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Il tempo perduto

Il tempo perduto

Via Giuseppe Garibaldi
98122 Messina
Gialli e Thriller Racconti
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Il tempo perduto

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1° Capitolo

– Alzati, sono le otto, devi andare a lavorare.
– Odiavo mia moglie. Non in quanto tale, ma perché tutte le mattine mi svegliava con le stesse parole.
Sono impiegato in banca, fortunatamente vicino casa mia, diversamente arriverei in ritardo tutte le mattine.
A quarant’anni sono stanco della solita vita: appena mi alzo mi sbarbo di corsa, vado in cucina, faccio colazione sempre correndo, scambio due parole con la mia consorte e via, al lavoro.
Qualcuno a detto che il lavoro nobilita l’uomo, e io aggiungo: e lo rende simile alle bestie. Con tutto il rispetto per loro.
Dopo una mattinata di lavoro, all’una e trenta, faccio un salto a casa, mangio e ritorno al mio posto.
In genere alle diciassette e trenta, torno a casa. Guardo la televisione, faccio le solite chiacchiere con mia moglie, ceniamo alle venti, e quando vado a letto leggo qualche pagina di un quotidiano, infine spengo la luce e l’indomani ricomincia tutto daccapo. Sempre uguale. Non cambia mai niente, al massimo la novità che può capitarmi è quella di inciampare appena esco di casa.
Vorrei fare qualcosa di diverso.
Una mattina vorrei alzarmi con comodo, e trascorrere il resto della giornata a piacer mio.
Alla televisione guardo il carnevale di Rio, mi piacerebbe andarci, ma il solo pensiero di prendere l’aereo mi terrorizza.
Vorrei fare una crociera nel Mediterraneo, ma non so se soffro il mal di mare.
Mia moglie è una donna tranquilla, in diciott’anni di matrimonio non ha mai alzato una volta la voce. E’ abitudinaria e metodica nelle cose.
Per esempio: il lunedì si mangia pasta in bianco e pesce arrosto, martedì riso e carne, eccetera; cioè a casa mia si mangiano sette pranzi diversi nella settimana, e sempre quelli nella successiva e in quelle che seguono. Nel duemiladieci, venti febbraio, mercoledì, so fin da adesso quello che mangerò allora.
La domenica mia moglie esce e compra dei dolci e questi cambiano ogni volta, è l’unica cosa che cambia. A mezzogiorno rigatoni con sugo di carne. La sera andiamo a messa, poi passiamo a salutare i suoi genitori (un quarto d’ora esatto), infine compriamo un po’ di focaccia e torniamo a casa.
La mattina quando esco dal portone per andare a lavorare, giro a sinistra, e faccio circa cinquanta metri, poi attraverso la strada per arrivare alla banca dove lavoro da ventuno anni, quasi subito dopo essermi diplomato ragioniere. Da cinque anni sono il direttore di quest’agenzia.
Davanti alla porta incontro i miei colleghi e il proprietario della banca (o forse dovrei dire il socio maggioritario), ed entriamo tutti insieme.
A volte lo incontro poco prima di attraversare la strada.
Anche lui la mattina fa la stessa cosa che faccio io, esce di casa da un anonimo condominio, gira a destra e percorre i circa cinquanta metri che lo separano dall’attraversare la strada per arrivare al lavoro. Spesso ci incontriamo in quel punto e passiamo insieme dall’altra parte.
Ogni volta non posso fare a meno di pensare che i soldi rendono strane certe persone. Fisicamente ci somigliamo un poco, io sono alto un metro e cinquantotto, peso cinquantacinque chili, sono scuro di carnagione, ho i capelli brizzolati e quarant’anni d’età, lui è tutto questo un po’ di più. Cinque centimetri circa più alto, cinque chili più pesante, un po’ più bruno, i capelli molto più brizzolati e cinquant’anni. A volte scherzando, è l’unica volta che vedo farlo, mi dice che potrebbe essere mio fratello maggiore. Sorrido, forse pensa che la mia sia condiscendenza o che mi sento lusingato, può immaginare che il mio pensiero è questo: chissà se mio padre ha conosciuto tua madre prima della mia!
Ma la nostra somiglianza è solo fisica, mentalmente, secondo me, siamo molto diversi.
Mi piace una volta all’anno andare in vacanza, durante la quale al ristorante ordiniamo quello che ci pare, così in quel periodo cambiamo la nostra alimentazione. Lui non si prende un giorno di vacanza da quando lo conosco, cioè da quando sono entrato in banca.
Ogni due anni cambio macchina, lui non ha neanche la patente.
Ho moglie, purtroppo figli non ne sono venuti, ne avremmo voluti due, non importa il sesso, i figli sono tutti figli. Lui non si è mai sposato, dice che non voleva dare da mangiare ad un’estranea! (Una frase che non si dovrebbe neanche pensare: lui la dice). Credo a questa versione, perché non è timido nei rapporti con le tre impiegate che ci sono in banca, né col prossimo, non è brutto, ed è pieno di soldi, il che aiuta.
E’ proprietario di una catena di banche sparsa per tutto il paese, non so quanti istituti bancari aveva ereditato dai suoi, ma credo che li abbia decuplicati.
La sua è una famiglia di banchieri la cui memoria si perde nei secoli. Mi piace pensare che fossero tali ai tempi dei due gemelli più famosi del mondo, i figli della lupa. Cioè da quando i romani incominciarono a coniare i sesterzi, è iniziarono a dire pecus, pecus, (da cui è derivata la parola pecunia), non più per indicare le pecore, ma per indicare le monete che su un verso avevano stampata l’effigie di una pecora.
Col suo patrimonio ha un certo peso nell’economia del paese. Inoltre è un economista le cui teorie che elabora vengono tenute in gran conto dai governi di molti paesi. Ha rifiutato un posto di sottosegretario al tesoro.
Ha scritto molti libri che ha pubblicato con successo.
Mi ha detto che dal venerdì sera al lunedì mattina rimane in casa ad elaborare nuove teorie e a leggere libri di economia, e a lavorare al computer. Impazzirei!
Un mucchio di giornalisti vorrebbero intervistarlo, le televisioni gli corrono dietro, ma lui continua per la sua strada senza degnarli di uno sguardo o dire una parola.
Quando partecipa a qualche congresso di economisti, solo in Italia perché si rifiuta di andare all’estero sia pure per ricevere qualche premio, o una laurea honoris causa, viaggia in treno, esclusivamente in cuccetta di seconda classe.
Critica i congressisti perché mangiano in ristoranti di lusso, vanno a divertirsi, e alloggiano nell’albergo (extra lusso, roba da dieci, si fa per dire, stelle) dove si svolge il congresso.
Lui va in un albergo di seconda categoria, dove le stelle le vede solo se si affaccia dalla finestra, se il cielo non è coperto! Si compra qualcosa da mangiare, e mangia da solo. E quando torna in sede mi fa il resoconto.
Nella banca abbiamo il frigorifero, l’ha fatto installare lui, dove teniamo l’acqua minerale che ci mantiene, e quant’altro ci fa comodo.
La mattina quando arriva ha tra le mani un involucro che secondo noi contiene un panino. Il martedì ha anche un sacchetto di frutta che mette nel frigorifero, e ne preleva uno alla volta qualche minuto prima dell’una e trenta, ora in cui fino alle due e trenta si chiude nel suo ufficio e non vuole essere disturbato neanche se la banca prendesse fuoco, non senza essersi prima preso un bicchiere d’acqua dal rubinetto del bagno. Beve solo quell’acqua.
Alle dieci e trenta, puntuale arriva il ragazzo del bar col caffè, che a turno paghiamo, tanto varrebbe che ognuno pagasse il suo, ma abbiamo preso quest’abitudine e andiamo avanti così, lui partecipa, e quando gli tocca mette regolarmente le mani in tasca e paga.
Se facciamo la raccolta per festeggiare qualcuno di noi, o per altri motivi, mette la stessa precisa quota della nostra. Non vuole assolutamente essere festeggiato a sua volta, per nessun motivo.
Ricordo quando circa cinque anni fa, arrivando in banca, trovammo un giovanissimo vice cassiere, e una nuova scrivania accessoriata di tutto
Il necessario, cioè computer e telefono. Ci fu uno spostamento verticale quel giorno, vale a dire che ci promosse tutti di un grado, poteva farlo, il padrone era lui.
In effetti, anche se non me lo aspettavo, ritenevo di meritarlo. Ormai da
qualche anno aveva scaricato tutto il suo lavoro su di me.
Subito dopo aver ricevuto la bella notizia, arrivò il ragazzo del bar con una grande guantiera di dolci e una bottiglia di spumante ghiacciatissimo.
Lo ricordo come se fosse ora per un episodio curioso che accadde; stavamo mangiando, noi in modo normale, lui aiutandosi con tutte e due le mani, ad un certo punto incominciò a tossire e divenne rosso come un peperone. Stava soffocando. Cercando di aiutarlo facemmo più confusione che altro, chi gli dava manate sulle spalle, due gli porgevano un bicchiere di spumante, un’altra nella foga di volergli porgere anche lei un bicchiere di liquido ambrato, urtò non so in che cosa, fatto sta che volò in avanti andando a urtare il vassoio con quello che restava dei dolci, facendo volare tutto per aria e facendosi male. Per fortuna in maniera non grave.
A quel punto le risate si sprecarono, anche perché il nostro datore di lavoro si era ripreso. E fece un commento a modo suo: peccato per i dolci!
Poi aggiunse, si ricordi di pagarli.
