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All’assalto di una notte di mezza estate

All’assalto di una notte di mezza estate

Via Pellegrino Rossi
Milano
Diari e Memorie Racconti
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All’assalto di una notte di mezza estate

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“La democrazia sono due lupi e un agnello che mettono ai voti cosa mangiare a colazione. La libertà è l’agnello ben armato che contesta il voto”
Benjamin Franklin
 
 
Una sera, in un gruppetto, decidemmo di muoverci verso Milano. Una volta lì ci fermammo in un locale popolare che conosceva Diego. Brindammo quasi rompendo i bicchieri, come si conveniva a un gruppo di pazzi scatenati che aveva già bevuto sin troppo vino a cena.
A un certo punto incrociai lo sguardo con quello di un ragazzo che era seduto da solo, nell’angolo meno in vista del pub. Giusto il tempo di volgere gli occhi altrove, fingendo indifferenza. Ma quella frazione di secondo mi bastò per avvertire una sensazione strana, un’inquietudine, come per due animali che si fiutano. Era come se la sua solitudine mi riportasse alla realtà. La mia realtà. Al di là della meravigliosa compagnia in cui stavo vivendo, in fondo io ero pur sempre un cane randagio. Proprio come forse lo era lui.
Cominciai a distrarmi dalla conversazione del gruppo, e continuando a bere guardavo verso lo sconosciuto. Fisicamente mi somigliava. Stava leggendo un giornale e ogni tanto annuiva, accennando un sorrisetto maligno, quasi un commento a ciò che leggeva.
Quando arrotolò le maniche della camicia vidi il tatuaggio. Un fulmine nero, cerchiato, su uno sfondo rosso. Quel tatuaggio non poteva che essere un simbolo anarchico, o quantomeno riconducibile all’autonomia sociale diffusa.
In quello stesso momento mi guardò e io ebbi come la sensazione di esser stato osservato a mia volta, fin dal momento in cui ero entrato nel locale.
Dopo un po’ i miei amici cominciarono ad alzarsi dal tavolo: «Ohi, andiamo Andrea?».
Ci pensai un attimo, poi dissi: «Andate voi. Io mi fermo un attimo qui, ché ho visto un mio amico lì seduto ed è un botto di tempo che non lo vedevo…».
«Ah ok…» rispose Philip «Dai allora ci vediamo dopo, o al massimo domattina».
Li salutai mentre uscivano dal locale, sospirai e mi diressi al tavolo dello sconosciuto. Imprecando mentalmente, perché avrei preferito con tutto me stesso di trovare un complice di sesso femminile, invece che lui. Ma non ci potevo far nulla.
Mentre mi avvicinavo al tavolo lui annuiva quasi beffardo, come se intuisse quello che stavo pensando.
«E allora, come va?» gli buttai lì.
Alzò le spalle ironicamente, mi rispose con un’altra domanda: «Tu non sei di queste parti, vero?».
«E di dove sarei invece?» ribattei.
«Non è che ci sono molte persone, in questo quartiere, che se ne vanno in giro con un libro di Bakunin che gli spunta dalla giacca» rispose.
Mi guardai le tasche del giubbotto: da una delle due spuntava un pezzo del titolo di un saggio anarchico, che lui evidentemente aveva associato al suo autore.
«L’ho notato sin dal momento in cui siete entrati» aggiunse.
Istintivamente spinsi il libro in fondo alla tasca. Il tipo parlava troppo, per i miei gusti. Però era uno sveglio e questo bastava.
Chiese al barista due birre, che arrivarono praticamente subito.
«A cosa brindiamo?» mi incalzò.
«Al fulmine cerchiato che incendierà questo merdaio» risposi.
Lui sorrise, guardandosi il tatuaggio sull’avambraccio, spinse il suo bicchiere contro il mio: «Allora brindo alla vista buona, che a quanto vedo non manca nemmeno a te».
«E tu di dove saresti?» gli domandai.
«Non ha nessuna importanza» ribatté secco.
