Storie di Città

Racconti e Poesie originali e geolocalizzati

  • Home
  • Pubblica e Geolocalizza le tue Opere
    • Regolamento
    • Invia la tua Opera
  • Accedi
  • Registrati
Menu
  • Home
  • Pubblica e Geolocalizza le tue Opere
    • Regolamento
    • Invia la tua Opera
  • Accedi
  • Registrati
  • Sfoglia Categorie
      • 683Poesie
      • 393Racconti
  • Chi siamo
  • Blog
  • Contattaci
Visione

Visione

Largo Cairoli
20121 Milano
Poesie Poesie
0 Reviews
Condividi

Condividi:

Condividi:

  • Fai clic per condividere su Facebook (Si apre in una nuova finestra)
  • Fai clic qui per condividere su LinkedIn (Si apre in una nuova finestra)
  • Fai clic qui per condividere su Twitter (Si apre in una nuova finestra)
  • Fai clic per condividere su WhatsApp (Si apre in una nuova finestra)
  • Fai clic per inviare un link a un amico via e-mail (Si apre in una nuova finestra)
Write a Review

Visione

visita su Google street view  

“In cuore uman tristezza ha sua dimora.
E’ ciò sì veramente, o tu che m’odi,
ch’a ben udire tutto s’accalora
 
in te tanto che poco ardire t’audi
rettificar quest’intima evidenza
com’i’ farei se tu ‘l mio scritto lodi.
 
Di lacrimar non ci necesse scienza:
è scritto dentr’a noi come la spiga
s’inscrive dentro ad ogni sua semenza.
 
potrai negar che si disliga
materia e forma o vita ed energia,
soffrir e dell’uman destin la riga…”
 
Così m’almanaccava in su la via
per qual è scevro il tempo con lo spazio
e culla ogni pensier e fantasia.
 
Mentr’io rimuginava tanto strazio,
volava a la memoria de la madre
che di tal convinzion fe’ demostratio.
 
La Morte, ‘l Mal, de’ vizi l’empio Padre,
e l’Ingiustizia, cagna de la storia,
saran di vita e speme sempre ladre?
 
Tanto tenèbra oscura in questa Moria
tenea l’anima mia tutta confusa
ch’ i’ cieco era di tale vanagloria
 
e seguitava a dire alla rinfusa
lamenti e guai, copioso lacrimando,
intento a far di me l’aria diffusa.
 
In tale stato stavo proprio quando
da ogni lavorar e correr pazzo
col sol che muore ognuno sta cessando
 
e spento il ciel si corica ogne lazzo
perché di riposar il tempo è breve
e poco è che ciascun torni paonazzo.
 
Io m’ea, dicevo, tanto mesto e greve,
reclino con la mano su la fronte,
come fa pensator con gesto lieve,
 
riposto al domicilio a me spettante
con occhi chiusi, stracco e silenzioso,
di solita canaglia insofferente;
 
quand’ecco farsi tutto luminoso
e chiaro molto l’aere nella sala
come mattin di luce dovizioso.
 
A tal baglior al guardo feci ala;
in quei secondi parvemi tal lume
calar in me fugando l’idea mala.
 
Come da notte il cielo si displume
quando l’aurora manda il primo raggio
e di consolazion è tutt’un fiume
 
al navigante sperso quel paesaggio,
sì la mia mente in tal brillar s’infisse,
sì mi raccolse il cuor cotal miraggio.
 
La luce intorno a me parea facesse
le cose quotidiane tutte nuove,
così che d’essa tutto risplendesse;
 
similemente in me dolce e soave
sentiva quella farsi maggio e maggio,
guarendo e trasformando ogni mia trave.
 
Qual’è di gioia illuminante raggio
che brilla in una puerpera, del parto
non altro che il patir fatto più saggio,
 
tal’era trasformato in quel comparto
d’gni dolor lo scheletro in sorriso
che non restasse tristo un solo arto.
 
Lettor, tu sei senz’altro dell’avviso
ch’io spieghi tosto il cur, la ratio, il quia
di quanto di narrar voglia m’ha priso,
 
ma priegoti che tua bontà mi fia
rivolta nel veder così commosso
a tanto rimembrar com’io mi sia.
 
Or se di tal bontade sei promosso
dirotti lieto e senza avere indugio
il Lum’ a sorger dove era ridosso:
 
e ti dirò che forte oppur adagio
giammai stupire alcun potè sorpresa
più di tal fonte, linda d’alcun plagio.
 
Perchè al mio dir ti sia miglior discesa
letizia avrò di dire un’altra fiata
ciò che di dir la bocca mia fu accesa
 
allor che vidi quell’immacolata
sorgente zampillante fuoco e brace
d’amor, da tutto il mal purificata.
 
O Grazia, o sommo Ben, o vera Luce
quel che colà io dissi ancor m’accendi
come dinnanzi a lei mi fosti duce:
 
“Di Paradiso, donna, tutta splendi
e di beltà, d’amor, di gioia e riso
adorna sei e luce ovunque spandi.
 
D’ogne disio è culmine il tuo viso
e sol empirsi vuol il guardo e ‘l cuore
chi semel in tua grazia il guardo ha fiso.
 
Tristizia, finitudine e dolore
purificati son in tua Presenza
com’è per la lisciva d’un tintore.
 
Di tanto consolar tieni potenza
per la Virtù ch’assai si manifesta
in te, riflessa d’ogni Sua evidenza.”
 
Quelli occhi smeraldini allor con lesta
e pia esultanza tosto inteneriro
ed io tal viso tutto ho nella testa
 
sì disiava mai ch’essi finiro
di tanto vero e ben farmi beato:
eterni in me quei lumi ormai io miro.
 
Silenzio ci ravvolse d’ogne lato
e quanto fu che tali rimanemmo
dir non saprei: fu quanto a noi fu dato.
 