Sapevo prima che lo dicesse che le cose sarebbero andate a finire così! Avrei scommesso la sua testa, sicuro di non perderla che avrei pagato io, od eventualmente qualcun altro, mai lui.
Intanto in un angolo, un’altra impiegata rideva e piangeva contemporaneamente premendosi un fazzoletto su un occhio, in cui, nel tentativo di dare il suo apporto, s’era ficcata un dito.
Dimenticavo di dire come si veste: d’inverno indossa un vestito grigio che alterna ad uno blu scuro, camicia bianca, cravatta in tono. D’estate due pantaloni chiari e camicia bianca con maniche corte, naturalmente.
Ho la convinzione che siano sempre quelli, da anni, visto come sembrano lisi.
Ho detto che ritenevo di meritare la promozione perché in quest’agenzia si lavora moltissimo. La nostra grande città è tutta un grosso centro commerciale, e noi ci troviamo nel suo cuore. Ha un grande porto dove le merci arrivano e partono continuamente.
Tutto è fatto nel segno dell’efficienza. Il detto fai poco, e quel poco fallo fare agli altri, qui non attecchisce.
Qua non lavora solo chi non vuol farlo.
Chi ha un negozio se non è efficiente, può chiudere bottega. Se non lo è chi è dipendente, lo mandano a casa.
Questo grosso volume d’affari, fa si che circoli molto molto denaro. Questo attira tante persone con la buona volontà di guadagnare lavorando, e altre con meno buona volontà, ma con l’intento di guadagnarne tanto senza lavorare.
Quello che non capirò mai di lui, anche se mi sembra un po’ tirato ma a tutto c’è un limite, è il fatto che non si faccia scortare da delle guardie del corpo, con i soldi che possiede secondo me corre un grosso rischio; d’accordo che ha un aspetto dimesso e vedendolo è facile pensare ad un impiegato di terza categoria (senza offesa), e non ad un plutocrate. Ma forse la sua forza sta proprio in questo, chi lo vede sicuramente pensa che non valga due soldi, cosi lo lasciano in pace.

2° Capitolo

La mattina uscì al solito orario, feci la solita strada e quando mi accinsi ad attraversare, una grossa macchina si accostò al marciapiede, si aprì lo sportello posteriore e… non so se avete presente quando i poliziotti fanno salire qualcuno sulla loro auto, gli mettono una mano sulla testa e gliela abbassano per non farlo urtare, presumo, così mi accadde; qualcuno didietro mi mise la mano sulla testa e costringendomi ad abbassarla mi spinse ficcandomi nell’auto.
Rimasi sorpreso perché non avevo avuto il tempo di sorprendermi.
Mi trovai seduto fra due giganti che portavano due grossi occhialoni. Dimenandomi quasi glielo strappai a quello seduto alla mia destra, e così vidi un po’ di più della sua faccia. Mi spinse via la mano, si aggiustò gli occhiali, e insieme all’altro mi tennero incollato al sedile.
Come nei gialli o nei film, mentre i due accanto a me mi tenevano ferma la testa, quello seduto accanto all’autista si girò, occhialuto anche lui, non mi resi conto se mi spruzzò qualcosa in faccia, o mi fece odorare qualcosa, fatto sta che mi svegliai disteso su un materasso.
Avevo l’impressione di dondolare, mi sembrava di essere sull’altalena.
Aprì gli occhi piano piano, e vidi il tetto roteare, li richiusi, li riaprì ma girava sempre. Allungai le mani per fermarlo, ma non ci arrivavo e non ci riuscì.
Senti che dovevo andare d’urgenza in bagno. In quel momento tornai temporaneamente bambino, mi rivoltai e mi misi su i quattro arti, e cercai di alzarmi aiutandomi con le mani e i piedi. Qualcuno mi aiutò a mettermi ritto anche se in precario equilibrio. Partì in quella che pensavo fosse la direzione del bagno. Camminavo a zig zag, e non provavo alcuna emozione, mi sembrava di essere al di fuori del mio corpo.
Evidentemente era quella giusta perché mi trovai seduto sulla tazza quasi senza rendermene conto. Avevo i gomiti poggiati sulle ginocchia e mi tenevo la testa tra le mani.
Quando mi alzai e cercai di lavarmi, trovai un lavandino che mi sembrava quello del treno.
In qualche modo tornai al punto di partenza. Mi fecero sedere su una sedia, il mondo continuava a ondeggiare, avevo la gola secca e nausea. Mi dettero un bicchiere d’acqua, riuscì a berne metà, avevo ancora le idee un po’ confuse.
Davanti a me c’erano due persone con degli occhialoni che gli coprivano parzialmente il volto. Messi l’uno accanto all’altro impedivano l’entrata della luce, sembravano un armadio a sei ante. Non è giusto che esistano delle persone così alte, specie nei miei confronti, dovevano essere oltre due metri.
– Il bello addormentato si è svegliato, disse uno.
Mi guardarono, si guardarono e risero.
Qual è la domanda più banale che si può fare in queste circostanze?
– Dove mi trovo?
– Su un natante…( proprio così mi rispose: su un natante) col quale ci spostiamo spesso, perciò non ti fare illusioni, non ti troveranno mai.
– Mi tornarono in mente i rapimenti lampo degli ultimi anni, in cui sequestravano il direttore della banca per farsi dare un po’ di milioni, in modo da evitare di esporsi con una rapina in banca, che poteva risultare oltre che pericolosa (per loro) anche infruttuosa.
– Sentite se sperate di farvi dare dei soldi dalla banca siete degli illusi. Se pensate di poter ricavare un buon riscatto per il sottoscritto, sappiate che non ho un soldo.
– Altroché!
– Ma come parlavano? Natante, altroché, e poi avevano una dizione perfetta. Sembravano attori. Era impossibile capirne l’origine.
Ah, ho capito è uno scherzo, ma è durato abbastanza. Ho risposto a quell’annuncio sul giornale: contattaci daremo uno scossone alla tua vita. Una volta ho letto in un libro giallo di un’agenzia che organizzava cose strane per far provare dei brividi ai loro clienti. Non credevo che qualcosa di simile potesse essere realizzato nella realtà! Contattando quell’agenzia, il cui annuncio mi aveva incuriosito, pensavo che mi organizzassero una vacanza diversa da quelle che facevo io.
Invece la faccenda è andata oltre le mie previsioni.
– Smettetela con questo scherzo e riportatemi a casa. Mia moglie starà in pensiero.
– Tu non hai moglie! Invece hai un mucchio di soldi.
– Come sarebbe a dire non ho moglie? E, vi ho detto che da me non potete ricavare niente.
– Eccome! Ora scrivi una lettera alla tua banca e chiedi duecento miliardi, ci penseremo noi a recapitarla.
– Ma vi ho già detto che non ho un soldo, figuriamoci se possiedo quella cifra. E’ semplicemente assurdo!
– Per te sono spiccioli, perciò scrivi quello che ti detteremo, per ora vogliamo far sapere loro che sei in mano nostra, e vogliamo tenerli un po’ sulle spine, in modo che diventino più malleabili, in seguito gli diremo come fare per farci avere i soldi.
– Mi resi conto che facevano sul serio, ed ebbi paura.
Accettai di scrivere la lettera per guadagnare tempo, sperando che succedesse qualcosa a mio favore. Evidentemente dovevano avermi scambiato per un’altra persona. Sicuramente pensavano che fossi il proprietario della banca. Finché mi credevano tale ero salvo, non si tira il collo alla gallina dalle uova d’oro. Il peggio sarebbe venuto appena scoprivano chi ero. Come minimo mi avrebbero buttato in acqua.
Così scrissi la lettera e automaticamente firmai col mio nome.
Naturalmente si arrabbiarono, e mi dissero di non cercare di fare imbrogli, e di firmare col mio vero nome.
A quel punto pensai che la cosa migliore fosse di dire la verità. Magari mi lasciavano libero. In ogni caso speravo che me ne venisse un minor danno, che se li ingannavo.
Così gli dissi che mi avevano scambiato per un’altra persona. Naturalmente non sapevo come avevano fatto. Per una descrizione sommaria, per una fotografia magari presa da lontano, o più semplicemente chi mi aveva segnalato loro quando mi avevano preso, probabilmente era sul marciapiedi sbagliato e aveva invertito la destra con la sinistra.
– Veramente c’era un poveraccio che arrivava dal lato opposto, ma aveva l’aria di un impiegato di decima categoria, perciò non possiamo averti scambiato con quello. Quindi è lampante che menti. Perciò stai zitto e scrivi. Oppure dimostraci che non sei quello che crediamo.
– Già, e come? Data la vicinanza della banca non porto documenti non voglio correre il rischio di perderli. Né mi servono soldi, e nemmeno l’orologio. L’unica cosa che speravo potesse convicerli era la fede, e il segno che mi lasciava sopra il dito togliendola, segno che erano molti anni che la portavo.
Non servì a niente, non mi credettero, cosi dovetti scrivere la lettera e firmarla con un nome non mio, cioè con quello del padrone della banca.
Quindi mi misero al polso sinistro un anello con due boccole, collegato ad una catena, fissata alla paratia.
Uno salì in coperta e tornò poco dopo con due scatolette di tonno. A quanto pareva era l’ora di pranzo, o di cena?
Non avevo nessuna voglia di mangiare, ero scombussolato, scioccato, e ancora nauseato, e se ne avessi avuto intenzione a farmela passare ci pensò quello che mi aveva portato da mangiare dicendomi: – Augurati che ci diano i soldi, perché noi non siamo macellai, e non potremmo mandarti a casa un pezzettino per volta. Non sapremmo da che parte iniziare per tagliarti un dito. E poi tutto quel sangue ci farebbe impressione; perciò ci limiteremmo a staccarti la testa dal busto e inviarla alla tua banca in una scatola come un paio di scarpe, il busto invece finirebbe in fondo al mare attaccato ad un’ancora.
