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La città del piccione prepotente
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La città del piccione prepotente

Reggio Emilia
Poesie Poesie
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La città del piccione prepotente

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E la piazzetta odora presto di mio,
come i pensieri che hanno già quell’accento di lì,
ma il panino – a chilometri da casa –
si mastica gommoso:
quand’ero gagnu e mi dicevano
anche maraja da lontano
(o figlio del lattaio, ma mi imbronciavo),
allora erano gialli i campi di nonno.
Si piegavano, si arricciavano, si pettinavano,
erano tinti di spighe, meno fitte di quelle
di oggi ma più schierate, più disciplinate.
 
Tutt’attorno si accaniva la falce,
il corridoio appuntito preparava
alla morte di tutto il grano.
Il mostro occupava tutta la stradina, e per fortuna
là in fondo non svettava ancora il
campanile della chiesa nuova,
che sennò l’avrebbe schiacciato con le spalle.
C’erano invece le ferite marroncine della collina
e i massi che scoppiavano con fragore
nella cava fumante.
 
Il mostro con le zanne di ferro
si mangiava pure quel rumore,
sbuffava più nero dei forni,
entrava nel campo e ingoiava famelico.
La noia più cupa aspettare che ogni pezzo
fosse tosato e il mostro vomitasse finalmente
montagne di chicchi sul tamagnun:
e lì dentro sguazzare come in un cielo
giallo, puntinato, uniforme, sognare.
Piedini come i miei di bimbo già strano
(poi grande non sorridente)
a sparire nel vortice di chicchi,
ma uno almeno bisognava guardarlo,
poi studiarlo anche con la bocca.
 
Le smorfie le ho scordate, so del grano
che diventava cicles sulla lingua,
tipo un panino di due giorni
subìto in un giardino di condominii
non troppo belli, forse cresciuti
per essere amati dai bambini.
Becchettano i piccioni a
girotondo della panchina, il loro
puzzo si mescola al mio sudore.
Osservano da sotto la maschera piumosa
se mi scivola qualche briciola.
Ma io ho smesso di azzannare,
un senso per volta si vuole stupire,
la vista adesso vuole essere in ferie,
un piccione più corazzato arruffa il collo
contro il compare mingherlino
che zampetta intimorito di traverso.
 
Addolora sapere che son stati inventati
i prepotenti anche fra i piccioni, impettiti,
generali, comandoni, e fan saltare solo a
udire il loro verso minaccioso.
Cosa vuole poi oltre al potere?
Una femmina che sia sua? E il possesso
ci accomuna spaventosamente…
 
Se esco dal mio mucchio di grano,
che ho in camera e ovunque,
sono un ex figlio di lattaio
che s’intimorisce ad ogni battito
di ali più gagliardo di altri.
Forse per questo motivo son scappato
da quella città, che mi incantava
come le donne bruttine e maliziose,
dove ritroverò l’ombra del mio olezzo sudaticcio,
ma non ci vivrò né pedalerò né gusterò
la piadina con la nebbia lattosa.

 

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