Di tanto mio adorare giunto a sommo
non so qual voce ma ben so qual fiamma
si mosse in me come d’incenso fummo
 
ed io ch’omai d’amor ogni diaframma
avea disciolto e l’incredulitate
gridai  con quanto fiato avevo: “Mamma!”.
 
Tu m’hai capito orben in veritate
e ben comprender puoi mio gran stupore,
che torna ch’io vi torni tutte fiate.
 
Come potea materia ritornare
per quella galleria che tutti prende?
Come poteva il Ciel manifestare
 
sua Gloria qui per le deserte lande
di nostra terra e sua finitudo?
Come potea Colei io rimirare?
 
E mentre al buon pensier facea scudo
lo dubbio, intanto dentro fiso in petto
lo ver di suo mantello era già nudo
 
perché l’amor precede ogni intelletto
e ‘l ragionar s’aggiusta a poco a poco
a quanto il cuor già vede tutto netto.
 
Il mio narrar potrei qui render fioco
e molto pur vergar mei foschi versi,
che colmo mi sarei di nuovo foco,
 
se sol narrassi di quei raggi tersi
in me così fecondi di virtute,
ma l’altri doni non vorrei dispersi.
 
Così vi priego o santi che m’aiute
perchè la Luce che vi fa sì cari
non lasci mie parole d’altro mute.
 
Cotal regina de’ beati lari
a sommo consolar de’ sensi miei
d’udir mi diede verbi suoi preclari
 
ed io li accolsi sì come potei,
sorrisi unendo a consolato pianto
null’altro amando che non fosse Lei.
 
“Matteo, sua voce all’aria fece vanto,
figliol ch’ il Cielo diede a me per terzo,
l’Altissimo su voi stende suo manto
 
e sua misericordia vuol che squarzo
avvenga nel nebbion ch’avvolge il mondo
e di suo inganno far meno che scherzo:
 
ed eccomi a te qualche secondo
perché con me quel tempo tu rimani
che Grazia vuol, così che tu sia mondo
 
d’ogne disperazion e che risani
il giusto dal velen oggi diffuso
che tutto nero rende ogni domani”.
 
Così parlava Lei ed io in suso
tenea lo sguardo come cucciolino
a sua diletta bimba volge il muso.
 
Dell’altro disse ancor e l’ capo chino
a sua benignità che dir mi volle
ma di ridir è ben che io declino.
 
A tal corrente reso tutto molle,
qual di robinia ram’ entro Ticino
da ripa dipartito a l’acqua folle,
 
null’altra cura m’era più vicino
che quella di fermar la tessitura
per qual filan le Parche loro lino.
 
Movendo Lei la gota tutta pura,
a me beato “Guarda!” sussurrando,
e viso e mano pose a segnatura;
 
compiva in ciel suo corso l’astro grando,
Lei m’indicava, e quindi di partire
d’udir sembrò che stessemi esortando.
 
“O figlio a te non fia tanto sentire,
che forte t’arde in cuor come m’è chiaro,
com’a reostàto che non può salire
 
ma tal zavorra scoti a tanto raro
onor che il Ciel ti serba e ch’io t’annuncio:
a contemplar lo Ver ti sarò faro.
 
Respinto tu vedrai lo buio sconcio
di questa terra: a come essere deve
quanto dirotti ti sarà di puncio.”
 
Mentre l’alta favella come neve
ne l’anima contenta si posava
la mente, che di tema sempre è greve,
 
di molto dimandar mi s’affolava
sì ch’io di prender voce allor m’offersi
cessando d’esser quello ch’ascoltava:
 
“O madre mia beata, ben t’apersi
ogni mia possa ed ogne intendimento
eppur i prieghi miei, che tu soffersi
 
quando piccin qualsiasi turbamento
in te pace trovava e forte ausilio,
ancor di porti con ardire tento.
 
Sicchè, dispiega al tuo diletto filio
se, com’ intende, a lui sarai di guida,
quanto pel Sommo che patì l’esilio
 
quel Vate fu, cantor d’umana sfida
tra la pietà e de’ falsi dei ‘l capriccio,
perché cotal viaggiar dentro mi grida”.
 
M’avvidi allor di quanto fosse avaccio
e quanto sconfinato il Suo vedere
che già del dimandar era meticcio.
 
Di novo riso allor fe’ prevalere
ogne mio senso ancor e a tanta stilla
com’a rugiada foglia il cor parere.
 
“Tu che d’amore accendi ogni favilla,
Alta Ragion di tutto l’universo,
la Gloria tua nel mondo si distilla.”
 
così movendo al Cielo il viso terso
Colei con calda voce e pura nota
risposemi e in lei mi feci perso.
 
“Or degnati mostrar in questa vota
landa qual tua Giustizia vuol e scienza
al mio figliuolo dà che si riscota
 
di confusione ed ogn’intemperanza:
costui, se al guardo tuo trovassi grazia,
che colmeresti so di tua fragranza”.
 
Così diceva al Pien d’ogni delizia
e le sue mani giunse e chiuse li occhi
mentr’io nell’imitar trovai letizia.
 
Allor di sé splendor ci fe’ trabocchi
e vidi un punto in cui si radunava
com’ artigian che creta sua rabbocchi;
 
intanto gran paura mi pigliava
e fu la Madre ancor a prevedere
e presami la man mi confortava.
 
Ero oramai in procinto di cadere
perché sentivo d’essere perduto
e pur conforto dava quel tenere.
 
Per quella man mi feci risoluto
e, pur se quella forma m’abbagliava,
si pò che d’essa nulla sia taciuto.
 
Quando Laguna un tempo m’ospitava
e de li Santi Giorgio e Benedetto
dentro le mura il cor mi ritemprava,
 
da un monacel cortese mi fu detto
di rimirar Venezia e molto ancora
del campanile antico sopra il tetto.
 
