Storie di Città

Racconti e Poesie originali e geolocalizzati

  • Home
  • Pubblica e Geolocalizza le tue Opere
    • Regolamento
    • Invia la tua Opera
  • Accedi
  • Registrati
Menu
  • Home
  • Pubblica e Geolocalizza le tue Opere
    • Regolamento
    • Invia la tua Opera
  • Accedi
  • Registrati
  • Sfoglia Categorie
      • 685Poesie
      • 393Racconti
  • Chi siamo
  • Blog
  • Contattaci
Quel quartiere mai percorso a piedi

Quel quartiere mai percorso a piedi

Piazza Armando Diaz
70121 Bari
Racconti Biografici Racconti
0 Reviews
Condividi

Condividi:

Condividi:

  • Fai clic per condividere su Facebook (Si apre in una nuova finestra)
  • Fai clic qui per condividere su LinkedIn (Si apre in una nuova finestra)
  • Fai clic qui per condividere su Twitter (Si apre in una nuova finestra)
  • Fai clic per condividere su WhatsApp (Si apre in una nuova finestra)
  • Fai clic per inviare un link a un amico via e-mail (Si apre in una nuova finestra)
Write a Review

Quel quartiere mai percorso a piedi

visita su Google street view  

 

Avevo a mio vantaggio tutto il tempo disponibile, dalle sette del mattino sino alle dieci di sera, e il possesso di una macchina comoda e climatizzata; ma avrei utilizzato il bus, nella ipotesi di rincontrare il conducente e approfittare del giro completo per un’ispezione dall’alto, sul mezzo.
Uscii di casa. Non mi soffermai in portineria, come di solito. Tirai dritto e indifferente, non salutando l’indiziato numero uno della soffiata. Lui fece finta di non vedermi continuando a leggere il giornale.
Avevo a mio svantaggio un’estesa città di circa mezzo milione di abitanti, tra stabili e pendolari, un caldo insolito per gli inizi di Giugno e la mia cocciutaggine a non voler indossare gli occhiali da lontano che usavo solo in macchina; ma ero già sull’autobus. Restai in piedi, nei pressi del conducente.
«Mi vuol chiedere qualcosa?» Mi sorprese l’autista, continuando a tenere la testa rivolta in avanti.
Mi resi conto dell’ampio specchietto retrovisore. Risposi al suo viso riflesso, piuttosto che alla sua nuca:
«Volevo chiederle se siete sempre gli stessi autisti per una stessa linea».
«In genere, sì» fermò la vettura, aprì le porte e si voltò a guardarmi di persona.
«Ecco… non so se ha presente un suo collega, piuttosto robusto e i capelli rossicci…»
«Giovanni…» m’interruppe «…è sulla vettura che segue».
«Quanto tempo impiega per arrivare?»
«Dieci minuti, traffico permettendo».
«Le spiace riaprire, vorrei scendere».
«Non deve fare un altro biglietto» mi consigliò.
«Sono un over 65…»
«Senza tessera…» mi sorprese.
Come faceva a sapere che non avessi la tessera? E poi, bisognava avere una tessera per dimostrare di averne diritto? Che fossi un over 65, oltre, ben oltre, era abbastanza evidente. Restai un paio di minuti perplesso, prima di decidermi a cercare un giornalaio: meglio non correre rischi.
Chiesi un biglietto. L’edicolante mi domandò se ne volevo uno di corsa semplice; gli riferii che dovevo ritornare indietro subito dopo. Mi chiese quanto tempo dopo? “Immediatamente dopo”, gli risposi. “Cioè, dopo quanto?” Compresi che mi stavo complicando la vita, tagliai: “Me ne dia due, così non mi sbaglio…” Il suo tono divenne spazientito: “Non le servono due biglietti di corsa semplice, spenderebbe un euro e ottanta. Se pensa di fare la corsa di ritorno entro settantacinque minuti, prenda quello da uno e venti.” Replicai che ero poco pratico di biglietti. Ribatté che, infatti, non avrei avuto bisogno di biglietti alla mia età…
«Mi dia sto cazzo di biglietto!» Gli urlai, guardando l’ora sullo smartphone: mancavano solo tre minuti.
Rifeci quasi correndo il percorso a ritroso. Vidi il bus in lontananza. Era alla fermata precedente. Respiravo forte, la mia camicia era già compromessa da una vistosa macchia di sudore sul petto; e non erano ancora le otto. Prima di salire mi accertai che fosse l’autista che cercavo: era lui. Gli sorrisi, mi sorrise. Tenevo il biglietto in mano, lo mostrai. Mi disse che dovevo obliterarlo alla macchinetta (…?…) si prestò a farlo per me un mio coetaneo, non senza ricordarmi che potevo usufruire della tessera over 65 e stava procedendo nella spiegazione su cosa avrei dovuto fare per ottenere la tessera; lo interruppi, dicendogli che non prendevo abitualmente il bus. Mi restituì la contromarca bucata voltando il viso verso un altro coetaneo per commentare la mia sgarbatezza. Avrei potuto ascoltarlo, per ricambiargli la cortesia; invece, gli avevo tolto la possibilità di parlare con qualcuno: un’abitudine che mi ero riproposto di non praticare sin dal giorno del mio pensionamento. Mi allontanai da lui per prendere posto al primo sedile libero accanto al finestrino.
