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Vecchi in fuga

Vecchi in fuga

Via Emanuele Viggiani
85100 Potenza
Sociale Racconti
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Vecchi in fuga

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Sono mesi ormai che vivo in questa casa di riposo circondata solo da vecchi. Dicono che si è tutti coetanei ma io queste mummie non le sopporto, stazionano ore davanti alla tivù e piangono continuamente per la solitudine. Ho familiarizzato con Clara. Un giorno si è avvicinata e mi ha chiesto a bruciapelo “chi ti ha fatto questo?” Lei, una cara dolce vecchina di 81 anni, ha due figli grassocci che vengono a trovarla un mese sì e un mese no e quando vengono scappano via dopo dieci minuti. Per difendersi dalla mancanza di una casa sua e soprattutto dalla perdita della libertà mi ha corteggiata per avere la mia amicizia. Non so perché abbia scelto proprio me fra tanti, il mio malumore e la mia irrequietezza devono forse averla convinta che anch’io stavo organizzando qualcosa. Da quando ho capito che il tempo mi era nemico e che la mia idea di progettualità si stava esaurendo ho smesso di lottare per cose che non mi sarebbero state di alcun aiuto ed ho deciso di tirar fuori dalla naftalina la mia guerriera errante. Ho pensato infatti che, se ormai dovrò stare qui fin che campo e ne uscirò solo sdraiata in una cassa di mogano, cercherò ogni tanto una via d’uscita per non far finire prima e male il mio tempo di permanenza su questa mal frequentata terra. Piena di questi pensieri aggrovigliati mi siedo sotto il fico. “Dove si va?” mi chiede Clara.
“Per adesso mi godo il fresco con in mano un bicchiere di whisky sotto questa luna canaglia”. Ride e mi mostra il vuoto fra i suoi denti. Rimaniamo lì a spettegolare. Mi guardo intorno, le persiane sono chiuse nelle stanze degli infermieri ma so che c’è sempre un occhio che ci osserva. Ho studiato e annotato ogni piccolo particolare. Il pranzo è servito sempre alla stessa ora ma so anche che mentre siamo nella stanza di fisioterapia a farci massaggiare muscoli che non ci sono più (ma come è bello farsi toccare dai quei maschiacci), ci sono tante persone dall’esterno che entrano per portare cibo, creando un po’ di confusione. Quello che vogliamo fare e quello che effettivamente riusciremo a fare sono due cose diverse, ma ci proveremo. Cosa abbiamo da perdere? Quando si è con le spalle al muro si diventa depressi o pericolosi e non sia mai detto che io mi avvilisca. Voglio agire.
“Vedi Clara per portare a compimento il nostro piano abbiamo bisogno di complici, di qualcuno che sappia tenere la bocca chiusa e all’occorrenza agevolarci nella fuga”
“Sì certo ma la vedo dura, fra questi dinamici ragazzi chi possiede queste caratteristiche, secondo te?”
“Dovremo fare una specie di test e lo faremo domani sera durante la festa di benvenuto del nuovo vecchietto”. L’aiuto ad alzarsi e ci avviamo incerte sulle nostre stanche gambette verso le meravigliose stanze monacali che ci hanno assegnato appena intrappolate qui. Siamo le Thelma e Louise della terza età e tutto questo quanto ci diverte! Non ho mai pensato di stare commettendo uno sbaglio, le incertezze le lascio ai pavidi. Poi si vedrà.
“E’ una decisione saggia” mi dice lasciandomi il braccio e richiudendosi la porta alle spalle. Di dormire non se ne parla, con grande fatica mi preparo per il nuovo giorno, chissà se questa sera riuscirò a scovare qualcuno da arruolare nel nostro esercito di fuggitivi. Io e Clara ci siamo divise i tavoli, quelli a destra i miei a sinistra tutti suoi. La domanda dovrà essere secca per testare, al momento, solo le capacità mentali del candidato, verranno scartati tutti quelli con lo sguardo vacuo di un pesce in un acquario.
“Ehi! Che eleganza in giro stasera!”