Io ben ricordo come fosse ora:
nel volgere la gamba a l’alta torre,
ch’entro terrore ancora mi raffiora,
 
mentre lo pie’ per una volta corre
senza saper, mi si para dinnanzi
l’Angelo Gabriel co’ l’ale scorre.
 
Di me tre volte Egli è e pure avanzi;
terribile, ristà con piglio altero
e non mi riesce che terror mi scanzi.
 
Tre volte mi distolgo a quello fero,
tre volte mi ripongo a quel terrore
tre volte di dolor mi rendo nero.
 
Cotal precisamente fu l’umore
sgorgatomi nel petto a quel sembiante
di forma del medesmo Annunciatore.
 
Oh sì, lettor, non farti canzonante:
capir tu puoi che su l’isola bella
io vidi sol quel’angiol culminante
 
che de li venezian poneasi a stella.
Ma dir che puoi de l’altro similare,
svelatosi dal ciel che tutto brilla?
 
Se resti ancor un poco ad ascoltare
e di pazienza un velo ti ricingi,
saprai come si mise anche a parlare.
 
Mentre la tema come roccia frange
sì mi cadeva rovinosa dentro
e sol’ usbergo m’ea quella che tange,
 
Cotal tremendo a me si volse contro
e quale corno ch’in Elvezia romba
sua voce udii com’eco in scuro antro.
 
“Mortal, l’uscio del Ver per te si amba
ché tu ne goda e ad altri dica pria
che l’ suono echeggi de l’ultima tromba.
 
Però tu credi ‘l varco aperto sia
per te, come già fu, de li tre Regni
cui volgesi condotta bona e ria
 
ma di sapere novo ben ti pregni:
per altra via Costei ti sarà guida
e di tua sorte vo’ che non ti lagni.
 
Mortal! Tu pensi forse che s’elida
de l’ingegner la consapevolezza
se prono foss’ a l’ultimo Re Mida?
 
Di certo, pur ei voto di fermezza,
la scienza sua per sé ben si conserva
anche servendo un prence in sua vaghezza.
 
Se tant’a umane sorti il Ciel riserva,
per sé, tu credi, ad altra libertate
virtù sua propria lascerebbe serva?
 
Divinità d’ogni benignitate
in tua Sovranità che tutto move
di nuova fiata avesti caritate
 
e vo’ Costui menar per ogni dove
a discoprir come Tu vedi ‘l mondo
così com’è l’Amor ch’ in tutto piove:
 
a la Bellezza pria sarà d’in tondo
aralda senza morte di tua Gloria,
vedrà qual’è nascosta in ogni fondo.
 
Memoria poi, che tien tutta la storia,
di nostro e loro agir culla diletta,
di sua ragion farà cangiar la boria.
 
E d’ultimo, così tuo Lume detta,
del perdersi per l’altro il sommo Fuoco
e quant’ incendi la coscienza retta
 
sarà per ogni dove, spazio e loco
sì rilucente e bello e vero e buono
tanto che dire Uno non sia roco”.
 
Mentre Colui levava questo suono
e tutt’ intorno era splendore pieno,
come lo lampo s’accompagna al tuono,
 
da retro in ver a noi con gir sereno
vid’io tre donne dal sorriso chiaro:
ad esse rise il mio materno seno.
 
La prima fe’ de l’altro il guardo raro:
di ricci sciolti avea corona viva,
due perle erano gli occhi, avorio il caro
 
riso, trabocco il guardo di giuliva
serenità, fragrante di dolcezza,
tanto che l’occhio a tal vision soffriva.
 
Appress’ a lei, ravvolta di vecchiezza,
venia quella seconda a capo chino;
di pace e cheto amor tenea pienezza:
 
entrambi in lei facevan capolino
come lo buon profumo e ‘l color vivo
empiono rosa, viola e gelsomino.
 
Ultima giva in fin con far retrivo
una che lì per lì non parve donna
ma rossa e gialla di foco furtivo
 
l’indìce a far di sua parola gonna
tenea e ‘l capo chino, anco se grande
parea potenza entro quella madonna.
 
Per ogne cattedral quando si spande
lo fumo de l’incenso in ampie volte
e in lunga procession la Chiesa splende,
 
al terminar di quelle file molte,
adorno d’auri fregi e vestimenti,
il massimo Pastor tra serve scolte
 
appare alfin alli fedeli intenti
così che chi più può di quell’assise
di dubitar non sia chi provi o tenti.
 
Similmente l’ultima sorrise
ed io m’intesi del preclaro trio
chi fosse in cui l’Amor potere mise.
 
Allor si spanse intorno un mormorio
quasi che per l’ovunque molta gente
versasse pieno di parole un rio.
 
I’ riguardai levante e pur ponente
e tosto intorno a me le quattro grazie
a cerchio si legarono repente.
 
Com’ in arteria turbinan l’emazie
sì ridondar d’intorno i spirti santi,
quali mi figurava, in gran letizie
 
già che vieppiù sonavano lor canti.
E pria con lento passo e poi più svelto
quelle madonne mossero in avanti
 
pel verso che lo tempo fa più alto.
E via e via che lor girava in giro
sempre di maggior luce vien sconvolto
 
tutto lo spazio ch’intorno rimiro.
Da quella luce si svelava appieno
quanto colà, ben oltre ogni desiro,
 
con noi sostasse il popolo sereno
de l’anime beate mille a mille
tante come le gocce in un baleno.
 
O schiera sempiterna che distille
ormai senza più limite e passione
della Passion superna le faville!
 
O quanto al lor veder consolazione,
sì ch’io gridai e risi e sospirai,
trasfigurò ogni mia sensazione!
 