«Già, “nostra patria è il mondo intero”…» feci io, citando con una punta di sarcasmo un vecchio detto anarchico.
Lui fece un gesto di taglio con la mano: «Per quanto mi riguarda la patria e il mondo possono anche andare a fuoco. Gli unici luoghi che mi interessano sono quelli dove ci si può togliere qualche sassolino dalle scarpe…».
Poteva essere un nichilista, forse. Il nichilismo è una corrente che ultimamente stava riacquistando un certo vigore all’interno del movimento anarchico: non crede nella rivoluzione e quasi disprezza le masse popolari, pone invece l’accento sull’azione di rivolta individuale.
Stavo per dirgli che secondo me era anche importante riappropriarsi tutti insieme, a spinta, dei diritti che ci toglievano, quando improvvisamente nel locale entrarono due poliziotti.
Io e il tipo ci guardammo sospettosamente negli occhi. Probabilmente anche lui in quel momento ebbe il mio stesso pensiero: “forse sono seduto al tavolo con uno sbirro in borghese?”.
Nel frattempo i poliziotti si avvicinarono al bancone e ordinarono da bere.    La breve tensione si sciolse. «Proprio bei posti qui, eh…?» dissi. Lui accennò un sorriso.
Una volta finita la sua birra prese un casco da terra e si alzò di scatto: «Andiamo a fare due passi?». Mi allungò una banconota da cinquanta euro: «Io esco fuori a fumare una sigaretta. Paga tu per favore, usa questi, poi mi dai il resto».
Andai alla cassa del bancone. Mentre attendevo il barista guardai i soldi che mi aveva dato, ed ebbi un attimo di incertezza. E al momento di pagare, continuando a guardare la banconota mi bloccai. Il barista mi disse: «Guarda che non c’è problema se vuoi cambiare le cinquanta euro».
Ma io avevo già preso le monete dalla tasca: «Non c’è problema, va bene così».
Uscii dal locale imprecando. Quel grandissimo figlio di puttana. Che senso aveva giocarmi un colpo simile? Che fosse d’accordo coi poliziotti per incastrarmi nel momento in cui avrei pagato coi soldi falsi?
Ero sicuro che fosse sparito. Invece era lì, davanti a me! Con la sigaretta in bocca. Lo presi per il colletto del giubbotto e gli ficcai i suoi soldi in tasca: «Questi tienteli tu. E adesso spiegami a che cazzo di gioco stai giocando».
Lui cercò di divincolarsi, ma non mostrava paura né particolare agitazione: «E calma dai… Se non ti pisciavi addosso davanti al barista, a quest’ora potevamo dividere a metà il resto che ti dava, no?».
Lasciai stare il suo dannato colletto: «Senti un po’, pagliaccio: se devo fare qualcosa, lo voglio decidere io, come, quando e con chi».
Lui sbuffò, facendo un gesto come a spazzare via l’aria. Aveva qualcosa che non gli funzionava nella testa, senza dubbio. Ma volevo vederci chiaro: «Toglimi una curiosità: perché proprio quel tatuaggio?».
Lui sputò per terra: «Perché in galera il tempo non passa mai».
«Tutto qui?» chiesi con una punta d’ironia.
«Cosa vorresti sentirti dire? Che sono comunista come te, oppure anarchico, insurrezionalista, nichilista?» rispose.
Pensai a quanto fosse difficile il mio rapporto con le definizioni. Io ero sempre stato uno di quelli difficili da incasellare. Sembravo destinato a essere additato come anarchico dai comunisti e come comunista dagli anarchici. Forse ero entrambe le cose. O forse non ero né l’uno né l’altro: «Io in realtà non ho mai sentito di potermi e volermi definire in nessun modo…non sono nessuno, solamente me stesso. Prendo solo quel che ritengo utile dai pensatori del passato, o del presente, ma anche dalla vecchietta al mercato piuttosto che dal contadino… E cerco di rimanere un po’ aperto, anche a costo di rimettere in discussione le cosiddette certezze».