“Se le maniche di camicie arrotolate e il filo di perle in pura plastica ti piacciono sono d’accordo con te.”
“Su non essere così cinica anche noi non brilliamo esattamente per stile. Sei pronta?” mi chiede ma la sento in ansia.
“Rilassati altrimenti il nostro piano sarà scoperto, tutto il personale sarà nella sala d’accoglienza e ci saranno tanti occhi a controllarci.”
“Non me lo ripetere il solo pensarci mi fa stare male.”
“Ci divertiremo, ne sono sicura. Ehi, guarda guarda il nostro nuovo amico…”
“Ma di chi parli, non vedi quanto è imbranato? Non riesce a versare l’acqua nel bicchiere senza rovesciarla!”
“Che ne dici della signora di spalle, quella con i fianchi un tantino esuberanti?”
Clara scuote la testa e un devastante tremolio si diffonde sul suo viso.
“Direi di incominciare a parlare con qualcuno di loro in modo da procedere per esclusione. Vado.” Mi aggiro furtiva fra i tavoli apparecchiati con tovaglie di carta, pizzette secche e fiumi di gassosa del discount a 0,99 centesimi in bella mostra.
“Ciao, ti diverti?” chiedo al primo vecchino sulla destra.
“Quando mangiamo?” chiede preoccupato grattandosi il sedere. Scartato.
“Ci facciamo una rossa?” propongo ad un altro che fraintendendo si aggiusta la cravatta e ravviva i capelli invisibili.
“Sono stufa di tutte queste vecchie carcasse, hanno proprio ragione a volerci rottomare!” sbotto, livida. Che triste e mal assortita comunità!
Dopo quella disastrosa serata tutti i vecchi non autosufficienti vennero riportati nelle loro stanze e quelli fra noi che invece potevano farlo da soli si alzarono per cercare un posticino nascosto per farsi una sigaretta.
“Già questo dovrebbe valere come selezione naturale, dobbiamo restringere il campo fra quelli che almeno camminano da soli.”
“…e fra quelli che non hanno difetti di ricezione, mi è capitato uno a cui ho chiesto di ballare e mi ha risposto che erano le 20, 30.”
“Uhm! Che disastro…”
Spente le luci nelle camere comincia il lavoro di valutazione. “Hai notato come gli occhi degli uomini erano tutti ad altezza glutei? Bastava che una di noi alzasse il suo culo dalla sedia per guadagnarsi gli occhi saettanti dei maschi presenti immediatamente calamitati sulle natiche!”
“E’ sempre tutto uguale” sospira rassegnata.
“Hai invece fatto caso a Mario? Uomo gentile con la giusta conservata agilità e un gran senso dell’umorismo capace di bloccare chiunque per ore in una conversazione tanto da consentirci di uscire e tornare senza pericolo.”
“Già e poi quando va in fissa con Camillo Benso conte di Cavour e inforca gli occhialini tondi, anche gli infermieri si siedono ad ascoltare i suoi discorsi in torinese per quanto sono spassosi.”
“Andiamo a parlarci?” Ci solleviamo dal divano e ci spostiamo nell’ala maschile della casa di riposo “Bell’età”. Attraversiamo un corridoio spoglio con due sedie di ferro appoggiate alle pareti, alcune piante grasse e uno stitico tronchetto della felicità in bella vista (che cosa avrà mai da essere felice poi…).
“Ecco questa dovrebbe essere la stanza di Mario, che facciamo bussiamo?”
“E no torniamo indietro…certo che bussiamo e anche in fretta, dobbiamo toglierci di qui potrebbero vederci.”
“E’ permesso?”
“Chi è?” sentiamo chiederci dall’altro lato della porta. Mario viene ad aprire e rimane stupito nel vederci. “Entrate pure, le mie compagne di sventura preferite. Cosa posso offrirvi, una limonata?” Sedotta da tale audace offerta, accetto con entusiasmo. Tocca l’interruttore e la luce mette in evidenza una stanza enorme con faretti al neon accecanti, un ventilatore al soffitto tanto veloce da spettinarci.
