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L’estate dei fiori di loto

L’estate dei fiori di loto

Lago Superiore
46100 Mantova
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L’estate dei fiori di loto

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Il Lago Superiore, adesso, è pieno di fiori di loto.
Lo so, anche se non li vedo perché sono nascosti, verso ovest.
Formano una distesa vastissima e fitta di foglie che si dilata e ricopre l’acqua.
Non era così quarant’anni fa: allora erano una macchia più contenuta, perché tutti salivano in barca e se ne uscivano a remi dalla darsena della Società Canottieri tornando un’ora dopo con le ragazze che avevano le braccia cariche di nuvole bianche compatte e profumate.
L’acqua del lago, adesso, è infetta.
Ed è vietata anche la raccolta dei fiori di loto che minacciavano di estinguersi.
Ma quarant’anni fa, nell’estate di Quando calienta el sol era ancora possibile portarsi via mazzi enormi di fiori di loto, senza rimorsi, senza la consapevolezza che le cose, la giovinezza, la pelle liscia, i capelli folti, tutto, tutto prima o poi è destinato a finire.
Io avevo quattordici anni.
Dal bar della Società Canottieri esalava il profumo dei toast ai carciofini mescolato alla musica del juke-box: trascorrevo lì le mie vacanze. Il posto, anche se non particolarmente elegante, era esclusivo nel senso che il custode, Lorenzo, un vecchio Caronte con la pelle rinsecchita come il cuoio e scura già nel mese di maggio, impediva a chi non era socio l’ingresso alle piscine, ai campi da tennis, alla darsena. Il che era seccante perché avrei volentieri invitato certe mie amiche più simpatiche di quelle che frequentavo alla Canottieri. Tra queste la più carina era Patrizia, piccola, mora, aggraziata ma con la mania di sfidare tutti alle gare di nuoto, e pungente come un cactus. Quella più rassicurante era Donatella perché era taciturna e aveva sempre un’aria malinconica come se non riuscisse a togliersi di dosso l’odore di salamoia del negozio di alimentari di suo padre.
Ci trovavamo alla Canottieri ogni mattina e lì trascorrevamo le giornate intere fino alla riapertura della scuola.
L’estate di quell’anno si era preannunciata con distese esagerate di papaveri e con il turbinio fitto dei piumini delle graminacee. Il sole che saliva nel mattino terso e brillante non aveva il proverbiale pallore di tutte le altre estati umide e afose: la città che di solito si offriva allo sguardo come una cartolina tuffata in una bacinella piena d’acqua e ripescata grondante e stinta, si delineava invece lucida e precisa nei suoi contorni e dalla sponda del lago si aveva l’illusione di poterla toccare. L’acqua del lago aveva perso il suo aspetto limaccioso e plumbeo, rifletteva il blu vittorioso del cielo e invitava alle nuotate. Attraversare il lago a nuoto e raggiungere la spiaggia delle Oche sulla riva opposta era in genere impresa da maschi o almeno io la pensavo tale. Non so perché, quindi, mi feci trascinare nell’avventura, io che nuotavo solo a rana e arrivavo sempre ultima, forse perché mi ero stancata di studiare l’aoristo – ero stata rimandata in greco – o forse perché leggevo nell’invito di Patrizia, Hai paura? una certa e inconfessata malizia crudele e volevo riscattarmi in qualche modo. Fatto sta che ben presto mi trovai con le altre due nel mezzo del lago. L’acqua del lago aveva e ha questo di bello, che non ci sono onde, non nel mio lago che accoglie il Mincio come in un grembo placido e sonnacchioso: nuotarvi era estremamente rilassante e anche se la trasparenza era nulla e sotto l’acqua non si vedeva altro che fango, la distesa dei fiori di loto e le sponde fitte di pioppi mi circondavano come pareti domestiche e protettive.
Mi fermavo ogni tanto a galleggiare per sentire sulla pelle la carezza scivolosa dell’acqua dolce che odorava di pantano e procedevo senza parlare per non ingurgitarla tra una bracciata e l’altra.
