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Franco ed io

Franco ed io

Quartiere Monteverde
00152 Roma
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Franco ed io

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Scrivere è un privilegio, che si tratti di una commedia teatrale, di una sceneggiatura per il cinema o di un racconto. Il privilegio consiste nell’avere una buona scusa per uscire dalla propria storia e perdersi in quella degli altri, che, a loro insaputa, diventeranno eroi, carnefici o uomini qualunque, le cui azioni si mischieranno alle abitudini di chi scrive; chi scrive ha la possibilità di vergognarsi senza che nessuno se ne accorga, di piangersi qualcosa di solo suo tra un cumulo di verità e bugie, senza individuarne più il confine. Ogni scusa è buona per uscire di casa e sentenziare sul mondo, tra riti e piccole ossessioni.
Il mio rito, quando cerco di riordinare le idee,è un bar; sarebbe estremamente più seducente un bar di Tarifa, dove servono tè in pregiati bicchieri di cristallo, ma, come dicevo prima, esistono riti e ossessioni: Monteverde è la mia, il mio piccolo mondo protetto.
Sono le 11; passeggio compiacendomi della temperatura estiva, insolita per il mese di Novembre; giungo in un BAR di Donna Olimpia, dove non è stata mai valutata, forse neanche pronunciata, la parola “ristrutturazione”. Il proprietario è un vecchio; anziano si addice ad un uomo con modi garbati, non al signor Franco, che è un vecchio rude di 70 anni. S‘incazza sempre quando mi rivolgo a lui mettendo il “signor” davanti al nome, mi guarda da una lontananza mai troppo benigna, è minaccioso, esige il rispetto dovuto a chi se ne sta appartato, fuori luogo data la sua attività.
Quasi per fargli dispetto mi siedo e, con aria falsamente indaffarata, cerco delle cose nella mia borsa.
Nel suo BAR gli odori sono concentrati, acri; il suo è tra il mosto e il sudore: non si cambia spesso. Bisogna comunque riconoscergli un certo stile, monocromatico: pantaloni di velluto verde bottiglia, maglioncino verde bottiglia su una faccia -no! – quella è più sul giallo itterizia.
Mi porta al tavolo quello che gli ho chiesto; non mi rivolge la parola, emette solo suoni gutturali, come fosse un grosso grizzly.
Porto spesso qualcosa da leggere nell’attesa di qualcuno da osservare e questo lo fa incazzare ancora di più; gli racconto su cosa verterà il mio prossimo scritto, come se mi avesse rivolto una domanda specifica: “È una storia ambientata in questo quartiere; sono a buon punto, eh … mi manca un evento forte …, una buona chiusura di quelle …”.
Lui scrolla la testa e alza il braccio. Mi vuole colpire? No! Mi manda affanculo , ma a me non importa; mi piace questo postaccio, mi genera ispirazione. Osservo e aspetto, aspetto come un gatto che sta per saltare sul letto.
Ad interrompere i miei tentativi, inutili, di familiarizzare con il signor Franco giunge Mario, un habitué, anche lui in abiti casual: camicia a quadri color birra e due macchie di sugo a sinistra, tra i bottoni e la tasca.
“Ah Mariooooo, che dichi?”
Mario si limita a mostrargli la suola della scarpa destra, spalmata di cacca di cane: “Che ce l’hai ‘n tovajolo?”.
“Vedi d’annà fora a pulitte su le foje!” replica Franco.
Mario esegue; poi rientra e si avvicina a Franco: “Ah Franco, ma chi è sta moretta? La ’ncrocio spesso per quartiere.”
“E chi è? È una che nun cià gnente de mejo da fà la matina; pare che scrive …”.
“E che scrive?”
“Ma che vòi che scrive? Nu’ la vedi? È così magra che co ‘e scapole ce se potrebbe affettà er pane.”
A me non importa che questo vecchiaccio mi detesti; mi ricorda il fratello grande di mio padre, irrimediabilmente burbero. Lo guardo mangiare una mela: mastica con forza, emettendo dei suoni; mentre mangia, gli si muovono le orecchie; mangia e continua a parlare con Mario che gli piace più di me.
Mario mi guarda; ha la faccia buona, lui; mi guarda come ti guardano certi cani. Attraverso il suo sguardo riesco a vedere la mia faccia, ma non quella che ho addosso; forse quella che avevo da bambina quando, certe volte, ero triste e non sapevo perché.
Parlano; Mario annuisce lento; i loro pezzettini di conversazione mi entrano in testa. Non mi sembra possibile per quei due, eppure stanno parlando dell’inferno.
Vorrei intervenire, perché sull’inferno avrei molto da dire: l’inferno è cosa terrena; te lo costruisci mattone per mattone; è un processo graduale; ognuno si costruisce il proprio dando la colpa agli altri, che, a loro volta, hanno il loro.
Franco si accorge che partecipo, seppure in modo silenzioso, al loro discorso; per intimorirmi sbatte la mano sul bancone di marmo bianco; questo gesto fa cadere a terra una cartellina blu con la scritta “Casa di cura Salvator Mundi”; nella caduta fuoriesce un’ecografia.
Lo sguardo di Franco è lucido, feroce; gli esce un colpo di tosse mentre mi urla addosso: “Ragazzaccia della malora, smettila di guardarmi!”, ma le parole gli si strozzano in gola; tossisce forte, tanto da doversi tenere il petto.
Non pensa più a me né a Mario; sembra stia soffocando. Neanch’io penso più a lui, penso alla cartellina blu, la fisso ancora per qualche istante prima di alzarmi e raccoglierla. La apro e guardo l’ecografia, la guardo come se fosse la cartella clinica di uno di famiglia: ci sono dei grandi buchi neri.
Mi si velano gli occhi. Lui lo nota; mi caccerebbe a legnate se solo ne avesse la forza.
La sua mano sinistra preme sul bancone; la smorfia delle sue labbra ne indica lo sforzo; appoggia il suo grosso braccio sulla spalla di Mario per pochi passi, sino a sedersi al tavolo davanti al bancone; tocca con piccoli gesti lo stesso lembo della tovaglia a quadretti rossi.
Mario ed io contempliamo questo gesto in silenzio.
Franco fa cenno a Mario di allontanarsi.
Istintivamente mi siedo accanto a lui.
“Che faccia tosta! Chi te cià chiamato??
“ Io …”
“Io, io …; con i tuoi <<signore>> del cazzo … Ma che fai? Ce piagni? Nun te commove! Pe oggi io nun moro e tu ‘n ciavrai ‘a chiusura forte ch’annavi cercanno p’er racconto tuo

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  1. Ivana
    Originalità

    Coinvolgimento

    Stile

    Mi piace tantissimo , questa che c’ha le scapole pe taia er pane e’nata per scrivere , ha talento e fantasia , ma purtroppo in tutto ci vuole sempre un po’ di fortuna

    6 anni fa
  2. Francesco
    Originalità

    Coinvolgimento

    Stile

    Bello, romano. Fossi in te io ci lavorerei…potrebbe essere una bella scena iniziale per un racconto lungo o per una sceneggiatura. Dico sul serio…
    Per altro conosco quelle zone e forse pure quel bar. Tutto molto ben reso.

    5 anni fa

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