“Ehi, lo sai che alla nostra età ogni spiffero diventa il vento del nord? Vuoi farci ammalare?” Ride così forte che gli salgono le lacrime agli occhi. “Ci avrei scommesso che eravate due sagome… sono sicuro che qualunque sia il motivo che vi ha portato qui da me mi piacerà molto. Ditemi tutto, allora.”
“Metti sempre quelle bretelle gialle?” chiesi e dalla sua risposta capii che era il tipo che faceva al caso nostro.
“Gialle dici? A me le hanno vendute come marroni con una lieve sfumatura terra.”
“Sì una terra ricoperta di margherite.”
Si soffiò il naso rumorosamente in un kleenex stropicciato e la risata di Clara ci avvolse in una coppa di bollicine virtuali. Mezz’ora più tardi eravamo fuori. Dopo aver ascoltato tutte le possibili difficoltà che avremmo potuto incontrare, il nostro piano aveva iniziato a prendere forma. C’erano però ancora molti dettagli da valutare.
“Di sicuro non potremo uscire tutti e tre insieme, chi rimarrà dentro dovrà coprire la fuga di chi è fuori in tutti i modi, anche fingendo un infarto!”
“Quello che mi chiedo è se saremo davvero in grado di farlo.”
Passarono due settimane durante le quali sia io che Clara risentimmo di una certa agitazione. Sempre sotto il fico mi lasciai andare a delle confidenze per me inusuali. Ma anch’io ho un cuore. “Tua figlia perché non viene a trovarti?” affonda Clara
“E’ un periodo glaciale fra di noi, non che sia sempre stata primavera ma almeno mi sono sentita sempre in grado di scegliere da sola fino a quando ha deciso che ero diventata troppo vecchia e rincoglionita per poter stare nella mia casa, tra i miei ricordi e le nuove possibilità.”
“Dura eh!”
“Già, non gliela perdono, mi sento tradita anche perché le ho insegnato a comunicare e non a prevaricare. A quanto pare ho fallito.”


“Ma cosa fa nella vita?”
“Sta cercando di rimettere insieme i pezzi dopo il fallimento del suo matrimonio e lo fa nel peggior modo possibile, il primo uomo che l’ha fatta sentire desiderata è diventato l’oggetto intorno a cui costruisce la sua vita.”
“Chi è costui?”
“Non lo so, non ho voluto incontrarlo so solo che fa l’avvocato, lei vorrebbe sposarlo ma è un gran chiacchierone, nessun impegno da rispettare, solo piacere.”
“Chiamalo stupido, perché comprare una mucca se hai il latte gratis tutti i giorni?”
“Che cinismo ma mi sa che hai proprio ragione! E’ una mendicante d’amore che ha scelto un mandrillo. Bell’accoppiata! A volte mi chiedo se sono stata una madre così terribile che qualunque surrogato d’amore per lei è preferibile alla mia pur se rozza amorevolezza. Mah! E tu perché vuoi evadere?”
“I mie figli li hai visti non brillano certo per intelligenza e sono così vacui che il solo pensarci mi provoca un travaso di bile, sono venuti su come due budini mollicci. Tutto il loro padre, per la miseria! Il punto è che hanno incontrato sulla loro inutile strada due donne che risaltano invece per furbizia. La prima mossa è stata quella di rinchiudermi in questo ospizio ma so che hanno in mente di farmi fuori dall’eredità senza aspettare che crepi”
“Un bel guaio, direi.”
“Già, per questo ho in mente prima di tutto di liberarmi da questa prigionia e poi non so, qualcosa farò.”
“Ma quand’è che i nostri figli si sono trasformati da amabili tesorucci con le bambole al seguito e l’album delle figurine da completare in adulti nevrotici e anche un po’ stronzi? Sai Clara, la vecchiaia è proprio una schifezza, se penso a me sento di avere ancora i desideri e le curiosità dei vent’anni ma poi mi guardo allo specchio ogni mattina e vedo solo una vecchia che somiglia ad un’albicocca disidratata uguale a quelle fettine in bustina che si vendono al supermercato, hai presente? Dolcissime ma grinzose.”
