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Vovi Tino e il bar Santoro

Vovi Tino e il bar Santoro

Piazza Indipendenza
Palermo
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Vovi Tino e il bar Santoro

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L’avevano portato in viale delle Alpi: appartamento di sei vani con doppio ingresso. Erano stati i suoi figli, le sue quattro figlie femmine e il maschio, tutti non sposati, che vivevano con lui. Ma lui, in viale delle Alpi, non voleva starci… era una parte della città che si stava sviluppando, piena di cantieri di case che avrebbero ospitato dei professionisti. A quei tempi, dal centro storico di Palermo si scappava e nuovi interessi, anche malavitosi, portavano alla creazione di nuove zone urbane. Cemento, cemento, strade ampie: sarebbe stato di certo signorile, ma a Vovi Tino non interessava. Lui veniva dalla montagna, da Piana degli Albanesi è lì i vicoli, le strade inerpicate, le case con la pietra erano il suo mondo. E poi il lago, il rito greco, una lingua diversa dal siciliano, figurarsi dall’italiano! Ma nella sua vita non aveva scorto soltanto il cielo terso e azzurro come i suoi occhi e l’aria frizzante, la neve del borgo natale: aveva visto anche l’America, dove aveva vissuto, giovane, per qualche anno. A Sacramento, in California, era piombato in un quartiere di arbereshe, ogni tanto abitato da qualche sanciusipparo, ma era un mondo che non gli apparteneva, troppo grande, troppo tutto. E poi gli scocciava il lavoro duro, voleva fare il signore. E quindi ritornò a Piana, dove le sue terre erano minacciate dai mafiosi. Intanto si era sposato e aveva avuto figlie, sempre figlie, cinque figlie, tutte femmine, tranne l’ultimo, Giorgio, detto Ghierghi. La primogenita morì a trentatré anni, dopo l’estrazione di un molare effettuata da un barbiere, poverina! E la moglie, Juannì, la seguì l’anno dopo, per il dispiacere, così si almeno si diceva, anche se lo sapevano tutti che avesse il male al petto, come il resto della famiglia, tranne Marì e Ghierghi. E mentre i mafiosi incombevano, la sua famiglia andava via, cercava fortuna a Palermo. C’era un luogo, un preciso spazio della città, popolato soprattutto da chianioti (quelli provenienti da Chiana, in siciliano, Piana degli Albanesi, ma anche da S. Cristina Gela, un po’ invisi ai primi) e c’è ancora: è la zona tra il corso Calatafimi, il corso Pisani e piazza Indipendenza. Proprio lì si fermava la corriera di e per Piana; lì i chianioti che arrivavano in città compravano casa. I suoi figli erano operosi, volenterosi lavoratori. A Palermo, insomma… si risollevarono, non certo per merito di Vovi Tino, che trascorreva il suo tempo al bar Santoro, proprio nel centro di piazza Indipendenza.  C’era un ampio spazio pieno d’alberi, con al centro un obelisco che ricordava i martiri dell’Unità d’Italia; si riuniva con gli altri arbereshe, parlava la sua lingua, ricordava gente, luoghi e situazioni, come le lotte durante i fasci siciliani e le repressioni di Crispi. Gli anni erano trascorsi e mille fatti erano avvenuti: la guerra, i bombardamenti durante i quali trovavano riparo nel solido edificio settecentesco del Maria Adelaide, in corso Calatafimi. Le urla, i “Muma jme” di paura allora, mentre la città tremava sotto gli aerei degli Alleati. Era tutto un parlare arbereshe mentre cadevano le bombe! E Ghierghi era cresciuto e ritornava a Piana, facendo sali e scendi con la sua bicicletta, perché si incontrava con i compagni, quelli di Piana la rossa… ci credeva alla politica, al socialismo! Gli anni quindi erano trascorsi e i figli, che faticavano come muli, come api operaie, che avevano acquistato case, una villetta e finanche una sepoltura gentilizia, decisero che fosse il tempo di cambiare quartiere, di mescolarsi alla Palermo – bene. Ma Vovi Tino, ormai ultraottantenne, si annoiava in quel nuovo posto, non aveva una vita sociale: doveva prendere addirittura due autobus per raggiungere il bar Santoro per unirsi alla sua gente. Il