– Fortunatamente se ne andò togliendosi dalla mia vista. Non che questo mi sollevasse il morale, ma avevo meno paura non vedendolo. O così mi sembrava.
L’altro si sedette, limitandosi a guardarmi in silenzio.
Ora sapevo cosa prova un animale allo zoo.
Mi appisolai, e per un certo tempo dimenticai tutto.
Quando mi svegliai andai di corsa in bagno. Naturalmente dopo essere stato staccato dalla catena. Non sapevo se mi sentivo un cane (povera bestia), o un galeotto d’altri tempi.
– Lascia la porta aperta.
– Possibile che debba guardarmi anche in bagno?
– Non mi fido quando non ti vedo.
– E io non mi fido neanche quando ti vedo.
Quando tornai il mio guardiano voleva mettermi nuovamente alla catena.
Riuscì a convincerlo che, grande e grosso com’era, non aveva niente da temere da me.
Iniziai a passeggiare per la stiva, grosso modo di tre metri per quattro. Andai avanti e indietro, destra e sinistra, accelerai e rallentai sperando con quel movimento monotono di farlo addormentare, mentre mi guardava seduto sull’ultimo scalino che dava accesso al boccaporto.
Mi lasciò sgranchire per un po’, infine mi disse di sedermi perché si era stancato a guardarmi.
Il fatto era che mi ero stancato anch’io, mi annoiavo, ero depresso e mi stava venendo l’ansia, e non sapevo cosa fare.
Chiesi al mio aguzzino se a bordo c’erano delle carte da gioco.
Non lo sapeva, così iniziammo a guardare nei cassetti di quella specie di settimino che si trovava nella stanza.
Fortunatamente ne trovammo un paio di mazzi, e cosi incominciammo una strana e infinita partita.
Dopo non so quanto tempo, lo chiamarono quelli di sopra e gli buttarono un paio di scatolette di tonno per me. Era ora di cena, infatti dalla luce che entrava dal boccaporto si vedeva che era sera. Mentre nella stiva stavamo sempre con la luce di una lampadina che pendeva dal soffitto, dato che dove ci trovavamo noi non esisteva alcun oblò.
Mangiai le scatolette, il contenuto, non le latte, e bevvi un bicchiere d’acqua.
Il guardiano mi legò nuovamente alla catena, mi mise accanto una bottiglia d’acqua e un secchio, spense la luce e se ne andò chiudendo il boccaporto, lasciandomi al buio totale.
Mi sentì come il mallo di una noce. Se andavamo a fondo non avrei avuto alcuna speranza di salvarmi.
Al buio cercai di tirare la catena, ma era saldamente imbullonata alla parete, non c’era niente da fare. Potevo solo sperare che la barca si comportasse come le noci di cocco che rimanendo a galla, vanno da un isola all’altra, dove si arenano sulla spiaggia colonizzandola.
A suo tempo avrei voluto interrompere la monotonia della mia vita, ora ne avevo ben donde.
Avevo paura, come si sarebbero comportati verso di me, una volta accertato che non ero quello che speravano?
Mi rannicchiai sul materasso e pensai a mia moglie, chissà come doveva essere in ansia. Provai diverse sensazioni, ricordai tante emozioni che avevamo vissuto insieme, avevo nostalgia di lei, persino della sua cucina. Ripensavo alla tranquillità della mia casa, alla comoda poltrona dove ero solito sedermi per guardare il telegiornale.
E’ strano come anche le cose più banali, e di cui eravamo stanchi, quando si sta rischiando di perderle, specie nel mio caso forse per sempre, diventano importanti.
Desideravo un libro, a casa e in banca leggevo solo un quotidiano. Ma in quel momento, potendo scegliere, avrei voluto tra le mani la cantica dell’inferno di Dante. In gioventù ne avevo letto una ventina di capitoli, avrei voluto leggere il resto.
Cercai di ricordare alcuni versi che mi erano rimasti impressi, e che ogni tanto mi tornavano in mente.
A questo proposito mi ero ricordato un episodio della mia gioventù, una volta con la mia classe eravamo andati a visitare una scuola d’agraria sita in un vecchissimo monastero, qualche studente spiritoso (?) aveva scritto sul frontone della porta: lasciate ogni speranza voi che entrate, qui v’insegneranno a piantar le patate.
Quanti pensieri mi passavano per la testa, e quante cose avrei voluto fare una volta tornato a casa vivo e vegeto. Se… mi lasciavano libero.
Che brutto quel se, quel condizionale, l’odiavo, mi sembrava che non mi lasciasse molte possibilità. E forse non ne avevo.
Quando ero un dodicenne odiavo la grammatica, e soprattutto i verbi. Ricordo che mi dicevano: impara a memoria il modo indicativo del verbo essere od avere, da pagina tot a pagina tot. L’indomani ci chiamavano a quattro a quattro, ci facevano schierare a lato della cattedra, e ci chiedevano di ripetere a memoria dei verbi a casaccio. Le nostre risposte erano roba da far ridere i polli.
Ricordo che non sapevo mai quando mettere la lettera h davanti alle vocali a e o. O quando mettere l’accento sulla vocale e. Insomma non sapevo quando erano verbo, e quando non lo erano. Cosi procedevo a casaccio quando scrivevo qualcosa, ogni tanto mettevo un’acca o un accento.
Il risultato erano tanti segnacci di matita rossa.
Secondo me questo dipendeva dal fatto che non mi avevano saputo spiegare bene la grammatica. Da cosa deduco questo? Dal fatto che diventato più grandicello e stanco dei segnacci rossi e di prendere brutti voti, mi misi davanti un bel libro di grammatica italiana (non è facile la nostra lingua!), e l’imparai da solo. Così smisi di prendere brutti voti.
Quando avrebbero saputo la mia vera identità, e quindi che i loro miliardi svanivano come il fumo, come si sarebbero comportati nei miei confronti: mi lasciavano libero o mi rimandavano a casa sotto forma di spezzati- no? O mi facevano sparire in qualche modo più o meno cruento.
Quel se, era molto importante.
Mi vennero i brividi pensandoci. Cercai di abbracciarmi, avrei voluto disperatamente scappare, avevo voglia di mettermi a gridare, ma non avrei concluso nulla. Non sapevo cosa fare.
Fortunatamente senza rendermene conto Morfeo stese su di me il suo mantello e mi prese fra le sue braccia, avrei preferito quelle di sua moglie, ma non potevo scegliere.
Mi svegliai infreddolito, dovevano essere le quattro o le cinque di mattina, quella è l’ora in cui la temperatura diminuisce. Purtroppo mi ricordai subito dove mi trovavo, e dal dondolio intuì che stavamo navigando.
A proposito di navigare quanti eravamo sulla barca? Solo quelli che avevo visto sull’auto? In tal caso qualcuno di loro doveva saper navigare. Diversamente a bordo c’erano cinque o sei persone, non pensavo di più.
Mi passò per la testa un’idea: navigavamo di notte per passare meglio inosservati, ergo avevamo le luci spente. Mi si rizzarono i capelli e cercai di non pensare a tutto quello che ci poteva succedere. Non è che non pensandoci mi tranquillizzai, ma almeno così cercavo di non farmi prendere dall’ansia.
Cercai di muovermi nella speranza di riscaldarmi, ma non ci riuscì e mi ripromisi di farmi dare qualcosa per coprirmi la notte, dato che non sapevo quanto sarebbe durata la mia prigionia e come sarebbe andata a finire.
Mi vennero i brividi e non di freddo.
Chissà di sopra come facevano a dormire senza sentire freddo. Forse erano attrezzati col sacco a pelo.
Mi svegliai col carceriere che mi batteva sulla spalla per svegliarmi. In mano aveva le solite due scatolette di tonno.
Mi liberò, e corsi in bagno. Quando tornai al mio posto gli dissi che non avevano molta fantasia in fatto d’alimentazione.
– Mi rispose: ne abbiamo una cassa, erano un’offerta speciale.
Era pure spiritoso l’amico. Amico? Ma sì, tanto qualche volta lo diciamo per modo di dire e per abitudine noi italiani.
Bevvi dell’acqua. Ma come si può fare appena svegli a mangiare quella roba oleosa? Si può fare, me lo dimostrò il mio antagonista, che non le mangiò, le ingoio come se fossero state due noccioline.
Riprendemmo a giocare. Ci sedemmo sull’ultimo gradino della scaletta che portava su, e adoperammo il pavimento come tavolo da gioco.
Dopo circa un’ora che giocavamo, mi stancai e mi alzai, mi guardò con fare interrogativo. Lo ignorai e mi misi a passeggiare.
Devo dire che l’amico, bè lasciamo perdere, giocava meglio di me, ma siccome riuscivo a tenergli testa, restando indietro solo di un paio di partite si appassionava accanendosi sempre di più, e non avrebbe voluto smettere mai.
Io giocavo, però avevo la testa da un’altra parte, e ogni tanto cercavo con delle domande tendenziose di sapere in quanti eravamo a bordo, gli chiedevo l’ora, ma lui mi ignorava totalmente, non rispondendomi neanche con una sillaba. Mi faceva dubitare se mi ascoltava.
Accanto al bagno c’era una porticina simile, l’aprì ed entrai, era la cucina. Arrivò a razzo, mentre saltando cercavo di vedere fuori attraverso l’oblò posto sulla parete più alto di me.