Non era il caso che guardassi fuori per cercarla. La mia urgenza più concreta era quella di parlare con l’autista, per una non improbabile possibilità che l’avesse rivista o che, abitualmente, usasse il pullman per raggiungere quella piccola insenatura, magari con altri. Gli autisti, come i portieri, sono costretti a osservare chi entra e chi esce e, quasi certamente, ricordano con più precisione chi transita una sola volta, com’era stato il nostro caso. Cominciai a credere che la probabilità fosse più alta di quanto l’avessi stimata.
«Sì. Mi è capitato di vederla proprio ieri, in tarda mattinata, nei pressi del giardinetto dove scendeste … si ricorda?»
«Certo, che mi ricordo» risposi sorridendogli in modo sproporzionato, felice di essermi fidato della memoria visiva della categoria dei conducenti di autobus.
Al capolinea restai a bordo, mentre l’autista scese per fumare. Eravamo soli. Decisi di non scendere, per non dovergli rivolgere la parola; temevo una qualche sua domanda indiscreta. Lo salutai cordialmente, però, quando smontai. Ricambiò con la strizzatina d’occhi.
Procedetti col mio solito passo affrettato degli appuntamenti di lavoro, mentre pensavo al fatto che non l’avrei incontrata se era già stata in quel posto la mattina precedente: aveva certamente il contanti per procurarsi più di una dose, oppure aveva barattato la roba con l’orologio; comunque fosse andata, non avrebbe avuto alcuna necessità di stare lì, per di più, di primissima mattina. Né a quell’ora ci sarebbe stato in giro un qualche pusher ricettatore del quale non conoscevo le sembianze, tantomeno il nome. Il rapido susseguirsi dei pensieri sembrò sortire l’effetto contrario sulle gambe: dimezzai il passo, quasi un rallenty; una specie di surplace se procedere in avanti o tornare indietro. Mi fermai, osservato dal compunto facchino d’albergo impalato sulla soglia in attesa di un qualche cliente. Gli rivolsi una smorfia di sorriso, sia per la sua buffa marsina nera – completa di cilindro – che per la reciproca imbarazzante immobilità. Non gradì. Tenendo le mani dietro la schiena, scrollò nervosamente il capo col palese significato: Che-hai-da-guardare-cammina!
Mi avviai con l’intenzione di visitare, comunque, quel quartiere mai percorso a piedi.
Un insolito rione, il più piccolo della città, che si svolge, lungo e stretto, per tutto il lungomare. La cosa che lo rende particolare è l’architettura dei palazzi che comprende l’intero novecentesco campionario: dall’elegante liberty, completo di cariatidi, affiancato dal monumentale e rigido stile fascista con in mezzo – proprio in mezzo – il nessuno-stile degli anni cinquanta e sessanta che si differenzia soltanto per la crescente miglioria dei materiali edili ma, come comune denominatore, l’anonimato. Non manca nemmeno il quadrato di case popolari del vetusto Istituto Autonomo.
Così gli abitanti. Un mix alto-borghese, bottegaio, salariato, disoccupato e… sotto-proletario  – come lo definivamo un tempo – dedito a spaccio, contrabbando, scippo e prostituzione in una percentuale più alta delle altre circoscrizioni: il pezzo che avrei dovuto percorrere svoltando all’angolo dell’elegante albergo.
Svoltai.
Mi infilai nell’accecante budello di una strada lunga e stretta. Il sole, basso, per l’ora già legale, mi abbagliò dolorosamente, costringendomi a coprirmi gli occhi con la mano posta a visiera e guardare per terra. Raggiunsi una traversa completamente in ombra: il netto contrasto, il fatto che ci vedevo poco senza occhiali e una melodica canzone napoletana ad alto volume mi straniarono. Ero a una svoltata d’angolo dall’hotel cinque-stelle e a un secolo di storia urbana: panni stesi fuori dai balconi, pianto straziante di bimbi seguito dalle urla materne, puzzo di soffritto, bestemmie di uomini già ubriachi…
Una mamma stava imboccando un piccolino di un paio d’anni che si ostinava a non mangiare. Appena fui nei suoi pressi non esitò a mettermi la tazza in mano, minacciando il piccolo che l’avrei portata a mio nipote, non prima di aver portato via anche lui: “Vero signore?” Rimasi così, con la tazza tra le mani, mentre la donna si addentrò in casa per menare l’altro figlio poco più grande di quello che, ormai, piangeva disperato ai miei piedi. Cercai di consolarlo porgendogli il cucchiaio del latte con i biscotti. Me lo scostò con un rapido gesto della manina, imbrattando i miei pantaloni di lino azzurri. Fui subito raggiunto dalla madre con già in mano un panno intriso di acqua. Si affrettò a pulire il cavallo dei miei pantaloni, assicurandomi: “Tra un po’ si asciuga, con questo caldo.” Non aveva altro tempo da dedicarmi. Rientrò urlando sempre contro il figlio più grandicello.
