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La giostra

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92010 Lampedusa, Porta d'Europa
Sociale Racconti
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La giostra

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Il tratto di mare da attraversare non era vasto come l’oceano. Lo guardavo con interessata curiosità dalle rocce della riva: ondeggiava nella sua culla, barcollava come un’anziana signora che cammina, mi invitava, mi rassicurava che non mi avrebbe fatto alcun male. Era azzurro come gli occhi dei bimbi che vivono nelle terre da cui ci separa. Qui da noi i piccoli angeli hanno le pupille scure come la notte, profondo pozzo in cui si tuffa la luna. Guardarli troppo a lungo può far smarrire il cuore, sono occhi che chiedono a gran voce libertà, giustizia, amore. L’azzurro sa essere un colore angelico, ma può anche ingannare; il foglio che ho firmato per fuggire dalla mia terra era di un pallido celeste, mi ricordava la camicia di un uomo che un giorno venne a parlare, disse tante cose giuste, ci spiegò che avevamo diritto a lavoro e cibo e noi applaudivamo. Ci sembrava un eroe, una creatura circondata da un alone di luce. Ci fidavamo, ma non tornò più. Dovetti allora chiedere asilo al mare, gli domandai di essere per me e il mio piccolo angelo una via sicura, di lasciarci passare dall’altra parte. Ed egli ondeggiava come un cavallino a dondolo, di quelli che fanno felici i bambini. “Ne avrai uno tutto tuo” promettevo al mio bimbo accarezzandolo quando aveva paura. Gli avevo promesso uno di quei cavalli, e di portarlo sulla giostra, mio povero amore.

C’era tempesta quella notte, l’acqua che mi aveva sempre annuito benigna si agitava come un moribondo nel suo letto di dolore, gridava e non si voleva rassegnare a morire, trascinava tutto nel suo furore, scaraventava schiaffi sugli scogli muti. Gli spruzzi sembravano acqua benedetta, bagnavano le nostre vesti di purificazione: eravamo una folla numerosa e tremante, fiduciosa nel nostro padre adirato ma pur sempre benigno. Una barca attendeva all’approdo, un vecchio legno tutto scricchiolante, stanco di viaggi e forse anche di vittime inghiottite dalla furia delle onde. Ne aveva veduti tanti di corpi scivolare sotto metri di acqua, sedimentarsi laggiù dove c’è la calma della morte e quei volumi non si muovono più, divengono sudario, bara, il cubo di ambra che intrappola e conserva un insetto.

“Finirà presto” le mie labbra si muovevano nel tremito e nelle parole di conforto rivolte al mio bambino avvinghiato al mio petto. Quelle nenie, gli esorcismi della paura ripetuti fino allo spasimo servivano anche a lenire il mio stesso affanno. I miei occhi spalancati sul buio si sforzavano di scorgere la meta, città mastodontiche materializzarsi nella nebbia con strade circolari e auto che giravano come sulle giostre, case eleganti, tavole imbandite e fumanti, una vasca da bagno che grondava di schiuma. Tutto questo per noi, il paradiso in terra. Non abbiamo gli occhi azzurri, ma comunque diritto alla nostra porzione di cielo. E poi abiti nuovi e puliti e la neve, più immacolata delle nuvole, che ricopre ogni cosa in inverno e non avevo ancora mai veduto. Dicono che sia uno spettacolo che rischia di far scoppiare il cuore, tanto te lo senti nel petto pulsare e salire poi sempre più su fino alla gola. La neve… in tutto quel nero io vedevo un manto bianco, un mantello candido di fiocchi che non cessavano di cadere. Tutto si congelò; facevo parte di un quadro immobile, come una cartolina, una linea orizzontale parallela a quella del cielo, così come quando i bimbi piccoli disegnano i due confini dell’uomo, uno sopra e l’altro sotto: la terra, appunto, e il cielo.

Salimmo a bordo accalcandoci, spingendoci per conquistarci lo spazio. Corpi tenuti fermi dai corpi, addossati gli uni agli altri come le tessere del domino: il primo dava il movimento a tutti. La riva divenne lontana, il timore e la speranza si giocavano la partita più importante. Poi, in un improvviso gridare di donne e bambini, ci trovammo riversi nel mare. Una capra portata per allattare un neonato belava il suo non diverso terrore. Non è difficile immaginare come possa essere interminabile una notte, quanti accadimenti possa ospitare prima che rubi un po’ di chiarore all’alba. Molti affogarono, altri furono teste che affioravano, su e giù tra le onde, le membra anestetizzate dal freddo contatto con l’acqua salmastra che aveva preteso un obolo di vittime e ora ci sorreggeva, ci lasciava galleggiare, placata come un Moloch che si nutre di carne. Per uno salvato, uno inghiottito: a me aveva preferito il mio piccolo, me lo aveva rapito a violenza con le sue braccia liquide e forti, a nulla valse il mio grido strozzato. Uno per uno, è la legge. Sparì verso il basso e lo cercai annaspando finché le forze non mi vennero meno, si inabissò col legno marcio, complice di quella divinità sanguinaria che… No, non mi aveva ingannato ma non mi aveva comunicato in anticipo il prezzo.

Ora guardo le mie rive come una linea nera in lontananza. Sono dall’altra parte, su un’altra spiaggia. Niente belle città, niente cibi fumanti né vasche con l’acqua e il sapone. Solo un alloggio di fortuna offerto da un’anima caritatevole. Il dio terribile torna a guardarmi col suo sorriso, gli occhi azzurri e il rullare tranquillo, mi saluta, contento di rivedermi. Sono laddove si accumula tutto il dolore che parte in fastelli dalle rive dell’Africa, quello che non si inabissa, ma riesce ad approdare. Qui si ode la cantilena fissa delle madri non più madri, dei figli rimasti soli al mondo, si accumula l’odore dell’umanità lacerata e assiepata, sconfitta, si sgranano le nere pupille dell’Africa ingannata, ancora una volta vilipesa.

Qualcuno scappa lontano, non se ne sa più nulla, ma io non posso andare troppo distante da questo mare, la nuova casa del mio bambino a cui avevo promesso di girare in una giostra a cavalli. Ma qui non ci sono giostre e nella mia stanza, se chiudo gli occhi, vedo le pareti bucarsi, fare luogo all’abbacinante sole del deserto, luogo terribile ma amico per chi ha imparato a conoscerlo. Le piastrelle diventano impalpabile sabbia, il lavandino lascia cadere goccia a goccia l’unica acqua preziosa che santifica una terra arsa e polverosa e produce il tam tam di quel cuore pulsante. Prima è impercettibile, poi diventa assordante come il rombo di una cascata, ma non mi spaventa, è un rumore amico. Se chiudo gli occhi e penso intensamente, ecco, casa mia… sono tornata!

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  1. Gioia Francisci
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    Un argomento purtroppo all’ordine del giorno qui trattato con una sorta di deliicatezza nel quadro della tragedia rappresentata .Ho apprezzato lo stile di questa scrittura, attento a descrivere l’amaro stupore ,proprio un attimo prima dell’orrore. La morte del sogno di una vita che chiede solo di essere vissuta in dignitá e pace. Alla fine il ” ritorno a casa” è un luogo lasciato aperto al sovrapporsi di immagini della memoria.

    6 anni fa
  2. Anna Maria Funari
    Originalità

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    Stile

    Tema terribilmente attuale descritto comunque con delicatezza d’animo e di parole, come è nello stile inconfondibile dell’autrice.
    Perfino il dolore risalta in maniera dignitosa e composta.

    6 anni fa

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