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Cynthia sul marciapiede

Cynthia sul marciapiede

Piazza Enrico Bottini
20131 Milano
Sociale Racconti
1 Review
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Cynthia sul marciapiede

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Cynthia aveva la bellezza di un frutto troppo maturo.
Di quelli che, senza motivazione apparente, vengono pescati per ultimi dal cesto sul tavolo.
Rimangono lì inosservati. L’occhio umano non si accorge della lenta trasformazione cui vanno incontro. Divengono più morbidi, succosi, raggiungono il massimo di una dolcezza che nessuno assaggerà. Poi un giorno vengon gettati, perché sul corpo ormai sfiorito appare qualche ammaccatura.
Buchi.
Marcio.
Cynthia, 21 anni, la schiena appoggiata ad un lampione accanto alla fermata della metro.
Milano Lambrate.
Ora di pranzo.
Fiumi di persone si sciacquano via intorno a lei all’arrivo dei mezzi.
Dita lunghe e sottili, color mogano, torturano un bicchierino di carta vuoto. La M gialla su sfondo rosso si scolorisce sempre di più.
 
Mi imbattei in Cynthia verso metà febbraio.
Stavo camminando con il passo nevrotico ed impersonale che mi contagia sempre quando trascorro più di qualche giorno a Milano. Assorta nel concerto dei miei soliti pensieri inutili, carica di borse della spesa, innervosita per il fatto di non essermi portata le cuffie per la musica. Mi sarebbe toccato vincere la noia di star sola con me stessa in un altro modo.
Il guardarmi intorno non mi interessava particolarmente. Quella piazza grigia e sporca la conoscevo come le mie tasche. I miei occhi erano ormai saturi di quel fascino urbano che tanto, invece, mi aveva elettrizzato le prime settimane dopo il trasloco. Avevo smesso senza nemmeno accorgermene di deliziarmi per la varietà umana che vi si incontrava.
Eppure quell’ambiente era stato così salvifico per me all’inizio!
Il primo anno di università lo avevo trascorso disgustandomi della Milano con cui entravo in contatto tramite i miei compagni di corso. La Milano stereotipata dei locali pseudo chic, degli aperitivi sulle terrazze, dei negozi del centro, delle Margherite a 9 euro, delle settimane della moda ormai più frequenti dei raffreddori d’inverno.
Mi sentivo un pesce fuor d’acqua in quella Milano della finzione e del benessere barocco.
Come rimpiangevo la mia provincialissima, banale e noiosa Forlì!
Improvvisamente la convinzione con cui mi ero allontanata da quello che mi sembrava un mondo chiuso e monotono mi crollava beffarda davanti agli occhi. Io ERO quella provincialotta ingenua e senza pretese. Io ERO quella che risparmiava rinunciando a una pizza il sabato sera senza vergognarsi di dirlo. Io ERO quella a cui andare a ballare piace solo a piedi nudi sulla spiaggia, magari con una birra del discount e non con un goccio di Belvedere pagato quindici euro.
Io ero così, come la città che mi aveva cresciuta…forse semplice, forse noiosa, secondo il punto di vista di qualcuno… ma vera!
Io ero vera. Credevo nell’uomo e nell’interazione con esso. Non nelle cose. Non nei locali scintillanti per allodole nei quali, oltre che il vestito, si sceglie una maschera da indossare.
Credevo nelle piccole gioie semplici.
Nel camminare scalza nel fango e sentirne la consistenza tra le dita.
Gioia primordiale.
Nella chiacchiera con una coppia di anziani sul tram 23, nella luce di un ordinario e bellissimo mattino.
Gioia curiosa.
Nel racconto di qualche coccio di vita di Joseph, il gigante buono nigeriano.
Gioia amara.
Nella sigaretta sfumacchiata sul mio piccolo balcone, condividendo la fatica della giornata con una coinquilina matta quanto me.
Gioia rasserenante.
Nell’invito a bere un tè persiano da una finestra all’altra.
Gioia di una casa di ringhiera.
In questo io credevo.
Però seguivo colpevole l’onda della novità. Mi lasciavo convincere da discussioni letterarie volte all’ostentazione di una cultura accademica e quanto mai approssimativa.
Mi adeguavo all’etichetta che mi era stata affibbiata da uno sguardo superficiale, cercando di scoprire chi ero aderendo allo stereotipo che gli altri vedevano in me. Forse mi si avvicinava, ma non mi corrispondeva. Nessun archetipo è in grado di rappresentare fedelmente la singolarità caratteristica di ogni uomo.
