silenziosità di un boa. Sento i suoi denti affondare nella carne della mia mano destra.
– Aaaaaaah! Dio mio! – urlo con la voce ovattata dal fazzoletto.
Una fitta atroce si irradia per tutto il braccio, dandomi la sensazione di essersi come addormentato un intero lato del corpo, in un solo istante. La torcia cade nella fanghiglia, rimanendo immobile a illuminare il pavimento e dando alla cantina un’atmosfera lugubre. Intanto il cane continua a stringere con forza. Lo sento ringhiare rabbioso mentre stringe.
E stringe ancora.
Il dolore adesso è talmente acuto che mi si annebbia la mente. Trovo un istante di lucidità e guidato da un istinto primordiale alzo la mano sinistra al cielo e lo colpisco alla fronte, tra gli occhi. Il bastardo emette un urlo e molla la presa, ricadendo per terra con un rumore ovattato. Barcollo, in preda al dolore lancinante. I miei piedi perdono aderenza e mi ritrovo seduto nella melma di escrementi. Maledico quel cane schifoso e mi porto la mano sporca alla ferita, sentendo il sangue defluire in abbondanza. Mi sento male. Il dolore è atroce, ma altrettanta è la rabbia. Con uno sforzo immane mi rimetto in piedi. Recupero la torcia, ormai incurante dello sporco, ovunque su di me. Muovo il fascio di luce e cerco il cane che mi ha aggredito. Lo individuo subito. Nonostante il pugno è sveglio, ed è rannicchiato in un angolo. Mi guarda negli occhi. Ha paura e ha ragione ad averne. Prima che possa muovere solo un muscolo, gli sono addosso e lo colpisco con la mano sinistra armata di torcia.
Un colpo. Poi un altro. Un altro. Un altro. Un altro. Un altro. Un altro.
Il suo piagnucolare pietoso mi rende più furioso e colpisco senza freni, fino a che non sono sfinito. Questa volta gli altri due non sono accorsi in suo aiuto.
Mi raddrizzo. Ho il fiatone. La torcia ha il vetro rotto, ma la luce è ancora accesa.
Il bastardo è svenuto o morto, non lo so e non mi importa.
In fondo è solo un maledettissimo cane.