Giravano costor tra lindi rai,
d’inverso pur giravan mie signore,
pur’ io su me medesmo turbinai
 
e fu che in me, per così tanto amore
qual si moltiplicava ad ogne giro,
del mondo persi forma, odor, colore
 
e lì m’accorsi: io divenea spiro.
Dirai tu forse: “Quanta tema avesti!”:
non sai quanto tal grazia ognor sospiro.
 
Accadde a un punto che rapidi e lesti
gli spiritali corpi s’orientaro
e com’aringhe ch’argento rivesti
 
ad alta mano manca si lanciaro.
Non ebbi tempo di notar la mossa
che subito le mie dal guardo chiaro
 
mi presero le man e per la grossa
cascata di trasfigurate torme
s’immersero com’angue di gran possa.
 
Volammo noi e quella schiera enorme
e fu in un sol momento che s’infisse
gir ed attorno il mutar di forme.
 
Quando Vesuvio in Morte si tradusse
e d’ogni disperar si fe’ modello,
lo foco del suo ventre al ciel diresse
 
e Napoli e lo mare di Ravello
tutti coperse con baglior d’inferno.
La fiamma si movea per ogn’ avello
 
e tutta si spandea da quell’interno
levandosi in colate ed in scintille
che d’ogne ostacolo faceasi scherno.
 
Lo sentimento allor prendè budille
de’ mille sventurati appiè del monte
ed il terror acceser le faville
 
misto a stupor però, come sovente
accade a noi uman quando Natura
mostra suo volto orrendo e fascinante.
 
Forse ti chiederai perchè matura,
amato mio lettor, tanto mirare
di mente mia a quella tal iattura:
 
perché lo sentimento assimilare
in quel novo accader di mia ventura
si po’ senza paura di fallare.
 
Eh sì. Chè non sapea per qual trattura
od a qual punto fosse mia sostanza
ma questo di provar ebbi ventura:
 
disparve in lampo quella turbinanza
e fu d’assieme, nel medesmo istante
la prima dell’angelica adunanza
 
lo fianco presemi e a sé stringente
mi fè, sì ch’io fu in lei che mi trasposi
e ‘l mio cangiar allor fu culminante.
 
Semplicemente entrai e in lei m’ascosi;
così, com’è d’inchiostro in suo solvente,
o come scienza in quei che son studiosi.
 
Ed io, per quel che dissi poco avante,
spavento aperto a tanta novitade
sentii davvero quant’era bruciante.
 
Valle boscosa v’è tra Fiè e Falcade
culla con altre d’una gente antica
di pace colma e di serenitade;
 
ad ogni cittadin si svela amica
allor che questi a’ suoi pendii si para
così che, pur per quanto ben si dica,
 
non crede ad una grazia tanto cara
e chiama Paradiso quel buon loco
che nervi suoi e cuor tanto ripara.
 
Follia riserbi a te suo peggio foco
città pagana e turpe e gran magnaccia:
di trafficar febbricitante gioco
 
t’ha persa ormai; per te nera minaccia
d’ossessi occhi e tracotante fauce
Disperazione prego che ti faccia!
 
Già quel velen che tuo malsen produce
attossica l’italica pianura
e a tua vergogna storia già riduce
 
la gloria e il nome tuo a buia e dura
spelonca d’ogni mal, porca superba:
miseria a te sarà di sepoltura!
 
Vuoi forse intorno spargere la torba
del vender, del comprar, del profittare,
il demone che già tuo ventre ammorba?
 
Or odi la Giustizia argomentare
quanto non può la tua malvagità
l’amena terra e genti sue prostrare,
 
ch’intorno e non in te la nobiltà
d’umano seme ancor si custodisce:
là va tua prole a ricercar bontà.
 
Ma se quel mal bubbon imputridisce
la val padana e tutto suo sistema
là su dove l’ borghese s’ammansisce,
 
com’io descrissi, in ciel ecco che scema
adesso intorno bianco il nuvolame
e quella Bella, scioltami ogni tema,
 
mi parla e mi dischiude ogni velame.
“Io qui dovunque brillo e qui m’irradio
godi di me e assai lieto certame
 
ora passion con frecce e con suo gladio
limite in te sostengan com’avviene
quando l’amor è gioco e il cuore stadio”.
 
Oh quanto ancor commosso assai mi tiene
il ritornar con i ricordi ai monti
dall’irte ghiaie, a lor color che viene
 
quand’essi de la notte giaccion pronti
a coglier sopra sé le scure coltri
e dell’occaso in quelli pochi istanti
 
nel lor profondo par che foco inoltri
e monti su e di sé tutto arroventi
com’è silicio ch’altoforno incontri.
 
L’ardor ne li occhi a tanto bene intenti
della madonna in cui m’era congiunto
di lagrime li miei fece cocenti
 
perché vedendo quel da quella assunto
a rimirar natura e sua esultanza,
serenamente e di tutto punto
 
vedea io amor di madre come danza
e quanta commozion dentro la pasce
allor che figlio suo nel mondo avanza.
 
Volammo noi su quelle eccelse fasce
sopra il Giardin di Rose e le sue guglie,
e pel Buffaure che da Pozza nasce;
 
de’ Lagorai giungemmo su le soglie
e dove il bacio riverente e caldo
d’ Apollo al mezzodì Laurino accoglie.
 
Varcammo i Sassi e poi Boè spavaldo,
calammo a Plan de’ Gralba e via, radenti
e fu Gardena e fu Colfosco e saldo
 
fu di Badia che fossero i contenti
fattor dal largo riso a salutare
con ampia, antica tesa in mano intenti.
 
Di gran consolazion quel bel volare,
di tanto buon piacer faceami pregno
così ch’omai vedeami assai sostare
 
in quel castello dei più santi degno
che molti in molti scritti noman Pace:
disio è là che paga ogni suo pegno.
 
Dispenta in cuor di gran passion la face
io, tutto abbandonato a quella pia,
ristò e quello star tanto mi piace
 
che pur di domandar la mente mia,
a por suo appello già da tempo pronta,
senza rancor fa linda ogni sua via.
 