Siamo fiocchi di neve resistenti al calore.
Il giorno in cui incontrai Cynthia era probabilmente uno dei soliti giorni borbottanti che ormai caratterizzavano la mia quotidianità.
Ero riuscita, inizialmente, a ricavarmi attimi di serenità, dopo il trasferimento nella casa di Piazza Bottini. Rari sprazzi di luce , irrazionali e caotici, come le tenebre rabbiose che illuminavano. Ora però, tutto aveva ripreso la patina dell’abitudine.
La verità è che alla base del mio disagio, del mio costante e fedele criticismo, dei pianti antichi ed isterici fatti sui libri, delle ore alienate da un telefonino, per non pensare, c’era , e c’è tutt’ora, il fatto che io, il mio posto nel mondo, non so qual è.
Sono inutili i miei hobby passeggeri. Iniziati nel tentativo di liberare un bisogno di espressione disperato e abbandonati perché inadatti.
La stessa scrittura! Mi ostino a voler farla passare per una passione come un’altra o , che so, una sorta di inclinazione naturale – forse qualcosa in cui posso spiccare anche io c’è.
Ma se la scrittura fosse per me ‘’normale’’, allora racconterei storie.
Ed invece, sinusoidalmente prevedibile , inizio racconti che lascio a metà. Perché, in fin dei conti, non mi interessa nulla di Aria e delle sue scarpe da ginnastica, di Nick e Moka che piangono nella tenda, dei volantini di Luca , di Arlind che impasta il pane e della stessa Cynthia, bella come un frutto troppo maturo.
La mia mente scoppietta di personaggi che spiccano per qualche apparentemente casuale caratteristica: un paio di begli occhi, idee politiche bislacche, una cicatrice, un cappello blu. Ma non hanno una fine.  Personaggi nascono senza diritto a una conclusione.
Nasci perché il tuo creatore in quel momento ha bisogno di farti uscire dalla sua mente troppo affollata.
Nasci perché inizialmente emani la luce di quel dettaglio. Proprio QUEL dettaglio che serviva a sbloccare un pezzettino del subconscio di Creatore.
Meraviglioso! Nick , il bambino dalle mani sporche di tempera e marmellata! E’ lui il nodo della mia storia, è lui che impersona il mio bisogno di bosco e di amore.
E così Nick viene presentato al mondo, con la calligrafia ubriaca e fremente di Creatore, in un orgasmo di creatività che altro non è che una sega frettolosa.
Creatore, quattordicenne arrapato dello scrivere.
Mentre inizia a delineare Nick, il nostro povero Creatore è in buona fede. Crede davvero di esser giunto al punto di svolta che cercava.
Ma si sa, ben pochi sono gli orgasmi che effettivamente generano vita.
Nick. Ragazzetto magro, mani di tempera e marmellata, occhi di bosco, fine.
Creatore non ha mai avuto in mente una conclusione per la storia di Nick.
Così, il nostro ragazzetto in questione, con i suoi piccoli dettagli, con i significati che si porta appresso, svanisce nel nulla, perché Creatore si dimentica. Ha già spostato la sua volatile attenzione su qualche altro nuovo, ignaro , personaggio.
Di Nick rimane solo qualche riga, inghiottita da un mare di altri scarabocchi vestigiali, di pagine piene di personaggi abbandonati. Il taccuino di Creatore diviene un cimitero di carta e inchiostro.
Io sono quel Creatore smemorato. Una volta che i personaggi a cui do vita hanno adempiuto al loro compito liberatorio di un pensiero, ecco che mi lascio prendere dalla scia di quel pensiero. Ecco che la mia storia smette di essere tale e si trasforma in flusso di coscienza incontrollato. Mi analizzo e rianalizzo, leggo e rileggo tra le righe delle mie sensazioni, cerco parole che esprimano la mia confusione di concetti ma non le trovo. Come invidio il poeta palombaro che riemerge con la parola.
Provo una forte insofferenza per questa mia limitatezza espressiva. Forse anche per questo tento goffamente di servirmi dei miei personaggi, destinati a essere simbolo e non storia.
Ovviamente l’ho rifatto di nuovo.
Ero partita raccontando della bella Cynthia e sono finita saltellando di digressione in digressione a sviscerare la mia incapacità di concludere un racconto. Di fatto facendo esattamente ciò di cui mi lamentavo.