“Ti capisco, io mi sento sempre fuori posto come una papera senz’acqua.” Ridiamo fino a soffocarci.
“Hai paura”?
“Di che, della signora falce”? Un po’ ma non voglio pensarci, siamo qui dimenticati da tutti e forse questa è solo la prova generale per il grande giorno, per il punto di non ritorno” aggiungo malinconica. Alcune lacrime si affollano agli angoli degli occhi ma è tutto qui. Segue un silenzio nel corso del quale ognuna di noi esamina varie opzioni per la fuga. Qualche sera più tardi si presenta finalmente la mia occasione. Siamo seduti tutti ipnotizzati davanti alla tivù dopo la cena-merenda delle diciotto e trenta quando all’improvviso si sente un forte rumore di vetri infranti
“Che sta succedendo?” grida l’infermiere verso il collega nell’altra stanza. Non ricevendo risposta corre di là per cercare di capire cosa sta accadendo.
“Vieni qui che ti spacco la faccia!”
“Se solo fossi un po’ più giovane ti farei ingoiare tutti i denti! Chiedi scusa alla signora piuttosto, verme che non sei altro!” urlano due voci maschili.
“E’ il momento” dicono all’unisono Mario e Clara “forza approfitta della confusione e scappa via, non preoccuparti di nulla, per un po’ saranno tutti impegnati ad appianare la questione”.
“Grazie, a buon rendere” e scendo nel parcheggio. Me ne sto tutta raggomitolata o per meglio dire appiattita sul fondo del furgone, in silenzio. Dopo un po’ partiamo, nascosta fra i panini destinati a diventare altro. Guardo il lungo viale alberato che dalla clinica porta al panificio; un viale con alberi asfittici resi tali dai gas di scarico delle numerose automobili che percorrono quella arteria per andare altrove. Ho deciso che quando sarò abbastanza lontana dalla casa di riposo approfitterò di una sosta dell’autista per scappare alla fermata dell’autobus più vicina. Intanto che aspetto il momento spio fuori dal finestrino sporco del furgone e assaporo di nuovo la vita che, seppur carica di fazzoletti usati, cacche di cane, cicche e sputi è sempre vita. Ho la mia età e nonostante io abbia visto tante cose, un tramonto riesce ancora ad emozionarmi. Comincia a far caldo qui dentro e le mie povere ginocchia iniziano a perdere colpi, sarà un problema correre via… no, non puoi cominciare a fumare proprio adesso! E se mi venisse da tossire? Mi sa che dovrò scendere alla prossima. Il cuore è tachicardico e le mani mi sudano per la paura ma è il momento. Apro il portellone del furgone e zoppico via. Sono proprio vicino alla stazione dei treni, mi inoltro fra viaggiatori distratti e ansiosi. Non ho ancora completato il piano della mia fuga perciò mi siedo al tavolo di un bar, chiedo una cioccolata calda e, al diavolo la glicemia. Voglio tornare nella mia casa, prendere possesso delle mie stanze, dei miei mobili, fermarmi negli angoli che solo io conosco, a cui solo io so dare un significato. Troverò la vestaglia esattamente dove l’ho lasciata e la indosserò così come facevo ogni volta che rientravo dal lavoro. E se fosse tutto cambiato? Se mia figlia avesse sconvolto il mio mondo più di quanto possa immaginare? Devo far presto altrimenti si accorgeranno della mia assenza nonostante i fantasiosi tentativi che i miei complici metteranno in scena per distrarre il personale. Un taxi mi agevola nell’impresa, appena entrata in casa mi tolgo i vestiti e lancio le scarpe in un angolo. Mi faccio un bagno caldo, e dopo tutte quelle docce è proprio una goduria! Apro le imposte e piccole particelle di polvere cominciano a danzarmi intorno. La coperta patchwork che ho fatto quando Stuart mi ha lasciata per sempre, è ancora lì sul letto esattamente come l’ho messa io. Sprimaccio