Quando arrivai alla spiaggia, una striscia stretta e più polverosa che altro, le mie amiche non c’erano più, erano sparite. Ero preda frequente dei loro scherzi, perciò dopo averle chiamate a gran voce, inutilmente, mi sedetti sulla sabbia ad aspettare, un po’ indispettita, un po’ rassegnata. Alle mie spalle c’era un canneto piuttosto fitto che nascondeva una serie di casotti di legno, una decina, piccoli, verniciati di verde, dove i pescatori custodivano i loro attrezzi e dove i bagnanti si cambiavano il costume.
La spiaggia delle Oche era ancora più popolare della Società Canottieri, senza pretese, senza difese. I suoi frequentatori erano soprattutto ragazzi sguaiati e ordinari, di quelli che fanno apprezzamenti pesanti per strada, di quelli che mio malgrado riuscivano a intimorirmi e disgustarmi nello stesso tempo. Quel giorno, tuttavia, la spiaggia era deserta, probabilmente se ne stavano tutti all’ombra a sonnecchiare dopo il pranzo. C’era un silenzio greve. Nei miei pensieri aleggiava l’immagine di Catherine Spaak. Qualche giorno prima l’avevo vista in un film, bionda, esile, spregiudicata, dormire al sole ferma in una specie di catalessi che mi aveva affascinato. Decisi di imitarla e mi coricai lasciando che il bagliore del sole premesse sulle palpebre chiuse. In quella vertigine rossastra forse potevo diventare come lei, pensavo. E così l’estate mi sembrò più estate che mai.
Quando la parete di canne si aprì all’improvviso, subito dopo, con un rumore secco, balzai a sedere, mi voltai e lo vidi. Era quanto di peggio mi potessi aspettare: i capelli biondi alzati in una cresta alla Elvis Presley, lo slip succinto ai limiti della decenza, la magrezza di chi pratica con agilità qualsiasi tipo di acrobazie e l’abbronzatura come quella di Lorenzo, il custode, una pelle opaca e plebea. Tutto muscoli e poca materia grigia, pensai. E decisamente più vecchio di me, forse vent’anni. Vederlo e sentire alzarsi al cielo, imprevisto e assordante, il coro delle cicale, fu tutt’uno. Il sole era diventato così caldo che le perline d’acqua sulla mia pelle interrompevano la loro discesa verso il basso per evaporare ad una ad una in rapida successione. Non dissi niente e riportai lo sguardo sul lago, immobile. Lui intanto aveva cominciato a spezzare le canne, le sfogliava, le ammucchiava sulla sabbia senza parlare, senza fischiettare.
Solo il frinire delle cicale, solo il crepitare delle canne spezzate, solo il calore dell’aria ferma che gravava sul lago.
E un torpore che catturava a tradimento. Anche senza voltarmi avvertivo che si dava tutto quel da fare continuando a guardarmi. Con la coda dell’occhio studiavo i suoi spostamenti e capivo bene che mi fissava.
E mi veniva sempre più vicino. Disegnava una specie di danza e, senza averne l’aria, faceva in modo di sfiorarmi la schiena con le gambe.
Potevo sentire l’odore pungente del suo sudore.
Volevo andarmene senza dare l’impressione di fuggire, adesso basta, mi dicevo, ma ogni istante che passava rendeva la mia sosta lì, con lui, quasi voluta, come ostinata. Non appena le cicale cessarono il loro frastuono, finì anche il cricchiare delle canne spezzate e nel silenzio la sua voce mi arrivò rauca e gutturale, vicina alle orecchie, bassa ma non gentile, un ordine secco, Vieni, e un sorriso da furbo. Aveva eretto, conficcando le canne nella sabbia, una capanna rudimentale, circolare, e mi invitava ad entrare con un inarcarsi delle sopracciglia e con un gesto inequivocabile e osceno: infilava l’indice della destra su e giù tra il pollice e l’indice della mano sinistra uniti in cerchio. Era brutto, era volgare, era poco pulito. Misi tutto il mio impegno in una smorfia tesa a fargli capire che lo disprezzavo ma fu in quel momento che sentii tra le gambe un’improvvisa contrazione di muscoli, il crescere di una frenesia che mi pervadeva il corpo e poi un languore che mi comandava di tenere le labbra semiaperte e gli occhi socchiusi: era un desiderio sconosciuto di perdermi nella canicola e di affondare. Lui mi strinse il braccio e al contatto delle sue dita sentii la mia pelle scaldarsi e un odore struggente di grano. Non c’era nulla in quel momento nella mia testa, nulla se non un giallo abbagliante e torrido, una asciuttezza levigata e arsa.