Un’ora sopra due e tre s’ammonta
e finalmente in me la Madre mosse
ancor non so se voce oppur impronta
 
ma fu qualcosa che ben mi riscosse
e a quel chiarir fu nuovamente duce;
a l’altra allor mia voce si promosse:
 
“O spirto, d’ogni ben anima e luce
dolcezza tua risplende tanto cara
e ben m’avvedo quanto mi conduce
 
che fora e dentro strada mia fa chiara;
estingui del comprender mio la sete,
discioglilo così da la sua tara,
 
perché per desiderio tu se’ Lete
ch’insieme ad Eunoè nel Paradiso
dolor e contristar di netto miete.
 
Or dimmi, come mai fe’ tuo sorriso
mio guardo correr su pei bianchi monti
sì ch’io vedessi quanto il mondo hai intriso
 
di tua speranza e tuoi riflessi conti?
Però che ogni saper in sue costanze
le Donne tiene tra tuoi miglior canti.
 
Tu pur, per mio soffrir, nuove sembianze
ricingi tai ch’io veda in te Madonna:
tra ‘l nome tuo ed il lor non v’è distanze”.
 
“Quando in Egeo brillò l’alta colonna
che da suo grigio scoglio trasse ‘l nome
e discacciò d’allor le buie sonna
 
là dove l’acqua cessa d’esser fiume
diede a la Morte l’uom picciol esiglio
e nel medesmo lampo il dove e ‘l come
 
che si facesse salvo ogne naviglio.
Così pur’io follia ed orror discaccio
salvando voi dall’ultimo periglio”.
 
Tempo fu ch’io vedea tenere in braccio
a un’orsolina buona un dolce infante
e discopria dal guardo loro il laccio
 
stretto a due cuor de l’uno l’altro amante
tale che tu non odi alcuno suono
ma le parole sai che sono tante.
 
Quest’era per la Dama il modo buono
di satisfar lo dubbio ch’io mostrava
e fiato alcuno a suo pensier fu trono.
 
“Come rosseggia foco in ogne lava
tale traspar la forza mia dovunque,
Natura tutta mai di me si lava.
 
Se la superna Gloria vuol comunque,
e tanta volontà sempre rinfoca,
lo canto mio levar pure e quantunque,
 
e qui e colà la nota Ella più loca.
Tu cogli bene ov’è che più ne spande:
giammai Donna di me diverrà fioca.
 
Però nel mondo Morte si nasconde
e non già tutto e tutti vuol lordare
ma con caino mal più si fa grande
 
ov’io vo’ il Sommo Ciel glorificare;
così Donna per essa torna costa
ch’ alcuna sua virtù suol conservare.
 
Perciò Natura mostro ed altro apposta
ti nego: ed è dolor per me il negare
ma di menzogna qui non è proposta.
 
Pur la regina scura e suo malfare
che tanto sfigurò mio Primo Loco
non sa quanto di lei so anticipare:
 
divina Ira attenderà ancor poco
e chi lordò sua man di tal delitto
votossi tu non sai a quale foco!”
 
Così parlò e più non fece motto;
serena e pura in viso ella rimase
e nulla più nostro volar fe’ rotto.
 
Naturalmente fu per questa fase
dell’esperienza nova ch’io racconto
che culmine su tempo fe’ sue case;
 
e tu, fin qui compagno del mio canto,
i’ so che voi saper come s’avanza
e s’altre dame vidi poco o tanto.
 
Se ben protegge d’ogni dardo o lanza
la schiera eletta in noi pensier e affetto
e sia d’usbergo contro l’ignoranza,
 
allor non temeremo alcun difetto
e con speranza e pure un po’ di riso
proseguiremo quanto ancor va detto.
 
Si po’ rischiar ch’adesso sia deriso
l’eloquio misero ed evanescente
che sa di quel che sa zuppa di miso
 
e deve pure dir a la tua mente
quando mi congedò la grazia bella
dove ciò fu e come fu presente
 
l’altra che mi rivolse sua favella.
Ma questa vetta a me di conquistare
Colei che m’ama dà grazia novella.
 
E fu: fine ponemmo al bel volare.
Così Beltà nel mentre ch’atterrava
mi rese all’odorare ed al tastare.
 
Ed io la carne vera al suol posava
nel mentre che ‘l torace all’aria fredda
si restringeva e poi si dilatava,
 
come facea quand’ospite in Chiusedda
i’ mi beava in quel mare turchese
di cui non sa la bigia acqua de l’Adda.
 
La gioia buona e ‘l ridere cortese
di quella Grazia eterna ed estasiante
parlommi e in quel parlar congedo prese:
 
“Diletto, imprimi  in te le voglie sante
che quando prega l’uomo ridiscopre
perché di me tuo intimo s’ammante
 
quando in silenzio stai o fai mill’opre:
io sola son la via del bell’Amore
io la salvezza son che tutto copre!”
 
Di gloria spalancò lo suo splendore
e m’investì, mi carezzò nel fondo
e me baciò stordito di stupore;
 
poi volò via, mill’altri avendo in tondo
e da quel dì che più vidi il suo volto
vederla so dovunque in questo mondo.
 
La gioia di cui tutto era sconvolto
allora sola fu mia compagnia,
assieme al Grembo da lo qual fui tolto.
 
Come regnava placida armonia,
allor ch’infante trascorrea mie ore
in quell’avello ov’era litania
 
di buon lavor insieme a tanto amore,
così sereno e libero mi stava
in quella comunanza e in quell’onore
 
ed altro mai mio cuore disiava,
perché disio che un uomo può sapere
da lunge e molto quello assai staccava.
 
Oh cuor meschino! Ah, quanto per godere
di fioche tue certezze ti condanni
a perder ciò che pur è in tuo potere!
 