– Non sapevo avessi un cane! – mi dice Debora, dopo averle raccontato di essere stato morso dal mio cane.
Rientrato a casa, di ritorno dalla cantina, il dolore mi ha impedito di rifare la stessa strada dell’andata, non avrei potuto arrampicarmi sul tetto della casa sotto il mio garage. Così sono uscito allo scoperto e sono passato da via Lucana. Nonostante l’olezzo dei miei abiti abbia infestato il portone, sono sceso nel garage e mi sono cambiato. Gli indumenti sporchi li ho gettati in un sacco della spazzatura. Sono salito a casa e mi sono lavato fin quasi ad asportarmi l’epidermide, mentre la mano sanguinava. Quando non sentivo più il tanfo nelle narici, mi sono dedicato alla ferita. Il dolore era insopportabile. Il cane ha affondato i denti a tal punto che se non l’avessi colpito mi avrebbe strappato via la carne. Sono stato male tutta la notte, nonostante avessi disinfettato la mano versandoci sopra un’intera bottiglia di alcool etilico e aver rischiato di perdere i sensi per la sofferenza. Poi ho fasciato il palmo così stretto da sentire i nervi pulsare. Ho preso due antidolorifici e ho cercato invano di dormire.
Al mattino la fasciatura era sporca di sangue. C’era bisogno di punti di sutura, ma non mi sognavo neanche di andare al pronto soccorso. Troppe domande, troppi sospetti. Un medico che avesse studiato la metà del dovuto si sarebbe accorto al primo secondo dell’origine dei quel morso, non potevo affidarmi alla fortuna di trovare un medico incompetente. Ho rifatto la fasciatura e sono andato a lavoro.
Quando sono arrivato al supermercato nessuno si è accorto della mano, come di tutto il resto del corpo. Stringevo i denti a ogni gesto per la sofferenza. Quando potevo adoperavo solo la sinistra. Quel mio modo di fare, però, non è sfuggito a Debora.
– Si… è un bastardino che non vuole saperne di stare al suo posto… – Debora mi guarda la fasciatura, sempre più rossa.
Noto il suo pallore. Credo non ami il sangue umano.
– Forse… dovresti andare al pronto soccorso – e indica la mia mano.
La guardo anch’io. Poi guardo lei. Maledico ancora una volta il cane, ma prima ancora di riuscire a capire quello che sta accadendo, la vista mi si annebbia. Il pacco di assorbenti che ho in mano, pronto a finire sullo scaffale, perde di consistenza e mi sfugge di mano. Mi sento perso in una bolla d’acqua. La voce di Debora si allontana.
Poi il buio totale.
Apro gli occhi. Sono disteso nell’ufficio del direttore, un angusto spazio ricavato in un sottoscala. Accanto a me la sua scrivania. Lui è seduto al suo posto. Si accorge del mio movimento e si degna di guardarmi, con occhi privi di espressione.
– Quando esci di qua, ti consiglio di andare al pronto soccorso – mi dice con il suo tono saccente, mentre, con uno sforzo enorme, tento di mettermi a sedere.
La testa mi gira ancora, ma devo alzarmi e superare questo momento. Il direttore se ne frega se non sto bene, continua a fare i suoi conti alla calcolatrice. Guardo la mia mano destra. Qualcuno ha rifatto la fasciatura.
– Chi è stato? – gli chiedo mostrandogli la mano.
– Non ne ho idea – mi risponde, facendo spallucce e guardando solo un secondo la mia mano – non c’ero e da quando sono arrivato non è entrato nessuno in ufficio.
E’ stata Debora, sicuramente.
Mi rimetto in piedi, cercando un appiglio per non cadere. Il direttore mi guarda per un altro secondo, prima di tornare a guardare i tasti con più interesse di me.
– Hai qualcuno che ti accompagna in ospedale? – mi chiede, lasciando intuire con il suo tono che lui non ci pensa nemmeno.
– Si – e senza aggiungere altro esco da quel posto claustrofobico.
– Al tuo posto… lo farei sopprimere! – mi dice, quando sono già sulla porta.
Mi fermo e lo guardo. Stupidamente, per far fede al suo modo di essere, pensa non abbia capito.
– Il cane, dico… – e indica la mano.
Lo guardo, sentendo solo pietà per lui.
– Io non ammazzo i cani!
Esco senza salutare. Giro a destra verso l’uscita, sentendo le gambe molli. Non credevo di aver perso così tanto sangue.
Prima di guadagnare l’aria pulita all’esterno, mi giro, attratto dalla voce di Debora. Sta parlando al suo cellulare in maniera concitata. Forse la sua storia d’amore con il tizio di Milano ha ripreso il volo. Senza altri indugi esco e mi dirigo verso il mio miserrimo mezzo di trasporto. Quando sono già in sella e ho il casco in testa, Debora esce e mi raggiunge correndo.
– Dove stai andando?
– A casa.
– A casa? – è allarmata – non se ne parla nemmeno – mi punta l’indice sotto il naso – se non ci vai tu in ospedale, ti ci porto io, capito?
La fisso a lungo. Entro dentro di lei attraverso i suoi occhi.
Se sapessi tutto di me… non saresti così preoccupata, penso.
Le sorrido e distolgo lo sguardo, sentendo la testa leggera.
– Non amo gli ospedali – le dico, guardandola un attimo.
– Non mi interessa! Quella ferita ha bisogno di punti e di essere disinfettata per bene – mi guarda.
E’ sinceramente preoccupata per me. E’ la prima volta che succede nella mia infima esistenza.
– Non preoccuparti… passerà! – e prima che possa dire altro, metto in moto e vado via.
I suoi occhi mi seguono fino a che non sono abbastanza lontano.

