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Sognando sulle strade della marina partenopea

Sognando sulle strade della marina partenopea

Via Francesco Caracciolo
Napoli
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Sognando sulle strade della marina partenopea

visita su Google street view  

Passeggiando per via Caracciolo,

udii le note d’un flauto provenire dall’interno,

fluttuanti, orientaleggianti,

si mescolavano a voci di popolani.

Fu soltanto un prologo arabesco,

presto scoppiò una tarantella,

le parole erano grida di fame d’una folla,

raccolte a mezzogiorno nel mercatino della Torretta,

e seguiva al ritmo un rumore di passi,

quelli di chi chiede un lavoro e non lo trova.

Quel canto voleva spronare gli abitanti,

proletari ammassati e confusi,

a trasformare un’amara realtà,

a trovare per tutti un’organizzazione.

Ma inutile fu l’impegno

ed allora la musica suo malgrado incapace,

lentamente svanì,

persa tra via Tommaso Campanella ed il viale Regina Elena.

Risalivano poi con me per via Posillipo,

tristi figure dimenticate del passato,

Pulcinella instabili e deliranti,

nel pianto d’un violino il significato della decadenza;

sulla strada, vecchi giornali,

cicche spente ed antichi strumenti musicali:

un mondo che non viveva più.

Passò del tempo,

non so quanto interminabile,

e la fortuna si tolse la benda,

facendo irrompere un miracolo liberatore.

Dal benefico volto d’una nuvola,

a ciel sereno scese una pioggia dorata,

intensa, calda,

e si aprì la città per accoglierla,

a guisa d’un immenso girasole.

L’acqua di cielo e mare

divenne un turbine per il vento,

inarrestabile e sconvolgente,

per degli istanti accompagnato da un suono,

alto e struggente di sassofono tenore,

e le mie lacrime di gioia,

vicino al bagno “Donn’Anna”,

furon investite e scaraventate in aria,

le onde in attesa del mio corpo,

senza nemmeno un salvagente giallo e celeste

per tenerlo a galla.

Gridando dalla paura chiusi gli occhi;

quando li riaprii,

qual meraviglia!…

Ero tornato per magia bambino

e andavo verso casa,

solitario e contento,

per la discesa della Madonna di Piedigrotta.

Perfino le facciate dei palazzi,

consunte, morse dagli anni,

sorridevano di compiacimento ai passanti;

involucri delle vetuste abitazioni,

muri scrostati,

uno manteneva due gabbie appese,

i canarini occupanti a sgolarsi,

felici di dedicare un inno al sole.

Svoltai l’angolo,

dentro il piccolo bar

gli spruzzi di vapore della macchina per il caffè,

increduli della mia fanciullezza,

ed osservai il grande orologio della stazione ferroviaria di Mergellina,

privo delle grosse lancette.

Qualcuno le aveva rubate,

latore di un tempo forse inesistente,

e gli aveva tolto il lavoro,

quello che non mancava nella trattoria “Vini e Cucina”,

piena di gente senza pretese,

bicchieri di vino nella penombra del locale,

levati alla calura esterna della tarda mattinata.

Passò vicino alla salumeria “Masturzo”

un camion carico di frutta stupendamente fresca,

a tinte fiammeggianti nelle cassette;

la gente, intanto, si illuminava d’aria,

alcuni con voluminose colazioni,

pane e companatico,

straripanti nelle mani,

uomini lesti ad abbracciarsi dopo aver mangiato.

Odori, colori e sapori,

più intensi che nel Messico,

facevan sentire i loro gai ruggiti;

era possibile mai,

chiedevo a stesso, piccolino,

restar tuffati in una così dolce atmosfera?

No, no, doveva trattarsi d’un sogno!…

Per tutti si schiariva una consapevolezza,

per certi ragazzini anche,

quelli che sgattaiolavano lì,

sulla collina antistante ai binari ferroviari,

vestita di verde e punteggiata di magliette e calzoncini,

abitini che si bagnavano d’erba spensierati.

Ed all’improvviso ecco il sopraggiungere dell’ignoto,

provai un bisogno pazzo di correre,

un fuggire verso il mare del porticciolo,

nel mio animo qualcosa che mutava in straniamento.