Il cheto porto a l’infantili affanni
si fece press’ a me con far discreto
e disse: “Il disiar non ti discanni
 
ch’a miglior ben, e a te non è segreto,
tu se’ vocato da la Grazia prima
a confidar di muovere tuo veto”.
 
Il corpo allor al dir suo fece rima
ma le pupille a torsi rifiutaro
e, tutte impresse al bordo che le lima,
 
il disparir lontan tennero caro,
ancor che il piè volgesse ad altro loco:
così da’ giuochi andar fa il bimbo amaro.
 
“Perché ti leghi a quel ch’ in fondo è poco?”
la Luce apostrofommi che m’accese
e la domanda il rivoltar fe’ fioco.
 
“Al tuo vago pensier rendi palese
che de la Vita il tratto ancor percorri
ove rifugio presso alcun paese
 
si po’ trovar che dia palazzi o torri
a un’ anima stremata, o che sua sete
rasciughi acqua serbata o che discorri.
 
Disìo in voi disìo maggiore miete
e disiando vostro tempo passa
sanza trovar al disiar la quiete.
 
Così nel cuore v’educa e tartassa
Colui che solo è pace a’ sitibondi
finché disio ad Amor tutto s’ammassa.
 
Tu dunque lassa il ben di cui ti grondi,
seguendo me nel tuo peregrinare
e il viaggio ti purifichi e disfrondi”.
 
Quale mister de la Natura appare
al cercator solerte che l’indaga,
sì che per quant’ei sforzi suo cercare
 
a darsi è lento e molto quello piaga,
tale la conoscenza celestiale
giù nel profondo tutta mi dilaga
 
ma ancor non è ch’io possa esser buon sale.
Di molto pazientar convien si doti
chi dentro sé l’arsura umana ha tale.
 
Allor che pure li occhi feci voti
di quella prima, impressa nel profondo,
attorno ecco prodursi novi moti
 
per cui lo bel paesaggio sullo sfondo
mi si cangiò, nel cuor come dinnante
e d’intime letizie n’ebbi un mondo,
 
sentendo in me più pace consolante;
ed io di quella ben sapea quant’era
lo rinnovar principio e fondamente.
 
La vista attorno allor si fe’ sincera
e ci trovammo chiusi entro una stanza,
la mia persona con la donna vera.
 
Sembrava come quando il buio avanza
e tu cammini, un poco spaventato,
la selva percorrendo e sua vacanza,
 
quand’ecco lieve tremolar dallato
per una fenestrella un picciol lume
e tu vedi una casa e prendi fiato
 
e bussi e un buon signor leto t’assume.
Così parea quel loco in cui eravamo,
come da quel che dico si desume.
 
La stanza è linda e tutta la guardiamo:
onesti son gli arredi e ben curati
di quei ch’a Bose forma esperta mano.
 
A le pareti tutti allineati
di molti libri, entro diverse coste,
saperi vari vengono celati;
 
e lì, ravvolta d’una bella veste,
seduta accanto ad un camino acceso,
le nostre mosse attende ratte e leste
 
quella seconda cui fui fatto arreso.
Raccolta, intenta a disfogliar un tomo,
sorride e a noi lo sguardo non fa teso.
 
La Genitrice pinge l’altro uomo
allor che, rallentato nello spiro,
s’accoccola com’è micetto domo.
 
La veglia sì cortese a dolce giro
espone li occhi chiari e venerati,
quasi d’intorno assai fossero a tiro
 
ricordi belli e tempi spensierati,
e quando mostrano tra quei l’ imago
e prove e mal e giorni addolorati
 
il volto di sorriso non ha vago
ma solo i lumi lei poco racchiude,
come si fa se il fil passa per l’ago.
 
Quale villan dal tratto tonto e rude
timido appar nel mentre ch’elli attende
giustizia e gira sue pupille nude
 
intorno, sopra, e l’ collo corto rende
e perso dentro stanze assai severe,
di seta tappezzate e d’altre tende,
 
ristà dove scrivan lo fa sedere,
così pur’io mi volsi a l’alta dama
e doni suoi dispuosemi a tenere.
 
Torpore allor, come spossato brama,
su me discese e tutto ‘l mio timore
disparve; mentre intanto un gran diorama
 
facea di sè medesimo l’umore
interno, muto e rilassato molto:
così mi raggiungeva quel sentore
 
che prova chi di sua fatica ha colto
ormai li frutti e meritatamente
le membra sue le coltri han già ravvolto,
 
e non v’è modo che il mattin seguente
la trilla fastidiosa lo scoperchi,
giacché sua cura è sol dolce far niente.
 
Se tuo pensiero sia ch’i’, stolto, cerchi
la nobiltade della pia Signora
di spregio ricoprir, come chi merchi
 
bottino ratto prima de l’aurora,
del gran valor di quanto tratta ignaro,
ma volto sol pecunia a trarne fora,
 
allor di mio pensier non sarò avaro,
lettor, e, pur se con figure goffe
e non perfette, tutto ti rischiaro.
 
Avvegna che la mente le baruffe
sue proprie quando il sonno la seduce
si mise a far andar a sprazzi e ciuffe;
 
mi fissi tosto in quel che lei produce
e vidi inver, oppur ne’ la cervella,
quella Signora che i ricordi cuce
 
a me guardar e poi con un’anella
di tre topazi, al dito suo posata,
crear contatto con mia mano bella.
 
A tal sfiorar fiorì la mia coscienza,
e nel tripudio dell’immaginare
per quel prezioso feci un’esperienza.
 
Apparvero, sì ch’io potei toccare,
come di palcoscenici un insieme,
già pronti un qualche dramma a cominciare.
 