Si precipitò dentro, arrabbiato, mi afferrò dai fianchi, e mi sollevò in aria e mi fece guardare fuori attraverso l’oblò. Vidi mare e cielo, mi aspettavo di veder la terra, magari di qualche posto che conoscevo.
– Possibile che per te è tanto importante sapere dove ti trovi?
– Non meritava risposta.

3° Capitolo

Mi trovavo in una stanza che doveva essere non più larga di un metro per uno e mezzo. In un lato vi era un vecchio armadio l’aprì e sul primo ripiano spiccava una grossa caffettiera , mezzo pacco di caffè che odorai, sembrava ancora buono, quasi un pacco di zucchero, e uno di bicchieri di carta di quelli piccoli. Nessuna posata, non sapevo come avrei mescolato il caffè, ma non mi importava, non vedevo l’ora di berlo.
Prendimi la bottiglia dell’acqua!
Ci andò! Quasi incredibile.
Quasi, perché gli avevo dato un ordine: breve, secco e con un tono di voce perentorio.
Nella mia breve vita avevo imparato molte cose sulle persone: per esempio, se gli dai un ordine secco molti esseri umani, più o meno intelligenti lo eseguono immediatamente, senza pensarci troppo. Forse è per questo che tanti dittatori hanno successo.
Su un piccolo tavolo c’era un pezzo di marmo su cui era posata una vecchia cucina a gas, a tre fuochi, e sotto il tavolo la bombola del gas, mi mancava l’accendino dato che nessuno di noi due fumava.
Aprì il cassettino che c’era nel tavolo, e trovai le posate, e vidi pure un coltello da macellaio, di quelli con la lama strettissima, che sono affilatissimi, e lungo una quindicina di centimetri; lo guardai e guardai il mio avversario; lo lasciai dov’era. Presi un cucchiaino e trovai pure un accendigas, così potei mettere sul fornello la caffettiera.
Mentre aspettavo che uscisse il caffè, mi guardai attorno.
Nei ripiani dell’armadio c’erano parecchie cose che mi potevano essere utili. Un padellone, una grossa pentola, alcuni pacchi di pasta…- non toccare quella roba che non ci appartiene!
Mi sembrò comico.
– Qua c’è il pranzo di mezzogiorno, gli dissi, a proposito che ore sono?
Mi ignorò. Decisi di fare lo stesso e continuai a rovistare.
Trovai alcune bottiglie di vino, e un paio di bottiglie di olio. Era quello che mi ci voleva.
Il mio antagonista mi guardava senza dire più niente, non vedevo il suo
sguardo dato che non si era mai tolto gli occhialoni neri. Forse non sapeva cosa fare, forse si sentiva impotente perché non sapeva come fermarmi.
Trovai delle scodelle, un bacile, un secchio e una tazza abbastanza grande. Sotto il tavolo un paio di bidoni d’acqua.
Magari riuscissi a farlo a loro un bidone, filandomela.
A una parete vi era appesa una treccia di pomodorini un po’ rinsecchiti, chissà se erano ancora buoni.
Non so cucinare, quel poco che ho appreso l’ho imparato guardando mia moglie, aiutandola a cuocere la pasta, e facendo quello che mi diceva. Quant’era lontana da me, sicuramente stava in apprensione. Speravo solo che stesse bene. Ma era meglio non pensarci.
Prendemmo il caffè, era acqua calda colorata, non avevo saputo dosarlo. Non sapevo farlo. Ma mi sembrò una cosa meravigliosa, e anche al mio…? Mah!
Prese la caffettiera, un cucchiaino, mezzo pacco di bicchieri, e dopo averne riempito uno di zucchero, volle che lo seguissi, mi fece sedere sul primo scalino, e andò a portare il liquido agli altri. E tornò indietro rapidamente.
Riprendemmo a giocare.
Dopo alcune partite incominciò a guardare spesso l’orologio, mi sembrava nervoso e non capivo perché.
Passato un po’ di tempo cominciai a diventare nervoso, mi aveva messo in apprensione.
Infine si alzò e iniziò a passeggiare su e giù.
Dopo circa un’ora mi stancai di guardarlo e gli dissi di sedersi.
Riprendemmo la partita.
Dopo aver guardato per l’ennesima volta l’orologio mi fissò… che voleva?
Che fai non cucini?
Aveva fame l’amico.
Misi la pentola con una buona dose d’acqua sul gas, aprì il cassetto, presi il coltello e un piatto sbrecciato che avevo appena trovato, sciacquai la padella, la misi sul fuoco e a momenti stavo per farla bruciare mentre lavavo i pomodori. Li tagliai a metà e coprì il fondo della padella, avevo visto un sacchetto di aglio, ne sbucciai alcuni spicchi e glieli misi, attaccati ad un chiodo avevo visto tre peperoncini, ne pulì accuratamente uno, togliendogli i semi (sapevo che questi erano troppo piccanti, non ero del tutto ignorante), e glielo misi a pezzettini.
Prima di posare il coltello lo guardai e guardai il mio carceriere. Fu un gesto istintivo. Rimase calmo.
– Non fare fesserie.
Guardai nuovamente il coltello, poi lo posai sul tavolo.
– Non ti colpirei mai, anche se fossi sicuro di riuscirci , subito dopo che il tuo sangue sprizzasse per tutta la stanza macchiandomi tutto, mi precipiterei terrorizzato a tamponarti con la mia mano la ferita. Non tenendo conto che colpendoti potrei pure ammazzarti.
Meglio pensare a cucinare.
Ogni tanto mescolavo il tutto, e schiacciavo i pomodorini con la forchetta.
Non avevo visto il sale, pazienza avremmo mangiato scipito.
Quando l’acqua si mise a bollire gli chiesi quanti eravamo per regolarmi
della quantità di pasta che dovevo cucinare.
Mi disse un pacco.
Ci avevo provato. Non abboccava.
Ma quanti eravamo un reggimento? Guardavo la cosa col mio metro, cioè io mangiavo normalmente cinquanta grammi di pasta.
Quando fu cotta col suo aiuto la scolai, almeno per quanto ci riuscimmo. Vi versai quella parvenza di salsa, dopo avervi messo dell’olio, mescolai il tutto, mi riempì la tazza, che avevo già sciacquato per la bisogna e mi misi a mangiare.
– Serviti, gli dissi. Volevo vedere come faceva.
Non si perse d’animo, prese il bacile, gli diede una sciacquata, e se lo riempì oltre l’orlo. Il resto lo versò nel secchio senza neanche sciacquarlo, afferrò un mazzo di posate, avevo sperato di contarle per sapere quanti eravamo, si abbracciò due bottiglie di vino, mi fece segno con la testa: – Seguimi.
– Non mi muovo di qua, e continuo a mangiare!
Mi guardò, guardò il suo piatto, alzò le spalle e se ne andò.
Credo di aver provato una sensazione di potere, ma era solo un’illusione.
Dopo alcuni giorni di scatolette, costituiva un’ottima variante, ma siccome era piccantina, bevvi alcuni bicchierini di vino. Era molto forte, almeno per me che bevevo un vinello molto leggero, e al massimo un bicchiere.
L’altro doveva essere abituato, infatti beveva direttamente dalla bottiglia, senza alcuna limitazione.
Dormì non so quanto. Quando mi svegliai il mio compagno di prigionia era steso su una sedia a sdraio, di quelle col materassino, e respirava a bocca aperta facendo un certo rumore.
Non lo svegliai, ma andai a sedermi al solito posto. Pensai che potevo salire piano piano, cercando di non far rumore, e di tuffarmi in mare.
Ma mi avrebbero sicuramente ripreso, e non me ne sarebbe venuto niente di buono. Sarei rimasto con gli indumenti bagnati, certamente mi avrebbero picchiato di brutto per farmi passare la voglia di scappare, e magari mi rompevano qualche costola e avrei sofferto da cane. Anzi al solo pensarci mi sembrava di sentire tutto il corpo indolenzito.
L’unica speranza di poter scappare era di scivolare non visto in acqua, e siccome avevo un’autonomia di tre ore, e dato che ci trovavamo nel mediterraneo, sarei senz’altro arrivato a riva. Ma una cosa era pensarlo, e un’altra realizzarlo.
Comunque devo dire che avevo una certa riluttanza al pensiero della fuga, perché può sembrare assurdo ma in quella stanzetta provavo la sensazione di sentirmi protetto. Sarei scappato solo se avessi avuto la certezza di riuscirci.
Pensandoci bene mi dispiaceva anche per il mio amico, se scappavo chissà cosa gli sarebbe successo.
Lo svegliai. Saltò su veramente spaventato: – Sei salito su? Qualcuno è sceso qua mentre dormivo? Qualcuno mi ha chiamato?
– La risposta è no, a tutte e tre le domande, almeno mentre non dormivo.
– Perché non sei scappato?
– Questa è una domanda poco intelligente della quale non saprai mai la risposta.
Venne a sedersi vicino a me.
Se si fa una domanda improvvisa, quando le persone non se
l’aspettano, il più delle volte rispondono e rispondono con sincerità.
Cercai di sapere quanti erano, come al solito, ma mi rispose picche.
Troppe volte gli avevo fatto supergiù la stessa domanda, sotto varie forme, e ormai era vaccinato e non avevo speranza di sapere quello che volevo.
Lo mandai sopra a prendere il secchio e la caffettiera. Necessariamente dovevo pulirli.
Quando tornò giù mi disse: ti mandano a dire complimenti alla cuoca, hanno trovato che la pasta era molto buona.
Non sapevo se sfottevano o se dicevano sul serio.