L’inguacchio sui pantaloni destò subito l’interesse di un giovinastro scompostamente sdraiato sulla sella di una moto di grossa cilindrata, appena pochi metri più avanti, sotto una edicola votiva di Sant’Antonio da Padova. Sghignazzò, urlando lo spettacolo che mi fossi pisciato addosso all’intera stradina che si affollò immediatamente in ogni ordine di palco, fin sul loggione, per applaudire e ridere del fuori scena.
Interruppe lo schiamazzo un uomo enorme, più di pancia che di statura. Indossava una canotta appena più scura della sua pelle, sulla quale risaltava, in tutta la sua lucentezza, un Cristo in croce di proporzioni cardinalizie; come curiale fu l’ampio gesto delle braccia che pose fine alla gazzarra. Rientrarono tutti. Piombò il solenne silenzio di una predica:
«Non siete di qui… vi siete perso?»
Il tono mi sembrò più minaccioso che preoccupato. Tentai di rispondere sollevando il braccio a indicare la provenienza. Non mi fece parlare, decise lui da dove provenissi.
«Ho capito, siete dell’albergo. Non vi hanno avvisato?…»
Avvisato di che? Stavo per chiedergli. Continuò, incurante che potessi avere una bocca per parlare:
«…Che è meglio non bazzicare da queste parti; e poi, non vi vergognate? Tornate in albergo!» M’intimò, squadrandomi
Non era il tipo al quale spiegare come fosse andata la faccenda. La faccenda era andata così come aveva deciso lui. Accennai un saluto e rifeci a ritroso lo stesso percorso per ritrovarmi di nuovo davanti all’uomo in marsina. Accennò uno sguardo di derisione, puntando gli occhi sulla macchia dei pantaloni.
Attraversai la strada. Mi sedetti su una panchina del lungomare, allungando e allargando le gambe per fare asciugare la stoffa. La posa non aiutava a camuffare la macchia, anzi, la esaltava. Più di un passante soffermò lo sguardo sulla frittella bluastra su sfondo azzurro. Mi alzai. Vidi arrivare il pullman. Si fermò, montai.
Descrivere il mio imbarazzo e gli sguardi dei passeggeri è poca cosa, di fronte alla faccia disgustata che fece il portiere vedendomi rientrare: un misto di commiserazione e repulsione per l’incontinenza, sommato al più riprovevole comportamento di due giorni prima.
Smoccolando sommessi insulti contro la donna imbrattatrice del vicolo, aprii nervosamente la porta per addentrarmi e spogliarmi contemporaneamente. Restai in mutande, indeciso sul da farsi. Optai per la lavanderia, nel pomeriggio.
Mi distesi sul divano, misi gli auricolari e inserii la quinta di Mahler: la sinfonia giusta per esaltare tutti i miei buoni e cattivi umori.
…
«Papà!…»
L’urlo mi giunse al solo orecchio destro, dal quale mi era stato strappato l’auricolare.
«…quando ascolti la musica, metti almeno il vibratore al telefonino e tienilo in tasca ai pantaloni!…»
L’impeto di mia figlia si armonizzò bene con l’ultimo movimento del rondò finale: squilli di tutti gli ottoni e forti vibrazioni di timpani che andavano concludendosi nel mio orecchio sinistro.
«Quali pantaloni?» Feci un gesto ampio con le braccia per mostrarmi com’ero: in mutande.
Giordana si voltò verso il portiere che era rimasto sulla porta con le chiavi di casa:
«La ringrazio, signor Carlo. Può andare».
Io mi limitai a infilzarlo con gli occhi, col sottinteso proponimento di dimezzargli il regalo di Natale: aveva provveduto a chiamare Giordana che, a sua volta, aveva tentato di telefonarmi sin dal primo movimento cadenzato della Marcia funebre; cioè, da oltre un’ora.
«Potevi parlarmene…»
La frase restò sospesa tra il suo e il mio imbarazzo: sapeva tutto.
«Parlarti di cosa?» Cercai di svicolare.
«Del tuo problema».
«Quale problema?» Le chiesi, avviandomi verso la mia stanza per indossare la vestaglia di seta.
Sentii la sua voce a distanza.
«Ci sono dei medicinali per queste cose…»
Approfittai di essere solo per sedermi su una sedia in camera da letto. Premetti le mani sulla fronte, nella illusoria speranza di poter spremere  qualche giustificazione plausibile per la copiosa chiazza in quel preciso punto dei calzoni…
«Ora, non abbatterti».
Era sull’uscio.
Mi voltai.
«No. Non sono affatto abbattuto, risolverò».