«Bravo» disse lui mimando un applauso «ma a me in questo momento di popoli sfruttati e di rivoluzioni non me ne frega un cazzo. La mia rivoluzione la faccio da solo, tutti i giorni, cercando di colpire gli sfruttatori in quel che hanno di più caro: i soldi. Visto che questa è l’unica lingua che sembrano capire…».
«Beh, mi sembra che hai già risolto tutto allora…» borbottai.
Lui continuò: «E comunque non credere: ho anch’io sulle spalle i miei bravi anni di militanza, volantinaggi al gelo, assemblee noiose, scioperi, cortei, bastonate prese e restituite».
Mi si avvicinò e attaccò a parlare a bassa voce: «Ascolta: qui non molto lontano c’è una sede di neofascisti. A quelli come te dovrebbe interessare, no?».
«Eh beh, secondo te?» feci io.
«Comunque» proseguì «la storia è questa: qui fanno delle specie di ronde nei mercati, insieme ai leghisti. In qualche caso sono anche riusciti a spaccare i denti ad alcuni immigrati che chiedevano la carità».
Mi sforzai di nascondere la rabbia che mi stava salendo: «Chissà perché mi sembra un dejà vu…».
«Il dejà vu è che cercano di mettere la povera gente contro il falso problema degli immigrati» disse lui «Quello è il dejà vu. Hanno sempre fatto così, per sviare l’attenzione dai veri responsabili delle condizioni di tutti».
«Va bene amico» risposi «ma non devi fare la lezioncina a me. Io la conosco già a memoria. Piuttosto cosa proponi di fare?»
Lui sorrise. «Stasera facciamo visita alla sede delle merde».
Non dissi nulla.
Lui riprese: «Oh, alla fine colpiamo solo una cazzo di vetrina… Mica delle persone come fanno loro! Gli restituiamo una minima parte della loro violenza. È un’azione simbolica, però al tempo stesso gli procuriamo un danno economico. Nelle loro teste rasate bacate deve scattare il pensiero: “Ci conviene continuare a fare le ronde nei mercati se poi quei bastardi ci fanno le vetrine della sede?”».
«E poi cosa diranno i giornali domani?» chiesi.
«La stessa cosa che diranno i tuoi amici dei centri sociali» rispose «Si dissoceranno e chiederanno la ghigliottina per noi».
«E via con il carosello massmediatico…» dissi io amaramente.
«Però c’è un piccolo particolare» mi interruppe lui «che a me non me ne fotte un cazzo di avere una massa di pecoroni che condivide la nostra azione su facebook o che la condanna. A me interessa parlare a quei pochi che vogliono battersi, cazzo».
«E va bene, porca puttana. Andiamo» conclusi.
Mi indicò un motorino parcheggiato dall’altra parte della strada: «Prendiamo il mio ferro ché ti illustro un po’ la situazione».
«Ci sono telecamere davanti al posto?» gli chiesi.
«Ora ti faccio vedere tutto…» rispose mentre toglieva lo scooter dal cavalletto e mi passava un casco «non so come funziona dalle vostre parti, ma non c’è bisogno che ti dica che i fascisti sono amici degli sbirri, vero?»
Il motorino doveva avere la marmitta truccata. Viaggiava che era un piacere, dentro alla notte perugina. A un certo punto rallentò fino a fermarsi. Rimanemmo in sella col motore acceso.
Da lontano vidi quella che doveva essere la sede dei neofascisti e sentii una piccola fitta allo stomaco. La osservammo a distanza di sicurezza, coi caschi in testa. Poi, sempre senza dire nulla, lui ripartì. Infilò una serie di laterali, fino a fermarsi davanti a un parchetto.
Mi fece segno di seguirlo a piedi. Arrivati al punto meno illuminato del parco, si mise a frugare tra cespugli e rovi. Ne uscì con un sacchetto in mano: dentro c’erano passamontagna, guanti, del nastro adesivo nero, una mazzetta da cantiere e una bomboletta di vernice spray.