La febbre mi ha ridotto a una larva. Dopo essere rientrato a casa dal supermercato ho vomitato. Il dolore era così forte da aver trovato un appiglio sullo stomaco. Poi mi sono infilato sotto le coperte e mi sono svegliato quando il sole era già scomparso. La mano aveva smesso di pulsare e la benda non si era sporcata più di sangue. E’ stato un buon segno. Mi sono alzato, sentendo una debolezza infernale. Ho mangiato quel po’ che c’era nel frigorifero, ho aspettato la notte e sono uscito. L’aria fredda mi ha aiutato a essere lucido quel tanto che bastava per andare dai miei maledetti bastardi. E così ho preso degli abiti vecchi e ho fatto il solito tragitto.
Il cane che mi aveva morso ero sicuro fosse morto dopo le botte che ha preso, se pur con la mia mano sinistra. Invece mi sbagliavo. Stava male, probabilmente non gli restavano che pochi giorni di vita, ma se l’era cercata. Gli altri due gli erano vicino, nella vana speranza di aiutarlo. Ho riempito la ciotola di croccantini, fregandomene dell’acqua che aveva assunto un colore molto simile al verde.
Dopo aver tolto a tutti il bavaglio, hanno mangiato solo in due: il più grande è rimasto tutto il tempo inerme, con gli occhi chiusi e il respiro affannoso, credo abbia qualche costola rotta. Dopo aver osservato i due meno malconci e averli nuovamente imbavagliati tutti e tre, li ho lasciati al loro destino.
Rientrando a casa, però, nel tentativo di risalire sul tetto della casa che mi portava alla finestra del garage, sono scivolato e la mano ferita si è impigliata nella grondaia. La fasciatura è stata strappata e la ferita si è riaperta, grazie al filo tagliente del metallo. Ho urlato così forte che qualcuno deve aver sicuramente pensato che in giro c’era un lupo mannaro.
Ho maledetto i cani e li ho odiati in maniera così viscerale che ho preso una decisione, forse in quell’esatto momento.
Li ucciderò!
La ferita mi ha obbligato a tornare a casa senza passare dalla finestra del garage, ancora una volta. Rientrato ho disinfettato il tutto ho nuovamente vomitato per il dolore acuto. Sotto le coperte ho cominciato a tremare di freddo e vi sono rimasto per quarantotto ore.
Solo oggi mi sono ripreso, anche se la debolezza mi si vede tutta sul corpo.
In piedi davanti allo specchio del bagno cerco di radermi, ma la mano di duole. Il mio volto è emaciato, scavato dalla fame, dall’infezione e dalla febbre. Mi sto rimettendo in sesto per andare dai miei cani.
Ho già deciso come ucciderli, allo stesso modo in cui lo feci la prima volta quando avevo quindici anni: con il martello. Un colpo secco alla testa e tutto è finito. Ho riacquistato le forze necessarie per farlo e poi so che non avrò grosse difficoltà, non opporranno resistenza, sono piccoli, deboli e soprattutto incatenati.
Ho finito. Mi liscio il volto, sentendo le ossa degli zigomi sotto la mano. Non so per quale motivo mi viene in mente Debora.
Sorrido al mio riflesso.
Stasera chiudo un capitolo e ne apro un altro.
Stasera smetterò di avere un segreto e potrò dedicarmi a lei, alla donna che amo. Da domani non sarò più schivo. Cambierò, promesso.
Mi vesto ed esco.
Scendo in garage. Incontro la signora del terzo piano. Non la saluto, come sempre. Non saluto le donne impiccione e pettegole. Vado al livello meno uno. Apro la porta. Attraverso il garage, privo di auto da sempre. Vado verso la cassetta degli attrezzi e prendo lo stesso oggetto usato trent’anni prima e altre tre volte negli anni seguenti. Lo guardo. C’era ancora un alone di sangue nella parte piatta, nonostante gli innumerevoli lavaggi. Sorrido soddisfatto per quello che sto per fare. Mi viene da pensare che probabilmente sono guarito, avendo preso questa decisione. Forse, dopo stasera, smetterò di odiare i cani al punto da segregarli in cantina.
Infilo il martello nella cintura dei pantaloni, a mo’ di spada, come fanno tutti i bambini da sempre. Tutti, tranne me. Io non sono mai stato bambino, o meglio, non lo sono stato abbastanza. Mi arrampico sulla finestra, facendo bene attenzione alla mano destra e in pochi secondi mi ritrovo a camminare sulle tegole che nella penombra della luna e dei lampioni assumono un colore pallido inquietante. Cammino piano, se metto un piede in fallo e cado sulla mano ferita, potrei davvero morire dal dolore. Scivolo lentamente lungo il muro. Mi sporgo nel punto in cui ho divelto la grondaia due giorni prima cadendo. Senza indugi salto, cercando di ammortizzare l’atterraggio piegandomi sulle gambe. Nonostante tutto sento un formicolio che parte dai piedi fino alle ginocchia.
Sorrido.
Fin qui tutto bene.
Mi avvio per via Casalnuovo, accarezzando la testa del martello. Dopo che li avrò uccisi andrò a seppellirli dove ho seppellito il mio primo cane, anche se quella volta è stato più complicato perché era troppo grosso per me e ho dovuto portarlo a pezzi. Quella volta mi sono improvvisato macellaio, ma al posto della mannaia avevo un ascia per spaccare la legna. Ricordo di averlo fatto con molto piacere ed entusiasmo. La rabbia che avevo dentro era enorme.
Svolto nel vicolo per entrare nelle case del Sasso Caveoso. Dopo pochi metri sento già il tanfo che proviene dalla mia cantina.
E’ troppo presto per sentirlo, è strano, penso.
Con molta probabilità il cane che ho malmenato è morto e si sta già putrefacendo.
Dio mio, penso, fetore su fetore!
Solo cinque metri mi separano dalla cantina, ma devo già mettere il fazzoletto sulla bocca. Sfilo il martello. Prendo la torcia e poi le chiavi. Svolto l’angolo.
Il mio cuore si blocca.
La porta è già aperta.
– Maledizione!
I cani sono riusciti a scappare?
Alzo il martello, pronto a colpire. Scosto la porta lentamente. Punto la torcia verso l’interno. Il cane che ho picchiato respira a fatica, ma sembra privo di sensi. Anche l’altro, quello malaticcio da tempo, sembra aver perso i sensi. Il terzo è vispo e alla vista della luce si tira indietro, strisciando lungo la parete, impaurito.
Qualcosa non mi quadra.
– Fermo o sparo!
Urla una voce alle mie spalle, bloccandomi.
– Sei un verme schifoso! – mi urla ancora.
Sorrido.
– Lascia quello che hai in mano o ti sparo un colpo in testa… e ti garantisco che ho una grandissima voglia di farlo… dopo quello che ho visto!
La voce è carica di rabbia, di odio. Indugio un secondo. Guardo in direzione dei cani, lì dove la luce illumina ancora.
Capisco quello che non mi quadrava, nessuno dei cani aveva più il bavaglio. Chi è dietro di me aveva già iniziato a liberarli.
Poi il colpo di genio.
All’improvviso spengo la torcia e il buio quasi totale ci avvolge. Nello stesso istante in cui ho fatto scattare l’interruttore, mi abbasso e scarto di lato. Sento un proiettile passarmi sopra la testa. Mi giro nella penombra e mi avvento contro il punto alle mie spalle dove presumo ci sia il mio nemico minaccioso. Lo trovo e lo travolgo con il peso del mio corpo. Non cade, ma urta con la spalla contro il muro con un tonfo sordo. Con molta probabilità si è rotto qualche osso. Spingo ancora contro il muro, con tutta la rabbia del mondo.
– Aaaah! – urla di dolore.
Con l’affanno e i piedi resi scivolosi dalla melma fetida, non riesco a mettermi in piedi, ma a tentoni trovo il braccio armato del mio nemico. Non so se impugna ancora l’arma, ma per precauzione sbatto la sua mano contro il muro e sento cadere la pistola nel lerciume ai miei piedi.
– Aaaah! – urla ancora.
Sento scivolare quel corpo, diventa inerme. Subito gli sono addosso, pronto a colpirlo, aiutato dalla penombra alla quale i miei occhi si sono già adattati. Ma con un inaspettato colpo di reni, vengo disarcionato e urto contro la parete alla mia destra, nello stretto angolo in cui siamo.
– Aaaah! – questa volta sono io a urlare di dolore.
L’omero ha colpito il muro, facendomi cadere di peso sulla mano fasciata. Il dolore doppio mi disconnette dalla realtà per alcuni secondi, tempo utile al mio aggressore per raddrizzarsi e uscire fuori. Sento il suo affanno e le sue smorfie di dolore. Mi rimetto in piedi e parto all’inseguimento, guidato dalla luce che penetra dalla porta lasciata aperta.
Sono fuori. Vedo il mio aggressore iniziare a correre, ma d’un tratto le sue scarpe inzaccherate perdono aderenza e cade carponi.
– Aaaah! – urla ancora.
In un solo secondo azzero la distanza che ci separa e sono nuovamente sul mio nemico. Nella colluttazione ho perso il martello, ma senza indugi metto le mie mani alla sua gola e comincio a stringere.
– No… no… ti.. pre…go – mi dice, tentando invano di allentare la stretta.
Fisso gli occhi di Debora e sento, mentre la sto uccidendo, che la amo, ma non posso permettere che sopravviva, dopo quello che ha scoperto.
– Mi hai mentito – le dico – sei una poliziotta e sei venuta al supermercato per tenermi d’occhio!
Il Grande Fratello.
E stringo.
– Tu… sei… ma… la… to!
Stringo e carico il peso del busto sulle mani. Debora stringe i miei polsi e tenta di colpirmi con le gambe, in parte libere, ma non ottiene alcun beneficio. Il sangue al cervello comincia a non defluirle già più. Le sue forze vengono meno, lentamente.
Poi all’improvviso sento un dolore acuto al cranio.
Subito dopo il buio.

GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO:
“Arrestato il rapitore dei tre bambini spariti da quasi due anni”
L’uomo, un quarantenne incensurato, li teneva segregati in una cantina. Vivevano come cani.
E’ finito l’incubo per i tre bambini scomparsi da quasi due anni, dei quali si erano perse completamente le tracce. I tre bambini, rispettivamente di 9, 10 e 11 anni, erano stati rapiti e rinchiusi in un locale situato nel Sasso Caveoso e costretti a vivere come animali e a cibarsi come tali. Secondo gli inquirenti, l’uomo, che soffre di gravi turbe psichiche, in passato ha subito molto probabilmente violenza, che nel corso degli anni è poi sfociata in questo gesto folle. I tre bambini sono stati trovati malnutriti e per due di loro le condizioni sono piuttosto gravi, ma non sono in pericolo di vita. Oltre ad avere le mani legate, al collo avevano una lunga catena ed erano tutto il giorno imbavagliati. Erano costretti a vivere nei loro stessi liquami e spesso venivano picchiati selvaggiamente, soprattutto se non obbedivano. Adesso i tre potranno tornare a condurre una vita normale, anche se per loro, probabilmente, dopo questa triste esperienza, nulla sarà più normale. L’uomo è anche sospettato di aver ucciso, venticinque anni addietro, suo padre. Verranno anche riaperti i casi di altri tre bambini scomparsi e mai ritrovati.
– Ciao.
Debora è seduta di fronte a me. Ci divide un tavolo. Ho le mani legate dietro la schiena. Sulla porta un poliziotto che ci guarda. La guardo. Poi guardo il poliziotto. Debora fa un cenno allo sbirro e lui esce.
Solo io e lei, ancora una volta.
– Perché lo hai fatto?
La guardo. Le sorrido. Stavo per ucciderla, ma qualcosa mi ha colpito in testa e sono svenuto. Uno dei cani, sicuramente. Probabilmente lei lo aveva già liberato.
Debora mi appare diversa, un’altra donna, ma sempre bellissima. Noto i lividi sul collo provocati dalle mie mani.
– Mi dispiace – le dico, sincero.
– Per cosa?
– Per quelli – e indico il suo collo con un movimento della testa.
– Mi avresti uccisa?
Sorrido, ma non le rispondo.
C’è silenzio per un po’, poi torna a guardarmi.
– Hai voglia di parlarmi di tuo padre? – mi chiede.
La guardo ancora. Non ha più lo sguardo stranito che sembrava avere al supermercato, quando fingeva di essere una mia collega.
– No, non ne ho voglia!
– Sei tu che hai chiesto solo di me e nessun altro – mi dice con tono arrabbiato – non hai voluto neanche un avvocato… e adesso non parli?
– Non ho voglia di parlare di mio padre – la fisso.
Le sorrido.
– Allora se non vuoi parlare… me ne vado! – mi dice.
Si alza, strisciando rumorosamente la sedia sul pavimento e va verso la porta.
– Aspetta… – le dico desideroso di tenerla ancora vicino a me.
Debora si ferma, si gira e mi guarda. Sembra triste per me. Decido di raccontarle tutto, dall’inizio alla fine.
Non ho più nulla da perdere. Abbasso lo sguardo al solo pensiero di ricordare.
Torno a fissarla e inizio a parlare.
– Sono stato un cane anch’io!