nomignolo che a Piana era stato affibbiato alla sua famiglia era Fraschetta, perché i Riolo, si sapeva, volevano pesare quanto una frasca. Tutti, tranne lui: incominciò a tormentarli, quella casa non gli piaceva, gli sembrava triste. Si affacciava e vedeva la desolazione dei cantieri e lui era abituato a rimirare il verde; la gente gli appariva fredda e lontana; un fiume era ancora scoperto e d’estate lo tormentavano le zanzare. Che poi, tormentavano tutti, quindi, perché rimanere? Li costrinse al trasloco, li costrinse a ritornare nella loro vecchia casa di fronte il Maria Adelaide. Del resto, lui era ancora il capofamiglia, lo era per il comando, lo era per il suo orgoglio stizzoso, non perché avesse mai realizzato qualcosa di concreto nella sua vita. Ma si vantava di non rivolgere la parola ai mafiosi chianioti che incontrava al bar Santoro. Loro lo salutavano con deferenza e, per via dell’età, lo chiamavano “Vovi”, cioè zio; lui non ricambiava al saluto, rispondeva piuttosto che non avrebbe mai salutato un mafioso. Chissà come lo vedevano loro, i mafiosi chianioti, quel vecchietto basso e con gli occhi color del cielo, camminare impettito e borioso, sfoderare un eloquio aspro, pungente. Ma orgoglioso di cosa? Non si faceva aiutare ad attraversare la strada, perché lo vedeva come un atto di debolezza, continuava a irridere mafiosi e arbereshe di S. Cristina, perché lui era di Piana e si sentiva superiore. Ritornato nella sua piazza, nel suo bar, tra la sua gente, gli piaceva gustare la visione di Porta Nuova, che si stagliava improvvisa e chiudeva come un recinto quella piazza, Porta Nuova con la sua aquila fatta di maioliche ed il suo apice trionfante; gli piaceva il giardino sul bastione del Palazzo dei Normanni: lì si custodiva, come in uno scrigno, una chiesa tutta d’oro, ma a lui non interessava, perché tanto aveva già  la sua di chiesa tutta d’oro, sua e della sua gente, dove veniva officiato il “suo” rito greco: era la Martorana e da piazza Indipendenza poteva arrivarci a piedi, non di certo dal viale delle Alpi. Aveva l’orgoglio di Castriota, l’eroe nazionale albanese, anche se non lo sapeva, ma era minuscolo, particella nell’ atmosfera, meno di pulviscolo rispetto alla storia, eppure si muoveva tronfio, quasi a mettere paura, come ad imitazione del cadavere di Castriota, il principe che venne issato su di un cavallo in corsa per spaventare i Turchi; ma queste erano leggende, che lui neanche conosceva. Sentiva però dentro di sé un’idea alta dell’ onore, di una superiorità da lui inventata, che lo rendeva buffo, a tratti caricaturale. Quando finalmente Ghierghi, ormai cinquantenne decise di sposarsi, comandò alla nuora, che, se avesse avuto un figlio maschio, avrebbe dovuto chiamarlo con il suo vero nome, che era Costantino: “È un nome di imperatori, è un nome di re!”. Chissà chi gliel’aveva raccontato. Visse a lungo, morì centenario, continuando a pesare su tutti e a lamentarsi, ma era tornato tra la sua gente. La sua gente, esule dai Balcani cinquecento anni prima, perché erano arrivati i Turchi, esule da Piana, adesso, per colpa della mafia e anche perché le vite di tutti stavano cambiando. Ogni cosa ormai si convertiva al consumo, all’omologazione, anche la lingua italiana da apprendere in TV. Sarebbe stato sempre così, anzi, di più! Ma Vovi Tino non lo vide, Vovi Tino non lo seppe. Ancora oggi, passando dal bar Santoro, o attraversando il corso Pisani, puoi incontrare delle persone che parlottano tra loro in una lingua strana e soltanto tra di loro si comprendono; poi, se sono tuoi conoscenti e li incontri insieme, gli scapperà di scambiarsi qualche parola in quella lingua, mentre parlano con te e tu non li capirai, e ti chiederanno scusa, ma, velato, ti rimarrà sempre il dubbio, che stessero parlando di te. Con il tempo passerà, passerà anche quella lingua antica tra quei luoghi, come passò Vovi Tino, che si sentiva nel petto l’aquila bicipite e l’onore di Castriota Scanderbeg, anche se era un piccolo vecchio burbero. Nulla più.