i cuscini, mi ci appoggio e in un attimo mi raggiunge il profumo di lavanda e il ricordo degli infuocati pomeriggi passati con mio marito a rotolarci fra le lenzuola. Fino a quando non lo abbiamo fatto più. Sul comodino la sveglia è ferma a sottolineare sadica, il mio tempo scaduto. Non mi rassegno all’idea. Non credo esista un momento preciso in cui la vita di una persona perda importanza come se fossimo solo macchine che portati a termine i compiti assegnati, riprodursi e lavorare, non possano aspirare a null’altro. Prendo lo sgabello e incerta ci salgo su spingendomi verso lo sciacquone del bagno. Tiro fuori una busta fradicia che protegge però un manoscritto. L’ho visto fare in un film e mi è parsa un’idea fantastica. Chi mai avrebbe potuto cercare proprio in quel posto mi era chiesta, solo un ladro esperto che avrebbe avuto la sua bella delusione a trovarci solo fogli scritti da una vecchia pazza! Mi rivesto, metto i collant cercando di non romperli, mi allontano dallo specchio per guardare la mia figura intera. Facevo sempre così da giovane prima di uscire, controllavo i miei capelli neri, gli occhi azzurri delicatamente truccati e la bocca quella sì, rossa come una ciliegia ma adesso vedo il riflesso sbiadito di una donna che non esiste più.
“Il sipario sta per calare, cara Perla” dico ad alta voce per ricordarmi che sono vecchia.
Mi do una pettinata a quella nuvola gonfia e grigia che ha preso il posto dei miei capelli, mi avvicino alla porta, giro la chiave e in un attimo sono fuori.
“Meno male che sei tornata, non sapevo più cosa inventarmi” mi sussurra Clara mentre mi apre la porta del pensionato.
“Te ne sono infinitamente grata.”
“Sei riuscita nello scopo?”
“Tutto bene, la prossima volta sarà tutta tua.” Mi nascondo nella mia poltrona con il manoscritto in grembo e lo stringo come si fa con un oggetto prezioso. Mi addormento. Sogno l’infermiera che mi rincorre intorno ad un tavolo con i suoi morbidi seni che ballano nel camice abbottonato e il mio manoscritto in mano. Freud si sarebbe divertito ad interpretarlo, immagini nascoste fra un’animazione surreale. Mi sveglio carica di energia. Dopo la colazione ci trasferiscono in uno stanzone, ci danno in mano delle matite colorate, dei fogli e la consegna di stare buoni a disegnare. Praticamente di non rompere i coglioni! Ma è proprio il momento che stavo aspettando, senza gli occhi addosso degli infermieri posso trasformare il manoscritto. Comincio a tagliare quei fogli e li trasformo in improbabili pezzi di puzzle. Li coloro e lascio che si confondano in un ammasso di carta. Ora sì che sono contenta, quelle parole moriranno con me.
“Che stai facendo?” chiede Mario arrivandomi alle spalle.
“Non ti ho ancora ringraziato per ieri sera, Clara mi ha raccontato quello che sei riuscito ad inventarti per nascondere la mia fuga.”
Mi strizza l’occhio e aggiunge “Vorrà dire che sei in debito con me e come farai a ripagarmi lo deciderò io”. Mi ha fregata ma sono contenta, Mario mi è proprio simpatico e mi piacerebbe conoscerlo meglio.
Indago. “Sei vedovo?”
“Sì da tanto tempo ma mi sono sentito ancora sposato in tutti questi anni. I miei amici hanno cercato di farmi conoscere altre donne ma ho sempre rifiutato, mi sembrava inopportuno. Poi sono finito in questo posto e qualcosa è cambiato, è come se avessi finalmente preso coscienza che stava tutto volgendo al termine ed ho incominciato a giocare. Per questo ho accettato con piacere la vostra folle idea e così farò con tutte le altre che mi proporrete.”
“Bè, per quel che mi riguarda io mi fermo qui ma sono a vostra completa disposizione, ditemi quando ed io ci sarò.”