– Sai che ti dico, andiamo a farci un buon caffè.
Ne uscì poco, stavolta avevo esagerato, ce ne avevo messo troppo caffè, inoltre l’avevo pressato.
Raffreddammo la caffettiera, togliemmo un po’ di caffè, lo rimettemmo su, e finalmente potemmo prenderci una discreta bevanda.
Gli chiesi come mai non glielo portava su, mi rispose che andassero al diavolo.
Evidentemente si era creata un’incrinatura nei loro rapporti, se non era una mia pia illusione. Adesso toccava a me di cercare di allargare la breccia. Forse avevo trovato un possibile alleato.
Ci sedemmo per giocare ma aveva un’aria svogliata, cercai di approfittare del suo momento particolare, e gli dissi: – Perché non mi racconti la tua vita?
– Perché se non sai chi sono non potrai mai farmi prendere, e non costituirai un pericolo per me.
– Questo è vero, ma prima o poi finirai là dentro.
Si mise le mani davanti alla faccia. – In carcere non ci voglio andare.
Questa risposta non mi disse niente, non era indicativa.
C’era stato e non voleva tornarci, o non c’era stato e non voleva andarci?
Si mise a passeggiare nervosamente su e giù, rendendo nervoso anche me.
Cercai di pensare a qualcosa che potesse interessarlo, e che servisse ad aiutarci a passare il tempo. Così mi inventai il gioco delle capitali.
Nella prima partita persi con mio sommo dispiacere Roma, vinsi Parigi e altre due capitali, ne persi cinque di seguito, ne vinsi un’altra. Scambiai Roma con le quattro che avevo vinto e fummo contenti tutte due.
Tanto per cambiare portò quattro scatole di carne, e fece quella che secondo lui era una divisione equa.
Una a lui, una a me, due a lui e niente a me.
Si trattava di circa duecentocinquanta grammi di carne per ciascuna scatola. Per me era troppo.
Riuscì con un certo sforzo a mandarla giù tutta, volevo mantenermi in buone condizioni fisiche se mi si presentava l’occasione di fuggire.
Nessuno invece li ingoio con molta facilità (non aveva voluto dirmi il suo nome). Lo capivo, doveva nutrire un corpaccio di quasi due metri e probabilmente di oltre centoventi chili.
Se ne andò lasciandomi legato come al solito.
Erano passati alcuni giorni e non si era verificata alcuna novità. Cosa sarebbe successo appena scoprivano la mia vera identità, e avrebbero capito che non si può cavar sangue da una rapa?
Come si sarebbero comportati? Pensavo al coltello da macellaio che c’era in cucina e mi ricordavo le parole di quel mostro che dopo il primo giorno non avevo, per mia fortuna, più visto.
Diverse volte mi svegliai di soprassalto tremando, provavo la sensazione che ci fosse qualcuno accanto a me, pronto a farmi del male. E quello che era peggio era il fatto d’essere al buio assoluto, e non avrei potuto vedere quello che sarebbe successo, né mi sarei potuto in qualche modo difendere. Vuoi perché ero incatenato alla parete, quindi semi immobilizzato, vuoi perché in confronto a quelle montagne di muscoli ero inerme.
Inoltre sono un pacifista convinto e aborro la violenza in tutti i sensi, per rendere l’idea mi sembra assurdo che un popolo faccia la guerra ad un altro popolo, come si può sparare su un proprio simile? Secondo me, dovremmo andare verso un’era in cui tutta l’umanità si dovrebbe unire per formare un unico stato, per il bene comune.
La guerra genera lutti, rovine, fame, miseria, odio, eccetera, eccetera, non ha mai prodotto niente di buono. Ne nei vinti, ne nei vincitori.
Le questioni si dovrebbero dirimere col dialogo.
Naturalmente sono pacifista finché non sono attaccato, se lo sono mi difendo.
L’indomani iniziammo la giornata al solito modo: giocando, e la mia ansia cresceva, non mi dicevano niente, non mi davano nessuna novità. Aspettare senza poter sapere il futuro era terribile.
Quando giunse l’ora del pranzo, misi nel pentolone il solito chilo di pasta, ma non sapevo come condirla. Erano rimasti solo due pomodorini rinsecchiti e non sapevo cosa farmene. L’unica soluzione era l’olio. Non solo avremmo mangiato sciapo, ma senza un vero e proprio condimento.
Olio, olio, mi ricordava qualcosa. Tanto tempo prima avevo mangiato pasta condita con tonno sott’ olio sminuzzato e prezzemolo fresco. Quest’ultimo non c’è l’avevo, ma di scatolette se era vero che ne avevano una cassa, non c’era problema.
Lo mandai a prenderne una decina, per queste cose mi ubbidiva ch’era un piacere. Ma soprattutto lasciandomi solo, sia pure per poco, dimostrava di avere una certa fiducia.
Svolgemmo il solito rituale, io, appoggiato alla parete che mangiavo nella tazza; quella ormai era la mia porzione, lui dopo aver portato sopra il secchio, con il solito recipiente appoggiato sul tavolo davanti a se, mangiava in piedi.
Il suo braccio andava su e giù dalla tavola alla bocca così velocemente che mi ricordava l’ago della macchina da cucire.
Quando tornò giù, col secchio, mi disse la solita frase: complimenti alla cuoca.
La notte ebbi i soliti incubi. Non riuscivo a dimenticare quel coltellaccio da macellaio che era in cucina. A volte lo sognavo insanguinato. Stava diventando un incubo. Avrei voluto buttarlo dall’oblò, ma era imbullonato e non c’era niente da fare.
Ma tant’è, se volevano uccidermi potevano farlo in tanti modi.
La mia giornata ormai trascorreva giocando a carte e cucinando.
Capì che era ora di pranzo perché il mio compagno di prigionia, più si avvicinava l’ora di cucinare, e più diventava nervoso. O guardava l’orologio o guardava me attraverso gli occhialoni. Mi dava l’impressione di volermi mordere da un momento all’altro.
Così misi il pentolone per la pasta e pensai che il tonno essendo un pesce, potevo friggerlo, per fare una cosa diversa e utilizzarlo come condimento.
Misi la padella sul fuoco con una buona dose d’olio, e gli dissi di andare a prendere alcune scatolette di tonno.
Mi rispose che erano quasi finite, e che quelle che rimanevano sarebbero servite per la cena. Quindi dovevo arrangiarmi.
Mi rimanevano quattro spicchi d’aglio, li sbucciai, li divisi a metà, e li misi a friggere. Quando la pasta fu cotta ne versai una metà sull’olio bollente e la feci friggere, mescolai il tutto, dopo di che pranzammo alla meno peggio.
La sera quando riportò giù il secchio mi disse: – Buono il pranzo!
Avrebbero ingoiato qualunque cosa.
Quando mi coricai, cercai di non pensare le solite cose. Volevo elaborare un piano di fuga. Potevo cercare di lanciare un messaggio in una bottiglia, ma non c’erano penne in giro, ci fosse stato un rossetto avrei potuto utilizzarlo, ma non c’era neanche quello. L’unica soluzione era quella di imitare Silvio Pellico, fingere di ferirmi involontariamente e al momento opportuno scrivere col mio sangue sulla carta igienica, l’unica esistente in giro. Veramente l’idea di procurarmi una ferita mi faceva venire un brivido.
Il vero problema consisteva nel trovare un recipiente adatto all’uopo. Appena una bottiglia si svuotava veniva portata subito via. E se anche l‘avessi avuto come fare per buttarla in mare? Sembrava una cosa insolubile.

4° Capitolo

Mi svegliai e non sentì alcuna vibrazione, dovevamo essere fermi. Silenzio assoluto. Buio totale!
Passò del tempo, non sapevo quanto. Incominciai a preoccuparmi. Che m’avessero abbandonato sulla barca? In mezzo al mare? E perché poi?
E pure legato. Assurdo.
Mi vedevo diviso in due da un incrociatore, con la sua potente prua.
Il tempo passava, e il silenzio diventava pauroso, agghiacciante, spaventoso. Avevo l’impressione d’essere sepolto vivo. Su di me, credevo di vedere la mia lapide dal lato negativo. Qualcuno con un dubbio senso poetico aveva detto: vedere le margherite dalla parte della radice.
Siamo abituati a sentire sempre del rumore attorno a noi, anche quando crediamo che ci sia il silenzio assoluto. Sentiamo il rumore del silenzio, sembra assurdo ma è così.
Provate ad ascoltare.
Ora invece per quanto cercassi di ascoltare la minima vibrazione, il minimo segno di vita, non sentivo assolutamente niente. Per questo mi sembrava di essere nella mia tomba, i morti non sentono niente.
La botola si aprì e col mio amico entrò un raggio di luce, e il mio cuore si allargò, e provai un’emozione intensa. Ero stato tanto spaventato che non mi ero reso conto che stavamo navigando. Che le vibrazioni erano riprese. Che la vita era tornata.
Ecco le vettovaglie!
Le vettovaglie, ma come parlava, io avrei detto cibarie, e dove eravamo in marina, ma che scemenze diceva? Questo pensavo mentre ero seduto in bagno.
Ma che stavo dicendo! Mi attaccavo ad una parola, a come parlava il mio avversario, e scemenze simili. Il sommo poeta disse: “e quindi uscimmo a riveder le stelle”, io incominciavo a contarle, cioè stavo andando fuori di testa.
– Prepara da mangiare, abbiamo appetito. E’ ora di pranzo.
In effetti, passata parzialmente la paura, e visto che mi ci aveva fatto pensare mi resi conto da averlo anch’io. Anzi, forse per una forma di reazione nervosa, pensai che la mia fame era tale che mi sarei mangiato volentieri tutti loro.