FINE

Cerca altre Storie nella tua Città


Benvenuto

Ora invia una Recensione

Ordina Per

  1. stefano motta
    Originalità

    Coinvolgimento

    Stile

    bellissima

    6 anni fa
  2. Fabrizio Malvisini
    Originalità

    Coinvolgimento

    Stile

    Mozzafiato!!!!

    5 anni fa

Annulla risposta

Altre Storie in Zona

    Accalappiacani

    Francesco Sciannarella

    Profilo dell'Autore

    Visualizzazioni

    1.630

    Sei un Autore?

    Autore

    Unisciti al nostro Progetto!

    Registrati su Storie di Città. Potrai pubblicare e geolocalizzare le tue opere, lasciarle impresse in un luogo, farle leggere a migliaia di lettori e potrai promuovere gratuitamente i tuoi libri!

    Registrati Ora

    STORIEDICITTA.IT

    "Dedicato a tutti coloro che conoscono l'arte dello scrivere, a chi ama viaggiare, ma soprattutto a tutti quelli che hanno sete di leggere!"

    Il Team di Storiedicitta.it

    www.storiedicitta.it

    Storie di Città

    • Condizioni d’uso
    • F.A.Q.
    • Privacy Policy
    • Pubblicità
    • Contattaci

    Link interessanti

    • Bookabook
    • Eppela
    • Amazon Libri
    • Scuola Holden
    • Salute Privata
    Copyright Storie di Città - storiedicitta.it © 2019 Tutti i Diritti Riservati
    • facebook
    • twitter
    • google
    Copy Protected by Chetan's WP-Copyprotect.

    Login

    Register |  Lost your password?