Disse solo: «Due minuti va bene? Due minuti e vaffanculo. Facciamo quello che dobbiamo fare e basta. Nessuno deve farsi male o rimetterci stasera. Due minuti e siamo di nuovo sopra a quel cazzo di motorino, punto».
Tornammo verso lo scooter, lui modificò un paio di numeri della targa con il nastro adesivo. Poi ci infilammo passamontagna e caschi.
Poco dopo eravamo di nuovo davanti a questa benedetta sede dei fasci. Scendemmo dal motorino. Pensai: “Stiamo arrivando merde”, ma proprio in quel momento passò una macchina, veloce. Poi un’altra decisamente più lenta, ma fortunatamente non sembrò vederci. E subito dopo un’altra ancora, questa volta della polizia cazzo, anzi no, man mano che si avvicinava diventava un taxi. Maledette paranoie. La mia immaginazione si muoveva più rapida della realtà. Avevo il cuore che mi batteva forte, adrenalina che scorreva a fiotti nel sangue.
Alla fine la tensione era incontenibile, partimmo comunque, fregandocene dal via vai generale. Non c’era bisogno di dirsi nulla. Bastò un rapido scambio di occhiate tra la stoffa nera dei passamontagna. E adesso era la realtà a muoversi più veloce della mia immaginazione e della mia tendenza a volerla controllare.
Ero (forse) io quello che si dirigeva in modo deciso verso uno dei muri esterni della sede. Ero (forse) io quello che vergava un’enorme scritta con la bomboletta nera: “BASTA PESTAGGI CONTRO GLI IMMIGRATI”. Ero (forse) io quello che la firmava con il simbolo del lampo cerchiato. Lo stesso del suo tatuaggio.
Era (forse) lui quello che nel frattempo si scagliava con la mazza contro la vetrina. Bum! Bum! Bum! Colpi su colpi ma ‘sta cazzo di vetrina non voleva saperne di cedere. S’incrinava e basta. In compenso il rumore era così forte che credo si potesse sentire anche a centinaia di metri di distanza. Pensai che qualcuno stesse già chiamando la polizia.
«Oh piantali lì! Andiamo!» esclamai.
Nessuna risposta. Il tipo continuava la sua opera di devastazione come se fosse una questione personale.
«Cristo, andiamo!» esclamai ancora più forte, con lo stomaco completamente contratto.
Niente. Sembrava sordo ai miei richiami. Bum! Bum! Bum!
All’improvviso un rumore di sirena in lontananza. «Oh Giamburrasca adesso hai rotto il cazzo! Leviamoci di qui, subito!!» gli urlai prendendolo per un braccio.
Lui mi spinse via: «Oh, non fare il pompiere!».
“Il tipo è uno poco sportivo” pensai. Si scagliò di nuovo contro la vetrina. Bum! Bum! Bum! Colpi sempre più forti, più disperati.
Si girò verso di me con un’espressione sarcastica: «Che c’hai paura, compagno? Siete così cagasotto dalle vostre parti?».
Le sirene delle volanti sembravano sempre più vicine. Alla fine la vetrina cedette, si produsse uno squarcio abbastanza grosso.
«Ok, andiamo!» mi gridò finalmente.
Schizzammo sullo scooter, il cuore a campana, il sacchetto con dentro la mazzetta tra i nostri due corpi.
Il colpo di genio fu quello di infilare delle stradine. Lì dentro le volanti che già ci cercavano non potevano passare: erano troppo strette. Peccato solo per i passanti che dovevano scansarsi terrorizzati o appiattirsi contro i muri. Ma stavamo scappando dalla polizia, non potevamo chiedere permesso o sventolare un fazzoletto bianco.
A un certo punto lo scooter sbandò sopra del pavé sconnesso. In quegli attimi che mi sembrarono eterni vidi la scena al rallentatore. E finiva con due idioti sdraiati per terra e un motorino distrutto.