«Potresti provare… con dei pannoloni…»
Quel sostantivo, così grazioso al diminutivo, divenne una tragedia all’accrescitivo. Col paradosso che non ne avessi per niente bisogno.
«Sì, sì… sono cose intime delle quali non mi piace parlare. Va’ pure di là!» Comandai, con l’imperativo diritto di essere ancora il suo genitore.
Si allontanò.
Indossai la vestaglia. Mi detti uno sguardo allo specchio per sincerarmi che il mio aspetto fosse ancora accettabile. Asciutto, ero asciutto. La mia statura, superiore alla media. Il mio viso, non del tutto aggrinzito, piuttosto piacevole: la fronte alta e il cranio completamente coperto da una lunga e fluente capigliatura argentata. Gli occhi azzurri, un po’ cisposi, da vecchio lupo di mare. Complessivamente, non sembravo una vecchia carcassa; e la mia vestaglia blu-notte mi donava l’eleganza di un fascinoso gentleman. Uno spruzzo di colonia e avrei cancellato dalla mente di mia figlia ogni pensiero di maleodorante vecchiume.
Una preparazione all’entrée sprecata. Lo sguardo di Giordana fu quello tipico di una figlia femmina, il naso arricciato e le labbra serrate, sembravano quelle di una che stesse per avere un conato di vomito: in mutande, ero un padre decente, in vestaglia, un vecchio porco; tradussi.
Una recuperata autorità vanificata da una vestaglia. Come se fossi stato una vecchia battona con i tacchi a spillo sotto un lampione. Con un libro in mano sarei stato più dignitoso. Ne scelsi uno a caso, mi accomodai in poltrona. La sceneggiata fu subito censurata:
«Papà, ti pare il momento di leggere?»
Richiusi il libro, non senza imbarazzo. Mi giustificai:
«No, certo… è stato un gesto compulsivo».
«Compulsivo… come parli?»
«Volevo dire… la mia abitudine quotidiana…»
«Di un uomo solo…» sottolineò, come premessa a un discorso che temetti cominciasse. Cominciò:
«Non puoi restare da solo tutto il giorno… a fare niente. Hai bisogno di vedere qualcuno».
Non avevo bisogno di vedere ‘qualcuno’ dei miei coetanei in quel posto che non avrebbe avuto il coraggio di pronunciare. Lo dissi io:
«In un ospizio, intendi?»
«Ospizio… una casa di riposo» minimizzò.
«Non sento alcun bisogno di riposarmi, mi sento in gran forma!» Mi alzai di scatto per riporre il libro.
La rapidità del movimento avrebbe dovuto farle capire che fossi vitale e per niente acciaccato. Ottenni il risultato opposto, mi infilzò con sarcasmo:
«Da bazzicare qualche signorina… venuta dell’est?»
«Non è una qualche russa, se intendi questo. È italiana!» Precisai con partecipazione; troppa.
Sul suo volto si disegnò un’unica espressione con due possibili significati: semi sorridente che non fosse una slava, semi triste che fosse una connazionale. Lo scetticismo e stupore di un clown bianco: le sopracciglia sollevate e le labbra allungate in un riso stereotipato. La mia espressione, invece, era quella di un compunto professore di latino che aveva appena corretto verbalmente la declinazione di un sostantivo, fiero e saccente: il mento sollevato e il naso puntuto. In verità, ero stupito del mio fervore nel precisare la nazionalità della ragazza. Non certo per patriottismo.
Giordana si alzò, per uscire di scena con un colpo di teatro.
«Attendo la lista nozze!»
“Scema!” – le gridai dietro ridendo – “Piuttosto di’ al ‘tuo’ portiere di far salire il garzone del market per la lista della spesa, non ho voglia di parlargli…”
La mia superficiale conclusione e lo stesso tonfo secco della porta mi riportarono indietro ad un’altra drammatica conclusione. Fui colto dal panico: non potevo perdere anche lei! Raggiunsi la finestra per osservarla mentre attraversava la strada: la stessa lunga falcata della madre; quella decisa e settentrionale di chi non torna indietro sui suoi passi. Ero angosciato, avrei voluto aprire l’imposta per gridarle di tornare… stavo ingigantendo la cosa; restai con la mano sulla maniglia del battente, poggiai la fronte sul vetro: due cose gelide che raffreddarono la mia ansia. Giordana non stava andando via per sempre; poteva essere delusa del padre, però era orgogliosa del nonno di suo figlio. Un paradosso che percepivo nei suoi occhi ogni qual volta tenevo sulle mie ginocchia Giuliano. Ci guardava col più tenero e liquido sguardo, conscia di un rapporto indissolubile. No, non stava andando via. E per niente al mondo avrei deluso il piccolino. Dovevo tornare in quel posto, mettere da parte il mio sciocco orgoglio per l’umiliazione subita da gentucola che aveva ben altro da farsi perdonare. L’indomani sarei ritornato.