Andai in cucina, e come al solito misi sul gas il pentolone con l’acqua per la pasta. Meno male che si erano ricordati di comprare il sale. Si trattava di sale grosso, sala più di quello fino o meno? E quando si mette nella pentola, subito, o quando l’acqua bolle? Sperando di non sbagliare glielo misi subito, e lo usai con parsimonia, non sapendo quanto salava. Se non si è capito la cucina non è il mio forte. Perciò improvvisavo sperando di non sbagliare, cercando di usare il buon senso, e non è detto che il mio fosse sempre buono.
Tutto quello che avevano portato, non mi dava alcuna indicazione sul dove l’avevano comprato. Erano tutti prodotti di marche che conoscevo, e che trovavo nella mia meravigliosa città: Messina, e anche in provincia, e che avevo trovato anche nei supermercati nella grande città di Catania.
Perciò ero sempre allo stesso punto.
Aprii il mini frigo che avevamo per vedere cosa ci avesse messo dentro l’affamato.
Trovai un pacco di tritato, avvolto in carta anonima, come se era fatto apposta, anzi era fatto apposta, ne ero certo. Doveva essere oltre il chilo, insomma era molto. Pensai di fare il ragù. Avremmo mangiato qualcosa di gustoso, ma come si fa?
Usa l’intelligenza, mi dissi, o e meglio lasciarla perdere. Improvvisare, improvvisare.
Misi su il padellone con un po’ d’olio, meno male che avevano portato dell’aglio, un paio di spicchi mi sembravano che ci volessero, vi misi la carne e cercai di allargarla con una forchetta. Prese a friggere, così mi affrettai ad aprire una bottiglia di salsa, e gliela versai, sperando che così si facesse.
Mentre mescolavo pensai che aveva l’aspetto di un pastone. Avevo fatto il pastone per i porci. Veramente non volevo vantarli quelli di sopra.
Il difficile fu condire la pasta con tutta quella roba.
Riempì la mia tazza, e iniziai a mangiare, come facevo ormai dalla prima volta, e devo dire che era buona, mentre guardavo il mio amico per vedere quanto se ne sarebbe versata.
Ad onor suo devo dire che si limitò a prendersi la solita porzione.
Versò il contenuto della pentola nel secchio, e siccome il tutto era venuto un po’ liquido, faceva un rumore come se versasse acqua.
Alla velocità con cui il suo braccio andava avanti e indietro, non ci mise molto a divorare la sua parte di pastone. Quindi prese la pentola, e ne versò il contenuto nel suo recipiente. Rimasi veramente a bocca aperta, se ne era lasciato quanto bastava per riempirsi ancora mezza bacinella.
Quando terminò di mangiare ebbi l’impressione che stesse soffocando, invece mi stava dimostrando la sua soddisfazione, difatti fece il ruttino, che in quell’ambiente angusto sembrò il ruggito di una tigre, dopo che si è mangiata un quarto di bue.
Mentre ero disteso sul materasso cercando di digerire quello che avevo mangiato, sentivo il mio antagonista che respirava affannosamente mentre cercava, a sua volta, di digerire tutto quello che aveva ingurgitato.
Sembrava che si fidasse di me, difatti non mi aveva legato alla catena.
Potevo salire e tentare di buttarmi in acqua, ma mi avrebbero ripreso in men che non si dica. Magari se mi prendevano prima mi buttavano in acqua loro per affogarmi.
Mi sentivo depresso, anzi in uno stato d’animo tutto particolare, che io stesso non sapevo come definire.
Che speranze avevo che mi trovasse la polizia? Secondo me nessuna.
Probabilmente mia moglie non aveva denunciato la mia scomparsa per non mettere in pericolo la mia vita.
Il padrone della banca per giustificare la mia assenza doveva aver detto ai miei colleghi di avermi mandato in qualche altro suo istituto di credito, almeno temporaneamente.
Quindi nessuno mi stava cercando. D’altra parte chi ero? Se risaputa la mia scomparsa non avrebbe fatto nessuno scalpore. Senza di me il mondo andava avanti lo stesso.
La mattina andavo a lavorare fino a quando tornavo a casa e mi mettevo a guardare la televisione. La mia era un’oscura esistenza.
Chi volevo che si accorgesse della mia scomparsa? Per il mondo non esistevo neppure. Ero un granello di sabbia nel deserto.
Quando riportò giù il secchio mi disse: – Complimenti alla cuoca, stavolta hai superato te stesso.
Mi avevano eletto cuoca… cuoco.
Era veramente una situazione strana, ero loro prigioniero e cuoco della banda.
In effetti per certi versi non mi lamentavo, cucinare mi serviva come diversivo, e forse anche per questo godevo di una relativa libertà. Potevo muovermi in quello spazio limitato, e non ero costretto a stare legato alla catena.
La sera per cenare ritardammo di almeno un’ora.
Nel frigorifero c’era un pezzo di prosciutto di almeno tre chili! Secondo me non sapevano fare la spesa. Lo tirai fuori. Trovai una boccia di settecento grammi di funghi sottolio, li presi. In un sacco vidi una decina di filoni di pane, dovevano pesare circa un chilo ciascuno.
Ne presi due, e li tagliai per il lungo, li aprì. E intanto tremavo.
Incominciai ad affettare il prosciutto, ma ad un certo punto non ce la feci più, mi appoggiai alla parete, quasi piegato in due, e mi misi a tremare.
– Calmati.
Mi pose una mano sulla spalla e mi costrinse a girarmi, si mise un dito sugli occhiali al di sopra del naso li abbassò un po’ e mi disse: – Noi siamo professionisti, non siamo assassini. E si mise ad affettare il prosciutto.
Appena mi ripresi condì il pane con l’olio dei funghi, lo farcì con questi e col prosciutto.
Pensavo che fossero sufficienti per tutti, invece li afferrò, e nell’avviarsi per portarli sopra mi disse fanne un altro.
L’avevo appena terminato di preparare, che lo afferrò, lo portò alla bocca e ne strappò un bel pezzo con un morso. Era talmente grosso che dovette spingerselo in bocca con la mano.
– E io?
Lo girò, mi porse il lato integro e me ne lasciò tagliare un pezzetto. E così divise il suo cibo con me.
Presso molti popoli dividere il proprio cibo con un’altra persona è un gesto molto importante. Molto significativo. E’ un gesto d’amicizia.
Il pane, dopo tanti giorni che non lo mangiavo, mi sembrò un dolce.
Durante la notte pensai che andando a terra, probabilmente avevano trattato del mio riscatto, il banchiere non gli aveva rivelato l’errore che avevano commesso, e in tal caso cosa stava facendo? Aveva avvisato la polizia? O continuavano a mantenere il segreto? Se erano venuti a conoscenza della mia vera identità come si sarebbero regolati i miei rapitori? Stavano tramando qualcosa a mio danno? O sarebbero venuti a più miti pretese, accontentandosi di quello che potevano ricavare dal mio riscatto?
Non sapevo esattamente se avevo paura o meno, la mia situazione di prigioniero, e la solitudine erano un ben triste stato. Era subentrata in me una sorta di rassegnazione. Quasi quasi qualunque altro stato era da preferire alla situazione attuale.
L’indomani ebbi una lieta sorpresa, andando a terra mi avevano comprato della biancheria intima, una camicia, un maglione e un pantalone.
Mi cambiai, e mi resi conto che dovevano aver scelto questi indumenti prendendo a modello loro stessi. O al massimo qualche taglia in meno. Non avevano tenuto conto che due di me non erano sufficienti a farne uno di loro.
M’infagottai come meglio potevo, ma ero felice (quasi), quel cambiamento mi aveva sollevato il morale, e ringalluzzito.
Cosi prima ringraziai il mio amico per avermi comprato i vestiti, ero convinto che il pensiero l’aveva avuto lui, o almeno cosi mi piaceva pensare, dato che quando l’avevo interpellato in merito, non mi avevo voluto rispondere.
Dopo di che cercai di sapere se c’erano novità sulla mia situazione e che speranze avevo di essere liberato. Niente da fare. L’argomento era tabù.
Non mi volle dire niente.
A questo punto dato che secondo me in Italia abbiamo quaranta milioni di telefonini, gli chiesi di prestarmi il suo per chiamare in banca onde sollecitare la mia liberazione. Almeno avrei saputo com’era la situazione, e se possibile mi sarei inventato qualcosa.
Qualunque cosa era meglio di questo immobilismo.
-Vedi, nessuno di noi possiede un telefonino perché ho sempre avuto la convinzione di poter essere spiato mentre parlo e contemporaneamente rintracciato. Se avevo dubbi me li ha tolti un fatto accaduto qualche mese fa, e che hanno raccontato al telegiornale, un tizio che sembrava sparito lo hanno rintracciato appena ha usato il suo telefonino. Perciò se hanno avvisato la polizia, e naturalmente questo non possiamo saperlo, né ce lo comunicherebbero per farci un favore, in questo caso se tu telefonassi sicuramente ci rintraccerebbero. Quindi niente da fare. Del resto quando ti abbiamo frugato non ne avevi neanche tu, perché?
Per il semplice motivo che non ho a chi telefonare.
Gli potevo dire che la pensavo come lui, e tra le altre cose avevo la sensazione di essere spiato. Comunque ci avevo provato.
All’ora di pranzo mi recai in cucina e aprì il frigorifero per vedere cosa c’era ed eventualmente se trovavo qualcosa per condire la pasta.