E invece niente di tutto questo: il mio complice riuscì a mantenere miracolosamente l’equilibrio e scodinzolammo via, liberi e leggeri. Era bravo a guidare. Si stava facendo perdonare.
Ma proprio quando pensavo che fosse finalmente finita, eccola lì: in fondo a una strettoia che conduceva ad una strada più grande, un’auto dei carabinieri, a bloccarci la strada. Il lampeggiante era acceso.
Cinquanta metri: “Siamo fatti” pensai “adesso ci portano in caserma e ci massacrano di botte. E vissero tutti felici e contenti”.
Quaranta metri: uno dei due carabinieri usciva dall’auto.
Trenta metri: addirittura estraeva la pistola minacciando di sparare in aria!
Venti metri: “questo eroe della domenica probabilmente non vede l’ora di raccontare al bar come ha fermato una coppia di motociclisti indisciplinati” pensai mentre sudavo freddo.
Dieci metri: con una manovra a dir poco mozzafiato il mio complice sgusciava improvvisamente verso una laterale, lasciando al corvo nero la polvere in faccia. Ciao ciao.
Poco dopo abbandonammo il motorino, ormai posseduto dal demonio. Ci liberammo di caschi, passamontagna e mazzetta, e proseguimmo a piedi.
Pian piano la tensione lasciò il posto a una specie di euforia elettrizzante. Insieme alla sensazione di averla scampata per un pelo. Avevo voglia di urlare, di mordere l’aria, il buio e la vita stessa. Mi sentivo libero.
Mi venne in mente la frase che aveva scritto un compagno: “Passare con gioia all’offensiva, costruire amicizie profonde, esporle al rischio rafforzandole sempre di più. Solo così ci potremo armare del più forte dei coraggi, il coraggio cieco e sordo e illimitato che nasce dall’amore. E per l’amore si realizza”.
Io non alzo le mani su chi la pensa in modo diverso da me. Combatto, anche con la forza se necessario, chi mi vuole sottomettere e affama, imprigiona o uccide i miei simili: il che è ben diverso.
Ero perso in questi pensieri quando il rumore di una brusca frenata mi riportò di colpo al momento presente. Ci mettemmo a correre col cuore in gola.
Per un attimo mi balenò in testa l’immagine del mio sconosciuto compagno davanti a una ghigliottina , col suo ghigno beffardo, mentre sputava in faccia al parruccone bianco stile Settecento che lo aveva condannato a morte.
Mentre correvamo a perdifiato sentii delle urla dietro di noi: «Fermi! Carabinieri!».
Smettemmo di correre: ormai era inutile. Erano ovunque. Mi girai e vidi cinque o sei uomini in divisa che correvano verso di noi. Sembrava che cercassero quasi di scavalcarsi a vicenda, tanto che si urlavano addosso: «Calma! Calma!!».
E un secondo dopo, improvvisamente, mi trovavo sdraiato nel mio letto. Sudato e incredulo. L’orologio segnava le sette e cinquanta.
Mi guardai intorno: Daniela non c’era. Il piccolo Guccio invece stava ancora dormendo. Nemmeno una bastonata l’avrebbe svegliato. Alberto era già sveglio, nel suo letto. Stava scrivendo col suo computer portatile.
Poco dopo nella stanza entrò Daniela, accendendo la luce. Vide che avevo gli occhi aperti, sorrise: «È ora di alzarsi, ragazzi!».
«Oggi non voglio andare a scuola, mamma!» esclamai rigirandomi nel letto.
Quando vidi Maya mi venne naturale parlarle del mio sogno. Volevo conoscere un’interpretazione diversa dalla mia. Lei ci pensò un attimo, poi mi disse: «Quel ragazzo sconosciuto, in realtà eri tu. Il tuo specchio, una parte di te».
E quel tatuaggio – il lampo nero dentro a un cerchio rosso – poi l’ho ritrovato. Oggi si trova sul mio braccio.

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    5 anni fa

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    Andrea

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