La Veglia mi s’affianca e nulla teme,
sì ch’io non volsi a preveder perigli,
e lei co’ l’altra man le cave sceme
 
quasi mi suggerì fosser navigli
su cui salpar per chissà quali mari.
A me fece Colei cui rassomigli,
 
giacché tal segni m’eran tutti chiari,
qual fe’ l’ Maestro co’ suo Primo Alunno,
allor che glorioso a que’ suoi frari
 
favella nova volse e picciol tunno,
raccolto come fu Simon da l’acque,
El condivise in Chefarnaunno.
 
Sì forte allor, discernere mi piacque.
Così la mano manca fu l’eletta:
varcai la scelta tenda e tutto tacque.
 
De’ popoli che fan quest’Italietta,
dal dì che salutò laggiù in Teano
suo re l’autor de l’unità negletta,
 
chi sol fa studio può toccar con mano
le molte coincidenze, ovunque sparse,
che fanno un solo popolo italiano.
 
Così che sia di mezzo a buche carse
o d’Agrigento antica alte a le piane,
od a Gallura od Arzachena arse,
 
o Scilla o Gubbio, Alba o Lumezzane,
o ancor che sia di dentro Roma o Reggio,
o forte, de la Tuscia mangi il pane,
 
ovunque riconosce quel solfeggio;
dirà soltanto forse allor amando:
“Italia è ‘l loco ov’io riposto ho ‘l seggio”.
 
Così pur’io, nel buio brancolando,
quant’erano sentìa le scene varie
connesse all’oggi ch’ora vo vivendo.
 
Tronco, di foglie sparse per mill’arie
o genitor d’eredi consolato
nòmano sempre “lor” la mista serie.
 
Or, ti dirò, di retro a quel broccato
mi ricongiunsi a un dì di molto caro:
era d’estate e quanto dico è stato.
 
Ragge Iperion, di luce mai avaro
benedicendo il mondo, il mar, le vette
nei dì di Giulio e i dì d’Augusto ignaro
 
del fatigar che l’altre lune ammette;
erano li anni de li dolci affetti,
che per seconde cifre han sei e sette.
 
Noi usavam, in gran conforto stretti,
l’alti sentier de’ già cantati monti
lesti di piè calcar e in su diretti
 
sempre a goder di noi del tutto pronti,
come la gioventù sola sa fare
finché ricusa i dì che non han sconti.
 
Li passi cadenzavan quell’andare
ed ogni piè sospinto era un sorriso
e dolce raccontar e sempre amare.
 
I’ so quanto patir fosse conciso:
ancor adoro lo stupor profondo
d’un gaudio ad ogn’istante tutto adiso.
 
“Madonna! – a quell’empirsi giubilando
la voce mi levossi in pieno petto-
tu sola puoi, l’Amor così compiendo,
 
del vivere portarmi a sommo il tetto
giacché per te li ben che Tempo serra
la lor virtù ridanno al nostro assetto
 
ed è perciò che i dì su questa terra
io posso traversare confidando
ch’ancor non sia perduta nostra guerra!”
 
A raccorciar di quel che vo’ cantando
mi forza, come già più volte venne,
la poca lingua, il poco andar pensando,
 
di certo il poco mio saper di penne
e quindi d’accennar solo mi tocca
le tende aperte ch’Ella ancor mantenne:
 
più fiate con sospiro si balocca
allor tutto raggiante ogni mio guardo
e folgore mi pare che si scocca
 
quand’ella apre ed io tanto m’attardo
e poso li occhi e ride il mio passato
e m’empie come fe’ lo santo nardo.
 
Così nel rimembrar mi so beato
ed or lo custodisco in ippocampo
e talamo con grigio acqueduttato.
 
Mentr’io tapino ad indugiar m’accampo,
la tua paziente mente già precede,
intanto che di straparlar m’avvampo,
 
e, pur prestata molto già tua fede,
ancor attendi del gentil commiato
il canto che l’onesto orecchio lede.
 
Ma già tu vuo’ saper tutto d’un fiato
com’a la più focosa delle Donne
alfine del mio andar fui messo allato.
 
Così seconderò lo spasmo insonne
e porterotti addentro quell’ardore,
maggior di Davide con Assalonne.
 
La fiata nova sanz’alcun sentore
ancor cangiò lo qual m’attraversava
ma non stavolta turbine, candore
 
od il sentir che tutto consolava
mi novellò del giungere novello
ma fu qualcosa, caldo come lava
 
che lesto al par d’ amor tra chi è gemello
mi germinò congiunto dentro il petto
e de la mente ascoso ogni sacello.
 
La fantasia sfondar suo basso tetto
come può mai per darti cognizione
adesso, adorna sol di qualche affetto?
 
Eppur, come io dissi, la ragione
non deve disperar chè cuor l’aggiusta
e solo allor completa sua visione.
 
Assomma come puoi la vista angusta
ché tre segreti a te saran svelati
ed al capire tu darai di frusta.
 
Primo dirò: gli spiriti beati
grazia mi dieder quando fui levita
che, novo all’orazion, tenea prostrati
 
ginocchi e cuor in loco d’eremita,
sì com’ al Santo Colle s’impartiva;
contavan l’ore più che cinque dita.
 
Così sentii che dentr’in me saliva
ardor, passion, disciolto cuor o spasmo
– usa qual vuol che mai toccherai riva! -.
 
Con occhi aperti ed anima in orgasmo
di quella Trascendenza tanto folle,
nudo ristett’ innanzi al Santo Chiasmo.
 
Ora t’arresta ed altro intendi e tolle
quanto secondo dir disegna e mostra:
poi una terra fa’ di tante zolle
 
come fa giardinier per sua ginestra.
Pulsa ne l’occhi lacrima e favella
lingua non trova e dir così si castra
 
quando la man che può il no ribella
ed a quell’altra disperata e frustra
dona, col ben che dà, che sia sorella.
 