Devo dire che non avevano badato a spese, era pieno all’inverosimile, c’era puzza di pesce. Cercai di capire quale era l’involto da cui proveniva, per cucinarlo, altrimenti sarebbe andato a male, in quel caso avrei solo potuto buttarlo.
Devo dire che mi passò per la testa l’idea di lasciarlo deteriorare e poi cucinarlo, in modo da stare tutti male, e costringerli ad ammarare per andare al pronto soccorso, o a chiedere aiuto.
Però pensai che l’avvelenamento da cibi guasti è pericolosissimo e qualcuno avrebbe potuto rimetterci la pelle, e non era ciò che volevo, senza contare che questo qualcuno potevo essere io, la qual cosa non mi sarebbe piaciuta affatto. Anzi mi avrebbe lasciato alquanto stecchito.
Così decisi di cucinarlo subito.
Aprì la carta che lo conteneva e rimasi a bocca aperta, dentro vi erano tre fette di pescespada, che sembravano quasi tre ruote di bicicletta, e dovevano avere uno spessore di almeno tre centimetri. Mai lo avevo visto tagliato così male, e non avevo l’idea di come cucinarlo. Dovevo improvvisare come al solito. Poi pensai che il pomodoro può risolvere quasi qualunque problema culinario.
Ne misi una fetta in padella con dell’olio e un’altra nella pentola, qualche spicchio d’aglio, pensavo che ci stesse, e mentre iniziava a friggere vi versai la salsa e aspettai che cuocesse.
Appena fu pronto, il mio amico versò il contenuto dalla padella nella pentola e andò a portaglielo sopra insieme a due filoni di pane, dicendomi di cuocere la terza fetta.
Erroneamente avevo pensato che quello che avevo già cotto fosse sufficiente per tutti, evidentemente sopra c’era un esercito da sfamare.
Mi seccavo di rimettermi a cucinare, ma se volevo mangiare dovevo farlo.
Quando fu pronta la nostra parte, ne tagliai un quarto di fetta e iniziai a mangiarla senza pane perché mi sembrava troppo.
Giovanni,( l’avevo ribattezzato io, col primo nome che mi era venuto in mente visto che il suo non aveva voluto dirmelo, ed ero stanco di non sapere come rivolgermi a lui), invece rompeva pezzi di pane, li inzuppava nel sugo e se li metteva in bocca insieme a grossi pezzi di pesce, e a volte doveva spingerli con le mani per ficcarseli in bocca. Come faceva a deglutire tutta quella roba che si ficcava in bocca lo sapeva solo lui. Ogni tanto si aiutava a mandare giù il tutto attingendo abbondantemente dalla bottiglia.
Ad ogni modo mi stancai di stare a guardarlo, e andai a sedermi ai piedi della scaletta che portava sopra, e presi a farmi un solitario.
Un paio di volte guardai la luce che entrava dalla botola. La tentazione era forte.
Finalmente uscì dall’osteria, con una bottiglia in mano, un baffo di sugo in faccia e mi passò accanto, ignorandomi totalmente, per quanto ne sapevo per lui potevo essere già morto.
Arrivò in cima alla scala, lanciò la bottiglia vuota in mare, ridiscese, si stese sulla sua sedia a sdraio chiuse l’interruttore e si mise a russare.
Veramente più che russare sembrava uno di quei vecchi mantici che usavano una volta i fabroferrai.
Continuai a giocare, ma ogni tanto guardavo la scaletta. Mi decisi e cercando di non far rumore, salii qualche gradino mentre riflettevo il da farsi. A metà scala mi fermai, guardai indietro per vedere se il mio guardiano si muoveva, respirava affannosamente, mi ricordava un coccodrillo che stava cercando di digerire tutto quello che aveva ingoiato. Altro che muoversi.
Da sopra non proveniva alcun rumore.
Non sapevo cosa fare, non mi decidevo se andare avanti o indietro. Rimasi un po’ in quella posizione, avrei voluto essere un uccello, per sfrecciare via nel cielo azzurro,(eravamo alla fine del mese d’aprile), solo in quel modo ero sicuro di potercela fare.
Rinunciai, discesi e andai a mettermi sul materasso, sperando di dormire in modo da ammazzare così un poco di tempo.
Disteso, guardando il soffitto fatto di tavole, riflettevo sulla voracità del mio compagno di prigionia. La sua era una prigionia volontaria, ma pur sempre prigionia era, infatti passava buona parte della giornata in mia compagnia.
Come me, chiuso in quel guscio di noce.
Probabilmente anche lui era stanco, frustrato, e magari ogni tanto depresso, e forse scaricava la sua tensione abbuffandosi.
Oltre a provare le sue stesse sensazioni, mi sentivo anche impotente in quella situazione, era come se qualcuno mi avesse messo le sue mani sulle spalle e mi tenesse giù con forza opprimendomi, e non potevo fare niente per scappare. Inoltre mi sentivo solo. Ho sempre odiato la solitudine, come la cosa più brutta che esista. Anche se ero in compagnia di Giovanni mi sentivo solo. Mi mancava tutto il mondo, ma soprattutto la mia era una solitudine intrinseca.
Quando portò giù il secchio mi disse, – Ti mandano a dire di non fare più questi scherzi, a pranzo vogliono la pasta, comunque sia condita purché sia pasta, poi se hai tempo (erano pure spiritosi), e fai qualche altra cosa va bene, se no va bene lo stesso. Ma pasta dev’essere.
Non sapevo se arrabbiarmi o no, se piangere o se ridere.
Quando fu l’ora di cena, ficcai la testa nel frigorifero e viste le confezioni di uova pensai di farle fritte. Non doveva essere difficile.
Tagliai un bel pezzo di prosciutto cercando poi di farlo a dadini, era più facile a dirsi che a farsi.
Versai dell’olio abbondantino nella padella, e siccome avevo paura di bruciarmi con gli schizzi di olio bollente che potevano arrivarmi addosso mentre rompevo le uova, non accesi il gas se non dopo averle rotte, aver messo prosciutto a iosa, sale, e finalmente diedi fuoco alle polveri.
Quando furono pronte, prese la padella e versò il contenuto nel secchio dopo averlo leggermente inclinato.
Ma così si rompono tutte, protestai,(forse stavo acquistando una coscienza professionale).
Non ti preoccupare, mangeranno uova strapazzate!
A me sembrava una pappa.
Fanne una decina per noi.
Prese il secchio, due filoni di pane e due bottiglie di vino e gliele portò di sopra.
Rifeci lo stesso procedimento, ma quando furono cotte ne prelevai due per me, prima di vederle sparire tutte.
Naturalmente come avevo previsto, le rimanenti otto se le mise nella padella e inizio a mangiare.
Rompeva grossi pezzi di pane che adoperava come un cucchiaio, si avvicinava il bacile alla bocca e aspirava un bel po’ di roba e altra ve la spingeva. Faceva il rumore di un’idrovora. Altro che lupo famelico!
Con la bocca molto piena mi disse di preparane altri dieci, perché di sopra giudicavano quelli che gli aveva portato come un antipasto.
Dopo aver finito le mie uova, presi due confezioni da sei, li misi come già avevo fatto insieme alle altre cose nella padella, e accesi il fuoco.
Stavolta pensai che aggiungendoci della salsa forse sarebbero venute più gustose. Anzi pensai che forse il peperoncino non ci stava male. Iniziavo a sbizzarirmi.
Il mio amico aveva finito una bottiglia di vino, succhiato tutto quello che c’era nel suo contenitore, e si era persino fatto la scarpetta.
Tutt’attorno alla bocca era impiastricciato di olio e rosso d’uovo.
Gli dissi di pulirsi. Peggio che andar di notte, si sporcò persino la fronte. Lasciai perdere.
Mi accorsi che guardava con occhio famelico quello che stavo cucinando. L’odore era ottimo.
Non mi ero sbagliato, ne prese altre due e li mando giù rapidamente, doveva essersi bruciato la bocca poiché prese una bottiglia e ne vuotò metà contenuto senza fermarsi.
Prese la padella e la portò agli altri.
Appena tornò giù, si attaccò alla bottiglia e la vuotò completamente.
– Che hai messo nella salsa? Fuoco liquido? Però era ottima, mi dispiace di averglieli portati tutti di sopra.
Già, perché per lui le ulteriori due uova che si era mangiato erano solo uno stuzzichino.
Era un po’ arrabbiato e un po’ rideva, di sopra l’avevano preso in giro per come si era conciato in faccia.
Era un mascherone, sulla sua faccia aveva mescolato rosso e giallo.
Salì la scaletta, buttò le due bottiglie, chiuse il boccaporto, si distese sulla sua sedia, mi diede la buonanotte, e mi disse di spegnere la luce quando sarei andato a dormire, e incredibile non mi legò. Perché non lo fece? Perché si fidava di me, o perché era semplicemente brillo?
Comunque si addormentò immediatamente, con la bocca aperta e respirando affannosamente.
Spensi la luce, mi coricai, e incominciai ad avere i soliti incubi.
Due occhialuti mi tenevano inchiodato al materasso con le loro mani che mi schiacciavano il torace e quasi mi impedivano di respirare, un terzo mi appoggiò il coltello sul petto facendolo penetrare lentamente. Il dolore era lancinante. Quando arrivò al manico continuò a premere quasi volesse far penetrare anche quello.
Mi svegliai gridando. Il petto mi faceva ancora male, provavo una sensazione di oppressione e facevo fatica a respirare.
Ci volle un po’ di tempo prima di calmarmi e che riuscissi ad addormentarmi, e a riprendere ad avere i soliti incubi.