La strada si svuotò tremenda intorno a me,

nulla di concreto, di vivo,

l’ingresso del “Tunnel della Laziale” e subito a Piazza Sannazzaro,

dove mi sentii bloccare,

eppur buttavan sempre acqua dalla bocca le due statue,

leoni bianco-sporchi di pietra,

e non potei muover un altro passo.

Un crepitare di mitragliatrici in quel momento,

affinchè capissi che ancor non ero venuto al mondo,

la scena spiegandosi nel 1942 o 43,

a seconda guerra mondiale in atto,

mentre correva un’incursione aerea,

per far parlare a fuoco le armi sulla scogliera,

dagli indigeni chiamata “D’a mitraglia”.

Di colpo, esseri lacerati e feriti,

intorno alla mia ombra vagante non proiettata,

popolaron di un fuggi fuggi le vie,

pennellate e squarci rosso sangue di carni

e grigio-giallastro di macerie;

e di nuovò scappai così,

per miracolo illeso,

fino a rinchiudermi nella biglietteria della funicolare per il Vomero.

Nessuno mi avvisò,

io osai

metter la testa fuori, ancora ignara,

per conoscere un attimo acceso da un boato immenso.

Sì, gli Alleati l’avevano fatta saltare,

la corazzata che finì

in brandelli,

prima carica di munizioni!…

Il popolo martoriato da lamiere volanti,

colpiti con violenza pezzi e forme di vita e di materia,

e sorse il terrore di un temuto Vesuvio bombardato!

Scongiurai tornato dentro,

che il bigliettaio-conducente si vestisse da angelo

e conducesse nonostante tutto la funicolare,

più in su,

non a Villanova ma da una vita nuova,

se non migliore almen più serena,

anche per chi sarebbe venuto al mondo.

L’uomo dal berretto con i fregi mi prese per mano,

non volle compensi,

né tessere da privilegiati,

ed io sentii che potevo essere passeggero di speranza,

laggiù in fondo al tunnel una luce,

lontana ma chiara,

attraente come ipotesi di rinnovamento.

Il verde della vettura con i sedili gialli partì,

il cavo d’acciaio trainante scorreva meglio di una corsa quotidiana,

e tutte le fermate vennero evitate,

fioche fiammelle affacciate nell’oscurità,

soltanto prologhi alla destinazione finale.

Il guidatore ostentava la sicurezza del compito ricevuto,

la mia invocazione ascoltata,

ed i suoi occhi mi confortarono,

quel bagliore distante perdendo tanta distanza.

Svenni ad un tratto causa la vertiginosa velocità,

ma fu in delicata caduta su un sedile,

ed al risveglio

mi ritrovai in via Caracciolo,

invecchiato d’una trentina d’anni dalla mia nascita,

in cammino senz’angoscia vicino Castel Dell’Ovo,

gratificato dallo splendore della giornata riflessa nel mare.

Il locale “Rosso e Nero”e la Facoltà di Economia e Commercio,

sfilarono dinanzi a me,

testimoni dell’attuale continuato nel piacere e nello studio;

le auto garantivano l’ansietà del traffico,

via Serapide, il Pallonetto e Santa Lucia tutta parlavano,

erano storie d’espedienti e contrabbando,

fuorilegge contingenti necessari in pazze sortite,

su motoscafi blu per scongiurare la miseria.

Più consapevole,

non caddi un’altra volta nelle trappole diverse,

vestite d’oro assurdo,

o nella tagliola di un’idilliaca atmosfera irreale,

visitata fra sorrisi ed abbracci a tinte troppo forti,

e nemmeno nella realtà trascorsa d’una guerra,

stridente, trucida, sinistra più d’ogni altra situazione.

Mi specchiai nel vero della strada,

ancora in mezzo ad un passare di cartelli e dimostrazioni;

era la solita Partenope oberata di problemi,

un moto perpetuo in lotta con sé stessa,

e la sua splendida ironica schizofrenia,

ma città viva, prorompente, babelica.

Ed esplose un ordigno di breve intensa felicità,

il mio essere gioì,

giunto di fronte ai regnanti di pietra,

le statue di Palazzo Reale,

vigili esponenti del passato,

presenze costanti nell’incoraggiare l’oggi,

col rievocare le lezioni di ieri,

affinchè il popolo mai abbandonasse la partita,

i corsi lastricati di vicissitudini,

diretti alla volta del domani.

Carlo Giarletta

 

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