(Estratto dal mio romanzo: Odore di camino spento – In un caldissimo pomeriggio di giugno, un anziano dirigente d’azienda è adescato alla fermata del bus da una giovane tossicomane. I due vanno al mare e poi a casa dell’anziano che vive solo, abbandonato dalla moglie. Non hanno nessun rapporto sessuale, restano a bere un pregiato whisky dell’Islay: il Laphroaig, un distillato torbato dagli impareggiabili odori. Al risveglio dalla mezza sbornia, l’anziano si rende conto che la ragazza è andata via sottraendogli un preziosissimo orologio, dono dell’azienda per il suo pensionamento, promesso solennemente al suo nipotino. Inizia la ricerca della ragazza, restando coinvolto in una brutta storia in un ambiente mai frequentato: quello degli spacciatori e ricettatori di un noto quartiere della città.

Cerca altre Storie nella tua Città


Benvenuto

Ora invia una Recensione

Annulla risposta

Altre Storie in Zona

    Quel quartiere mai percorso a piedi

    Enzo Pagano

    Profilo dell'Autore

    Collegati con l’autore

    • Facebook URL

    Visualizzazioni

    455

    Sei un Autore?

    Autore

    Unisciti al nostro Progetto!

    Registrati su Storie di Città. Potrai pubblicare e geolocalizzare le tue opere, lasciarle impresse in un luogo, farle leggere a migliaia di lettori e potrai promuovere gratuitamente i tuoi libri!

    Registrati Ora

    STORIEDICITTA.IT

    "Dedicato a tutti coloro che conoscono l'arte dello scrivere, a chi ama viaggiare, ma soprattutto a tutti quelli che hanno sete di leggere!"

    Il Team di Storiedicitta.it

    www.storiedicitta.it

    Storie di Città

    • Condizioni d’uso
    • F.A.Q.
    • Privacy Policy
    • Pubblicità
    • Contattaci

    Link interessanti

    • Bookabook
    • Eppela
    • Amazon Libri
    • Scuola Holden
    • Salute Privata
    Copyright Storie di Città - storiedicitta.it © 2019 Tutti i Diritti Riservati
    • facebook
    • twitter
    • google
    Copy Protected by Chetan's WP-Copyprotect.

    Login

    Register |  Lost your password?