Ritorniamo a noi.
Perdonate, cari lettori inesistenti, questa narratrice caotica e inesperta.
Mi accorsi di quella ragazza dal cappotto color panna seduta in terra perché un singhiozzo giunse al mio orecchio, riportandomi velocemente alla realtà e distogliendomi dai miei pensieri malcontenti.
Mi voltai incuriosita e la vidi.
Piangeva di un pianto discreto e quasi silenzioso, ma le lacrime che le percorrevano il viso gridavano più di un qualsiasi suono.
Scendevano delicate dagli occhi color carbone e le attraversavano le guance soffermandosi, ogni tanto , sulle numerose piccole cicatrici. Carezzandole.
Teneva lo sguardo basso, concentrata su quel bicchierino di carta dalla M gialla, e sulle sue mani giovani che lo spiegazzavano nervosamente.
Non mi fermai e continuai per la mia strada con qualche passo esitante.
Maledetta ipocrita, cos’hai da esitare? Non pensare neanche di non fermarti! Come ti sei fatta ridurre da questa città’?! Rivoltati immediatamente.
Scacciai via dalla mente l’abitudine e forse anche la timidezza che mi avevan fatto pensare di continuare indifferente e mi avvicinai.
– Va tutto bene?
Che domanda sciocca.
Lei trasalì e posò su di me uno sguardo che interpretai come una commistione di stupore e inespressività.
Ossimorico , lo so.
Mentre si passava furtivamente una mano sulle guance mi sedetti accanto a lei.
Non parlava bene l’italiano, mi chiese se conoscessi l’inglese e annuii.
Veniva dalla Nigeria.
Cynthia aveva la mia età e parlava il suo inglese esotico con voce sottile, resa calda dalla ritmicità corposa che l’accento nigeriano dà alla lingua.
Passammo circa mezz’ora a scambiarci sorrisi e sguardi esitanti. Occhi di terra in occhi di oceano.
Mi disse che aveva freddo. Milano non è né città calda né calorosa. Gli animi più deboli corrono il rischio di venir raggelati molto facilmente.
Le dissi di aspettarmi, corsi in casa e preparai una borsa con qualche vestito che non usavo spesso. Un maglione grigio che mi aveva salvato dal freddo di un febbraio berlinese, la mia sciarpa blu, forse qualche felpa e delle calze.
Tornai al lampione e le diedi la borsa, insieme al numero e all’indirizzo della Caritas più vicina che conoscevo. Speravo che loro avrebbero potuto darle il lavoro che con voce flebile aveva chiesto a me.
La mia memoria fa fatica a ricordare come si concluse quell’incontro. Proseguii per la mia strada. Le promisi che sarei tornata a trovarla nei giorni successivi se fosse stata ancora lì. La cercai, ma non la vidi mai più.
Cynthia, 22 anni.
Mi chiedo dove si trovi ora. Forse ha trovato l’amore, forse un’amica. Forse un lavoro.
O forse ancora piange contro qualche lampione, col suo bicchierino di carta fra le dita.
Io, Rita, 22 anni, sono andata avanti nelle mie giornate nevrotiche ed egoistiche di ragazzina in lotta con se stessa.
Assorbita nelle proprie illusioni, nelle proprie lamentele e tristezze. Lo sguardo sempre più rivolto verso l’interno. Sono passati i mesi, gli esami. Sono passati amori che davano l’illusione di aver trovato il proprio posto, amicizie che si sono rivelate estremamente vere ed altre, banalmente false.
Sono passate persone , senza che nessuna sia mai davvero rimasta.
Sono passata sopra la quotidianità così come le dita passano sopra le pagine di una rivista frivola.
Quello che leggi non suscita in te alcun interesse, provi addirittura un certo disgusto. Ma per inerzia continui a sfogliare. Leggi qualche articolo. Per antitesi ti suscita qualcosa. Arrivi alla fine, ma non rimane nulla.
Io, Rita, 22 anni. Ragazzina in fondo fortunata, assuefatta dalla vita serena che ha sempre vissuto, concentrata su ciò che non ha. E sull’incapacità di dare un nome a ciò che le manca.
Rita, 22 anni, dall’aspetto di un frutto ancora troppo acerbo.
Cynthia, 22 anni, bellezza di un frutto troppo maturo.

 

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  1. nantonella
    Originalità

    Coinvolgimento

    Stile

    E se qualcuno dei personaggi adombrati saltasse fuori e interagisse ? Bel racconto anche se un pò melanconico

    5 anni fa

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