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  1. Simona
    Originalità

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    Stile

    Un racconto accattivante, vivo. Ti fa sentire di essere li dove si svolge la storia!

    6 anni fa
  2. Simona
    Originalità

    Coinvolgimento

    Stile

    Racconto appassionante….storia di vita vissuta. Molto coinvolgente e ben scritto

    6 anni fa
  3. Irene Armetta
    Originalità

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    Stile

    Delicato e aspro insieme, piacevole, scorrevole. In una parola, appassionante

    6 anni fa
  4. Mariella Oliveri
    Originalità

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    Stile

    Molto coinvolgente, il racconto. Conosco bene la comunità di Piana degli Albanesi e la loro intrigante storia e ne sono stata sempre affascinata. Ho amici deliziosi di Piana. Amici che sentono molto forte il senso di appartenenza alla loro comunità. In queste pagine ho ritrovato la loro vita , la loro bella storia, la loro “isola felice”. Inoltrerò loro il bel racconto. Confesso che ogni tanto vado alla chiesa della Martorana alle 10 per assistere alla messa in rito greco. Inebriante spiritualità. Brava Giovanna diMarco Guida .

    6 anni fa
  5. Inneres Auge
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    Stile eccellente. Tela narrativa da grande scrittore ottocentesco. Storie dentro la Storia e Storia che si atomizza in rivoli di storie autentiche, fascinose, avvolgenti. Una cultura e un’identità raccontate con colori acquerello: limpidi, maneggevoli, invitanti, “pop”. Consapevolezza dello e nello stile, ripeto, narrazione da ascoltare-leggere come se si avessero gli occhi socchiusi, per entrare in un clima, in una tradizione culturale, in pezzi di storia antropologica (resa letteratura) che assumono un valore di iniziazione ai segreti e alle identità di un mondo nuovo, antico.

    6 anni fa
  6. Stefano
    Originalità

    Coinvolgimento

    Stile

    Storia di una Palermo ormai scomparsa all’ombra del miraggio della “modernità” e del suo sacco.
    Storia di rumori e di voci, di gente e di luoghi destinati a perdersi nella memoria e nelle pagine di scritti come questo.
    Scritti in cui l’incedere è segnato dai luoghi e in cui i “non luoghi” non avevano ancora patria.
    Le piazze, le vie, i vicoli non come anonimi sentieri senza nome, ma dotati di un’anima propria tramandata da secoli e per generazioni e d’un tratto scomparsi.

    6 anni fa
  7. Clelia
    Originalità

    Coinvolgimento

    Stile

    Attraverso le rughe che solcano il viso dell’anziano protagonista, l’autrice riesce a farci leggere la storia di un popolo orgoglioso delle proprie tradizioni.
    Palermo diviene simbolo, ponte di culture, che unisce e allo stesso tempo divide, ma sempre madre che accoglie le diversità.
    Un racconto magistrale ricco di suoni, profumi e vita vera che ti coinvolge dalla prima parola.

    6 anni fa
  8. Roberta D'Amico
    Originalità

    Coinvolgimento

    Stile

    Realistico ed incantevole racconto di vita. Ritratto dolce e amaro della fierezza di un uomo che non si piega al veloce mutare dei tempi.

    6 anni fa

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