E qualcosa di umido nel corpo.
Le ore si stavano sciogliendo, io mi stavo sciogliendo. E l’avrei seguito nella sua capanna, avrei accettato di essere toccata da lui, desideravo assurdamente di essere toccata, di confondermi con quel corpo asciutto, di cedere a quella canicola che mi comandava di non pensare a nulla.
Ma ecco che sbucarono dal canneto, irreali, loro, Patrizia e Donatella, con un fior di loto tra i capelli e i piedi grigi di polvere, Sei qui?, Quando sei arrivata?, Ti abbiamo cercato… mentre il loro sguardo insistito andava soprattutto a lui che non diceva nulla ed era arretrato di scatto a due passi da me.
Mi alzai in piedi decisa a non rispondere, tenevo la testa alta per mascherare lo stordimento, esibivo una superbia che voleva ignorare tutti, ero pronta ad andarmene, finalmente, tutto dimenticato, la solarità del giallo, la cedevolezza del corpo, la sospensione delle parole non dette che avevano fluttuato a lungo lì, tra il cielo e il canneto, quasi lambite dal desiderio.
Ma in quel momento vidi.
Vidi, di un pallore luminoso e roseo, nudo e indifeso così allo scoperto, il globo opalescente del mio seno destro scivolato fuori dal costume, un piccolo rigonfio che sembrava gommapiuma con l’areola chiara del capezzolo che pareva attirare su di sé tutti i riflettori del mondo e che probabilmente se ne era stato in bella vista, ingenuo ed invitante per tutto il tempo della mia sosta sulla spiaggia, un seno che appariva ridicolo e grottesco alle mie amiche che adesso mi guardavano ridacchiando, una catastrofe per me, un segnale inequivocabile di carnalità esibita, senza complicazioni per quella specie di Elvis che avevo lusingato, illuso, provocato. Senza saperlo. Senza volerlo?
Mi rialzai in fretta la bretella del costume e mi tuffai nell’acqua, sguaiatamente, sollevando ondate di schiuma, tutta la testa sotto, nel buio, per la vergogna, per non sentirlo gridare Puttana, Puttana, per non sentire gli Aspetta! Aspetta! delle altre due e nuotai annaspando nell’acqua che mi sembrava gelida e mortifera senza quasi respirare, senza voltarmi.
Mi avrebbe raggiunto con due bracciate, se avesse voluto. E poi?
Ma non lo fece.
E non lo fecero le mie amiche.
Quando arrivai al pontile della darsena ero senza fiato. Mi stesi al sole, vicino alla panchina dove avevo lasciato la mia grammatica greca e rimasi per un po’ ad occhi chiusi. Come si fa a scomparire, come si fa a scomparire, come si fa? E la vergogna e la confusione erano tali che per un momento pensai di voler morire. E mi ricordai che proprio lì vicino, un mese prima, era caduta nel lago una bambina di tre anni, in pieno pomeriggio, sotto una luce cruda e rivelatrice, in pochi metri d’acqua.
L’avevo vista galleggiare a faccia in giù, il vestito bianco largo e aperto come una corolla di fior di loto.
Ma l’avevano salvata in tempo.
C’è ancora tempo, pensai, ero ancora in tempo per allontanarmi da quella me stessa ignota e sorprendente che non sapevo di essere. E senza aspettare le mie amiche andai a rivestirmi e tornai a casa con i capelli che gocciolavano ancora e mi bagnavano le spalle.
Ero giovane, allora.
Con altri colori negli occhi. Piena di convinzioni che il tempo ha saputo smentire, tutte, ad una ad una, tante quanti sono i fiori di loto, adesso, nel lago.

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