Quanto ne vien al cor dissigillata
d’intima commozion a quel valore
ben sa di tempo mio più che una data.
 
Eccomi al terzo dir pel cui sapore
tutto ritornerà lindo e composto
ché di chi vidi almen ti fia sentore.
 
Del memorar lontan tutto riposto
debbo per questo far veloce motto,
non però che di tutto sia proposto.
 
Come li Cardinal restar di botto
quando la Santità di Giovan Polo
a giovannea piaggia fe’ rimbrotto!
 
Non però che marcasse il grande dolo
ma, pellegrino, disse in veritate:
“Giungo Fidelio ed ascoltarti volo”.
 
Lesti volgemmo in nostra fresca etate
io ed Emilio il piè al santo evento:
stemmo e d’Atlas valcammo le vallate.
 
Oh, che da me giammai fuggir mi sento
cosa patimmo, muti d’alcun verbo:
lacrime calde noi tenemmo a stento.
 
Or mio disio sciolga ‘l suo riserbo,
chieda la franca speme se il comporre
dette memorie renda meno acerbo,
 
Tosto che fantasia sì lesta corre,
tanto narrar e quant’ intender tenti
sappi che far confuso in me s’aborre.
 
Prego così per Grazia che tu senti
l’ardore, la pietà e lo stupore
come d’un sol mister sien ingredienti.
 
Questo fu che sentii qui dentro ‘l core
mentre dappresso stava mia Soccorso,
la luminosa palma ed inferiore
 
posta che m’ebbe sul sinistro dorso,
come l’adulto mentore ripone
sopra chi Fe’ decide abbia percorso.
 
“Ecco la Prima a te che si propone
sì come vuol Colui che ben ingegna
ver’ prole sua che mal sempre pospone”.
 
Così ‘l maestro verbo mi congegna
ed io guatando allora fui travolto,
la piaggia è tal se maremoto avvegna,
 
giacchè m’appar un luminoso volto
e lesti rai e più baglior congiunti
coronan l’apparir ch’era disvolto
 
e con il viso vidi eran appunti
dolcissimi caratteri muliebri
che da quel sol parevan quasi espunti.
 
Tale Mercur’ vitali lampi ed egri
primo a patir che tutto n’è distrutto,
primo pur’è che tutto se n’inebri.
 
Renda ragion a te di tal costrutto
quanto del mio sentir l’alto lumaggio
visceri ebbe sì lo colsi tutto.
 
Era così che d’ogni mio servaggio
si sgretolava qui la fosca ghiaia
giunto ch’i m’era al sommo del mio viaggio.
 
Era l’Amor e sua santa giogaia.
Era l’ Gioir chè l’altro spe ravviva.
Era l’ ascoso Dar de l’alma gaia.
Allor del cuore uman la luce viva,
la verità, la direzion, la gloria
quindi si palesò definitiva
 
e de la triste coltre sua la Storia
mia e de’ tutti in quell’istante solo
fe’ com’a quella benda divisoria
 
posta a velar sopra’ l più santo suolo
quanto tener volesse eterno il Cielo
il primo patto con il suo figliolo.
 
Quindi guardai e quel che vidi celo,
schiusi le labbra e calde sopra il viso,
mentre m’abbandonava a quel Vangelo,
 
lacrime molte sopra il mio sorriso
libere liberando il cor disciolse
tant’era dentro l’essere indiviso.
 
Tutt’era novo e novità mi colse
e novamente stava e turbinava
e fu così che Anna a me si volse,
 
mentre lo novo lume in fondo intrava
e Quella e Questa altri da me non era
pure che ciaschedun con sé ristava.
 
“Figlio ora vedi e senti e sei com’era
quel Primo Padre de la nostra gente
che Primo Figlio è dir parola vera.
 
Or sai veder perché di questa lente
or ti è donato aver per ogni dove;
or’hai veduto ella quant’è potente.
 
Mai fu disio che più l’Amor commuove
quanto che vuol per prole sua la madre
e tal fu mio per te che questo trove.”
 
Assieme a Lei allor vidi mio padre
che tutto nuovo e tutto sorridente
lèto annuiva a note sue leggiadre.
 
Così tra noi s’empì silenzio ardente
e la vision che narro in questo canto
in quel tacer finì semplicemente.
 
Or che la notte ancor disvela il manto
penso che ‘l mio poema sia maturo:
a te che sei fin qui rimasto accanto
 
dono lo verso, spero, duraturo:
ora sappiam la via che ‘l Mondo santo
vera e serena a noi schiude futuro.

Cerca altre Storie nella tua Città


Benvenuto

Ora invia una Recensione

Annulla risposta

Altre Storie in Zona

    Visione

    Matteo Placido

    Profilo dell'Autore

    Visualizzazioni

    35

    Sei un Autore?

    Autore

    Unisciti al nostro Progetto!

    Registrati su Storie di Città. Potrai pubblicare e geolocalizzare le tue opere, lasciarle impresse in un luogo, farle leggere a migliaia di lettori e potrai promuovere gratuitamente i tuoi libri!

    Registrati Ora

    STORIEDICITTA.IT

    "Dedicato a tutti coloro che conoscono l'arte dello scrivere, a chi ama viaggiare, ma soprattutto a tutti quelli che hanno sete di leggere!"

    Il Team di Storiedicitta.it

    www.storiedicitta.it

    Storie di Città

    • Condizioni d’uso
    • F.A.Q.
    • Privacy Policy
    • Pubblicità
    • Contattaci

    Link interessanti

    • Bookabook
    • Eppela
    • Amazon Libri
    • Scuola Holden
    • Salute Privata
    Copyright Storie di Città - storiedicitta.it © 2019 Tutti i Diritti Riservati
    • facebook
    • twitter
    • google
    Copy Protected by Chetan's WP-Copyprotect.

    Login

    Register |  Lost your password?

     

    Caricamento commenti...