Vennero a prendermi in due, doveva essere più o meno l’ora in cui mi svegliavo la mattina per il freddo che sentivo.
Tenendomi ciascuno da un braccio, mi spinsero su per la scaletta, fuori era ancora buio, faceva freddo, battevo i denti anche per la paura.
Sentivo il respiro affannoso di Giovanni farsi sempre più fievole.
Mi legarono i polsi dietro le spalle, e senza tanti complimenti mi buttarono in mare.
Infagottato com’ero cominciai ad andare a fondo, tenevo la bocca chiusa digrignando contemporaneamente i denti, non volevo bere, ma naturalmente mi mancava il respiro e il petto sembrava scoppiarmi e bruciarmi, la pressione dell’acqua gelata su di me si faceva sempre più forte.
La reazione al tuffo mi spinse verso l’alto, e mi fece tornare a galla.
Ritornai a sentire il respiro del mio carceriere, sempre più forte, ero tutto bagnato.
Mi svegliai tutto sudato, tenevo ancora la bocca chiusa, riuscii a prendere un po’ d’aria, il petto sembrava volesse spaccarsi.
Ci vollero sicuramente alcune ore prima di riuscire a riprendermi quasi del tutto, e quando mi alzai stentavo a stare in piedi.
Le giornate erano lunghe, monotone, noiose, e angoscianti.
Il tempo non passava mai. Ora sapevo cos’era il concetto di eternità.
Passavo la giornata cucinando, giocando a carte e passeggiando avanti e indietro da una parete all’altra.
A volte mentre giocavamo mi alzavo, appoggiavo le mani alla parete e vi sbattevo la fronte, piano perché non volevo farmi male, ma dopo mi sentivo meglio, mi aiutava a scaricare la tensione.
Ero chiuso in una scatola di un paio di metri quadri, mi sentivo un sepolto vivo. Ero stato privato della mia libertà, avevo il desiderio di correre libero in una immensa pianura verde, nessuno dovrebbe coercire la libertà altrui. Mi sentivo scippato di una parte della mia vita. Chi mi avrebbe ridato i giorni che perdevo?
Non avevo notizie dall’esterno, ero completamente isolato.
Non sapevo niente della mia situazione, se la mia liberazione era vicina o no. Se un giorno tornerò un uomo libero non sarò più lo stesso, come farò a rimanere chiuso tra quattro mura? Se, se, quanti interrogativi.
Tornerò un giorno a rivedere l’alba con i suoi meravigliosi colori, con le nuvole tinte di giallo di rosa e di violetto, o il tramonto del sole sul mare, quando sembra che l’acqua sia in fiamme, e il sole è un disco rosso sangue.
Rivedrò mai più queste cose? E se le rivedrò quando giungerà quel giorno?
La stiva aveva preso fuoco, vedevo il bagliore rosso attraverso le palpebre chiuse.
Aprì gli occhi e mi trovai la luce di una torcia puntata in faccia.
L’allontanai con una mano e la luce colpì un passamontagna nero; d’istinto mi ritrassi.
– Sono un poliziotto, abbiamo arrestato tutti, lei è libero.
L’abbracciai con tutte le mie forze e anche di più.
– Sono venuto per liberarlo, non per farmi strozzare!
Cosa provai appena emersi dalla tomba, vedendo la libertà sotto forma di un cielo blu scuro? Niente, mi si piegarono le gambe, e meno male che il poliziotto fu pronto a sorreggermi.

5° Capitolo

Mentre con un grosso gommone mi portavano a riva, alla fredda luce dell’alba, vidi sulla spiaggia una decina di auto della polizia.
Appena sbarcato mi si avvicinò quello che doveva essere un funzionario, mi chiese se tutto andava bene, e se ero disposto a parlare con uno dei miei carcerieri.
Era quello che mi aveva tenuto compagnia per tutto il tempo della mia prigionia.
– Mi hanno permesso di parlarti prima di portarmi via. Sei stato un cattivo profeta per me, ciao amico.
– Ciao, verrò a trovarti.
Mentre le macchine si allontanavano, non riuscii a provare rancore per i carcerieri diventati carcerati, Anzi mi dispiaceva per loro.
Essere rinchiusi in un paio di metri quadri è alienante.
D’altronde non si può commettere un reato e sperare di farla franca.
Mentre la macchina andava piano il funzionario seduto alla mia destra, iniziò a parlarmi: -Il suo è stato un rapimento anomalo, abbiamo già arrestato il mandante e ora gli esecutori materiali.
Naturalmente quando iniziamo un’indagine andiamo fino in fondo, cioè cerchiamo di arrestare tutti i correi.
In questo fatto vi sono molti punti oscuri, per esempio: come hanno fatto a sbagliare rapendo lei invece del proprietario della banca? Chi ha fatto la segnalazione errata a quelli che l’hanno preso? Non lo sappiamo e naturalmente vorremmo arrestarlo.
La persona mandante aveva deciso di cambiare la sua solita vita già da alcuni anni, con i soldi ricavati intendeva andarsene in Brasile a godersi il carnevale di Rio, per poi spostarsi a Las Vegas e passare il resto della sua vita divertendosi. Aveva un passaporto autenticamente falso, cioè, il documento era autentico e faceva parte di una decina che era stata rubata sei mesi fa, la foto era la sua, i dati naturalmente sono falsi. Chi gliel’ha fornito? Col suo aiuto speriamo di chiarire anche questo.
– Ma scusi, se se ne andava a giocare nel Nevada, quanto pensava che gli sarebbe durata la sua parte?
– Non la sua parte, ma tutti i soldi. Infatti una volta incassato il riscatto, avrebbe dato, o, mandato, un paio di miliardi ai suoi complici per dimostrare loro che l’affare era concluso, e che potevano liberare l’ostaggio. Accertato che questo era libero (non voleva un morto sulla coscienza), se la sarebbe filata comportandosi da Giuda. Comunque non aveva intenzione di giocarsi neanche una lira.
Qualche anno fa questa persona, a quanto pare, si è recata in un paese che è notoriamente un paradiso fiscale, è entrata in una banca dicendo che avrebbe voluto trasferire una grossa somma dall’Italia, gli hanno aperto un conto corrente, in cui periodicamente versava piccole somme per tenerlo in funzione. Gli hanno anche indicato un istituto di credito nel suo paese, in cui aprire un ulteriore conto in modo tale che, al momento opportuno, avrebbe potuto trasferire i soldi da una banca all’altra.
Naturalmente questo si chiama riciclaggio di denaro sporco.
Ci sono interi istituti che partecipano a queste operazioni, o solo degli impiegati disonesti? Comunque sia vorremmo arrivare alla verità.
A quel punto gridai all’autista di fermarsi subito.
Improvvisamente in quella scatola di tonno, mi ero sentito stringere la gola e soffocare. Io, che ero stato al chiuso in uno sgabuzzino, che ero salito in piccolissimi ascensori, ora soffrivo di claustrofobia.
Mentre tremavo, per calmarmi iniziai a passeggiare su e giù, e mi resi conto che più o meno percorrevo un paio di metri come quando ero rinchiuso.
Riprendemmo il viaggio.
Il mandante dopo sette giorni aveva un appuntamento telefonico con gli esecutori, nel frattempo pensava che avrebbe concluso l’affare.
Contava di presentarsi a lei, dicendo di essere stato incaricato a fare da tramite, convinto che si sarebbe dato da fare a indurre i soci di minoranza a permettergli di prelevare i soldi dalla o dalle banche e a versarglieli per liberare il suo capo.
Senonché le cose si sono complicate con l’avvenuto scambio di persona, e quando i rapitori l’hanno saputo in seguito alla telefonata ricevuta dopo i sette giorni, si sono rifiutati di rilasciarla senza ricavarne un congruo riscatto di due miliardi.
Però lei in banca ha solo duecento milioni, altri trecento era disposto a sborsarli il suo principale, non una lira di più, (quanto poco era valutata la mia vita!). Come reperire il resto? Siccome non lo voleva morto, si è rivolta ad un presta soldi, chi è, chi gliela indicato? Speriamo che quando la faremo parlare con questa donna, riesca a convincerla a dirci tutto. A noi ha detto poco. Forse teme per la sua vita.
Il mangiasoldi, si è reso subito conto che se sborsava un miliardo e mezzo, non l’avrebbe più visto!
Allora ha pensato di approfittare della situazione, abusando della donna, e tenendola buona con la promessa che stava racimolando la somma per dargliela. Lei nella sua disperazione si prestava per poterla liberare.
Senonché questo tizio, ha commesso un errore, a detto alla donna di partecipare ad una festa, dove gli avrebbe presentato degli amici suoi, che l’avrebbero pagato molto bene se restavano soddisfatti delle sue prestazioni, e l’avrebbero fatta entrare in un giro dove avrebbe guadagnato molti soldi.
Cosi si è resa conto di essere entrata in un giro perverso, e che con quello che aveva fatto si era messa in un grosso guaio. E non vedeva via d’uscita.
Cosi è venuta da noi, dandoci le indicazioni per liberarla, e confessando quello che ha ritenuto opportuno dirci.
Rientrammo a Messina, con me che salivo e scendevo dall’auto. Come avrei fatto a riadattarmi al chiuso non lo sapevo.
Mi fecero entrare in un grande stanzone con una sola sedia al centro, dove mi accomodai, questo vuoto mi dava una vaga sensazione di spazio.
Il poliziotto mi mise una mano sulla spalla e mi disse: dev’essere forte, dovrà affrontare una dura prova.
Quasi contemporaneamente si aprì la porta ed entrò mia moglie… tenuta per un braccio da una poliziotta!

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