“Non credo che ne approfitterò, la vita là fuori non mi entusiasma per niente, non c’è nulla che mi faccia battere il cuore per cui valga la pena correre il rischio. Ma non mi hai raccontato nulla del tuo viaggio nel tempo, ti è piaciuto?”
“Moltissimo, sono tornata nella mia casa, ho visto le mie cose delle quali stranamente mia figlia non si è ancora liberata, ed ho recuperato tutta questa carta che, nelle mani sbagliate, avrebbe potuto creare non pochi problemi.”
“Ehi, ho come l’impressione che tu non stai parlando di una storia clandestina ma di qualcosa di più…”
Tentenno ma poi chiedo “Sai tenere un segreto? Ho voglia di raccontarlo a qualcuno finalmente!”
“Diamine sono già con un piede nella fossa e un po’ rincoglionito chi mai potrebbe credere alle mie farneticazioni se anche decidessi di rivelarle?” Ci togliamo da lì e con la voce che trema comincio a raccontare. “Sono stata sposata con un uomo meraviglioso che ad certo punto ha incominciato a comportarsi in modo strano. Era distratto, molto aggressivo, dimenticava i nomi degli oggetti, lasciava la porta di casa aperta, non ricordava come si chiamavano i suoi nonni o a cosa servisse una chiave. All’inizio non sapevo e non potevo neanche immaginare ma poi ho incominciato a farmi delle domande fino a che un medico gli ha diagnosticato una demenza. Mi è caduto il mondo addosso. E’ cominciato l’inferno e non sto qui a tediarti con la descrizione della perdita di ciò che era, sappi solo che ad un certo punto sono impazzita. Sì proprio impazzita, è così che mi posso spiegare ciò che è accaduto poi. Una mattina, dopo un’altra delle notti insonni passate a tentare di bloccare la sua aggressività, sfugge al mio controllo, riesce ad arrivare alla finestra e ad aprirla. Ho ancora negli occhi l’immagine di lui in pigiama, con i capelli scarmigliati e gli occhi di un pazzo. Capisco che la sua idea è quella di evadere da quella casa-prigione e sento tutto il suo dolore per la perdita di ciò che lo definiva come persona. Mi avvicino tendendogli la mano, l’afferra ma in quel gesto riconosco la sua volontà di trascinarmi nella malattia. Non so cosa sia successo, invece di tirarlo a me lo spingo. Cade. Muore.
“Dici davvero?” chiede Mario con la bocca secca.
“Proprio così…” rispondo. “Mi è preso il panico ma ho sentito anche sollievo, finalmente ero libera. Ho chiamato mia figlia e le ho raccontato che il padre era riuscito a sfuggirmi ed era caduto dalla finestra. Tutto chiaro, tutto comprensibile. Quando sono tornata in me ho realizzato ciò che avevo fatto e ho incominciato a imprimere sulle pagine il ricordo del delitto commesso. Capisci bene che dovevo distruggere ogni traccia.”
“Ti chiedo però perché lo hai raccontato a me, distrutte le prove avresti potuto portare il tuo segreto nella tomba!”
“Credo che da questo momento in poi ogni volta che ti guarderò mi tornerà in mente la mia colpa.” … ecco, ancora una volta ci sono riuscita.
“Scherzavo, ma davvero avevi creduto alla mia storia?”
“Ma perché era tutto inventato? Ma cosa ti è saltato in mente, mi hai fatto prendere un colpo e alla mia età non è così difficile, lo sai.”
“E’ stato troppo divertente vedere la tua faccia cambiare di espressione man mano che procedevo nel racconto. Scusami, è stato più forte di me. Era solo la trama del mio romanzo, quello che ho recuperato ieri sera.”
“Il tuo umorismo è un tantino macabro ma mi eccita. Che ne diresti però di raccontarmi la tua vera storia adesso?”
“Vieni, beviamo un bicchiere.”
Mi bacia e comincio a sudare. Dio che bel viaggio è la vita!

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