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Giudicate Voi

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Giudicate Voi

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Anche stamattina ero là, a metà montagna, con la mia capretta preferita: le pecore stavano più su, ma
certo non le perdevo.
Ero attenta io, avevo la vista di un’aquila, come diceva mio padre.
Mi piaceva stare in quella posizione, vedevo bene la casa di certi Signori dove mi mandavano qualche volta a portare il formaggio.
C’era un bambino in quella grande casa, più piccolo di me, ma penso più bello, anche se io non ho un grande specchio per vedermi, nella mia piccola casa. Papà dice che non serve e che così le donne vanno meno dal parrucchiere.
I miei capelli me li vedo, sono lunghi, scuri, lucidi, perché la mamma sa tanti trucchi per lavarmeli; quelli del bambino sono biondi, dorati, ma sono corti, beh, lui è  un maschio.
La mattina il bambino non c’è, perché lui va a scuola, dice la mamma. Io sono fortunata perché non devo andare a scuola per imparare un lavoro, io il lavoro ce l’ho già e negli anni passati ho imparato a leggere e a scrivere.  La scuola è faticosa, dice la mamma e serve per chi deve trovarsi un lavoro. “Povero bambino” dovrei pensare, ma non mi sembra tanto sfortunato. Mi piacerebbe giocare con lui, ma la mamma dice che non si può: loro sono Signori, non sono contadini come noi, non saprei che dire o che fare in quella casa e certo non mi vorrebbero.
Eppure, quando andavo in quella grande casa a portare il formaggio o le uova, mi sembrava che il bambino mi guardasse con curiosità. Forse lui voleva giocare.
La sua tata però lo strattonava via, dicendo che c’erano da fare i compiti e che io, poi, avevo da lavorare e che ero quella là, quella che sta nella capanna, che forse non sa… poi non diceva più nulla, ma faceva delle smorfie, come uno che vuole dire e non dice: aveva una espressione antipatica.
Quando stavo per uscire però mi offriva una ciambella, un dolce, come se avesse un rimorso, ma a me i dolci non piacciono: lo mettevo in tasca, per la mamma.
Mentre guardo penso che non c’è mai nessuno intorno a quella casa, c’è un bel silenzio.
Ma sai che le cose sono strane, appena ti sembra di poter avere un pensiero succede qualcosa che ti fa cambiare idea.
Dietro i cespugli alti dei campi intorno alla grande casa spuntano improvvisamente tre uomini: io d’istinto mi nascondo. So chi sono: sono i fratelli  Maresca, tre che mia madre mi dice di evitare, che sono pericolosi.
Scavalcano il cancello senza fatica e mentre due entrano nella casa, uno forza la serratura del cancello e lo apre.
Non sento rumori: ma poi vedo uscire i due uomini e uno tiene in braccio una specie di grosso involto, come un tappeto arrotolato.
Forse i Maresca sono stati chiamati per dei lavori, ma è strano che siano entrati scavalcando il cancello e ora se ne vadano tranquilli senza neppure richiuderlo.
Aver visto i Maresca , comunque, ha rovinato la mia giornata e mi ha messo paura: come fanno i signori della grande casa a chiamarli per fare lavori? Papà dice sempre che se vuoi che la gente ti faccia lavorare devi essere onesto.
Io i Maresca da quelle parti non li avevo mai visti; li vedevo nelle rare feste di paese e allora mia madre diceva che era meglio allontanarsi da loro, stargli alla larga. Loro mi davano solo un’occhiata di striscio come se non mi vedessero neppure, certo non avevano considerazione per me.
Dopo due giorni, a tavola, papà raccontava quasi piangendo che era stato rapito il bambino biondo della grande casa e che nessuno ne sapeva nulla. La tata non aveva visto nessuno, il bambino dormiva nella sua cameretta perché aveva un po’ di febbre e lei era scesa in lavanderia per sistemare alcune cose.
Allora mi ricordai tutto: dovevo andare alla polizia a raccontare quello che sapevo e dovevo farlo senza dire niente a nessuno, se no, forse, mi avrebbero detto di non far nulla, come sempre, quando ci sono di mezzo i Maresca.
Sono scesa in paese  la mattina dopo: ho lasciato i miei animali nel recinto e mi sono portata solo il cane.
Nel paese c’era la casetta dei Vigili e io pensavo di andare da loro.
Dai Vigili c’era un gran trambusto: era venuto uno che chiamavano il commissario e aveva fatto venire un sacco di gente per parlare con loro. Dicevano tutti di essere testimoni e di aspettare d’essere interrogati.
Quando io entrai nella saletta dove la gente aspettava d’essere chiamata dal commissario, mi guardarono come se io  non potessi dare nessun aiuto e una vecchia signora disse “Ma che ci fa qui, quella poveretta”.
Mi si stavano cucendo nella testa tutti quegli sguardi, tutti quei gesti, tutte quelle mezze frasi che avevo raccolto negli ultimi anni: da quando ero diventata abbastanza grande per capire che cosa pensa la gente. Mi si cucivano nella testa tutti quei pezzi di pensieri e formavano una brutta scritta: “Ti considerano una scema!”
Mi sedetti, comunque, e aspettai il mio turno, mentre sentivo fiumi di pena e disprezzo colarmi addosso.
Ad un certo punto chiamarono anche me ed io entravo nello stanza del Commissario, mentre usciva la tata della grande casa. Quando mi vide disse, con una faccia rabbiosa, ”Ma che cosa volete che vi dica questa scema?!”
E allora non parlai più. Non parlai più con nessuno: guardo mio padre e mia madre, che mi hanno ingannata, mi hanno resa buona solo per le pecore.
Mi siedo ancora a metà montagna per vedere se torna il bambino biondo, ma, per ora, non ho ancora visto nessuno.

 

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