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41054 Marano Sul Panaro (MO)
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Marano sul Panaro (MO)

La cosa più normale e naturale della vita dell’uomo moderno, il caffè. Si può fare in casa per risparmiare, un’intera moka da razionare nel corso della mattina, oppure concedersi il lusso del bar. Poi c’è una via di mezzo veloce, economica e di sapore passabile; è la macchinetta. Ci vogliono le monetine, oppure la chiavetta prepagata che, come un piccolo bancomat, ti rende detentore di un micro credito, dispensatore di piacere mattutino o postprandiale.

Dove la trovi la macchinetta? Un po’ ovunque nel mondo civilizzato. Alla stazione del treno dove spesso ti frega le monete, negli uffici pubblici, affiancata da una vetrina altrettanto prepagata di laide merendine insacchettate, negli ospedali per rinfrancare lo spirito reduce da una nottata insonne, al piano terra delle scuole, ammaccata e provata da tentativi di scasso vari da parte degli alunni. Ma mai ci si sognerebbe di vederne una proprio nel punto in cui…

Come ogni domenica Stefano, spavaldo e single di ritorno, giovane di belle speranze, vagabondava tra le campagne piatte e simpatiche e le colline burrose dell’Appennino, così accoglienti da ricordare sempre e comunque la mamma e con quel profumo che impregna solo l’aria di casa. Aveva tutto l’aspetto di una meravigliosamente noiosa domenica pomeriggio di un noiosissimo settembre, tanto stupido da non prevedere neppure una nube né un po’ di nebbiolina, di quella bruma che fa tanto intellettuale e Frankenstein Junior. Niente. Il cielo di un azzurro-piastrelle-del-cesso e la campagna ancora verde e verdissima, un patchwork di vigne, campi arati e maggesi, niente foglie rosso sangue sugli alberi o stormi migratori verso sud, come esuli pensieri. Sembrava il fratello maggiore dell’estate, più che il figlio primogenito dell’inverno, un giorno così.

Insomma il ragazzo, agile come una gazzella sulle sue gambe sottili, camminava, vagabondava, salutava un fagiano o un gatto dalla lunga silhouette allampanata fatta di avventura e di fame, che si allargava in due occhi fessurati intenti a divorare il suolo in cerca di un boccone. Salutava una farfalla dalle ali tremolanti alla brezza, con le zampe saldamente avvinghiate al botton di un fiore. E pensava a quanto fosse bello annoiarsi così, sparire, non avere sorrisi da fare, capo da chinare, orologi da guardare. Si godeva la sua invisibilità. Poi, in lontananza, un gruppo di case interrompeva il carosello della RAI, come un crocchio di vecchiette curve sulla via della pieve. Dimore abbandonate, alcune già parzialmente crollate, altre che resistevano alle sferzate del tempo, coraggiose, le imposte dondolanti e fessurate, nel pietoso sforzo di stare su. E perché poi? Per chi?

Si avvicinò. Lo incuriosivano le case abbandonate, mostravano ai suoi occhi l’operazione a cuore aperto di un ventre che celava una remota intimità, portando all’aria segreti e serate in famiglia, pianti e tradimenti. Delusioni che non facevano più male, lavate dalla pioggia, dal nevischio e dagli anni. Ma una sorpresa lo attendeva. Proprio al centro di un gruppo di vecchie case cosa ci si potrebbe attendere di trovare, tra l’erba alta e insidiosa di ortiche? Un forno? Un’aia? Una fontanella? Invece in quel brandello di passato, tra le rovine sassose e l’etere privo di onde di connessione wi-fi, esente da suoni e da voci umane, esule dagli schiamazzi, trovò una macchinetta del caffè. Scintillante come appena installata, con quel ronzio elettrico, nenia antica che faceva presagire che tutte le rotelle fossero a posto e gli ingranaggi, ben oliati, intenti a girare. Le lucine a fianco dei nomi delle bevande occhieggiavano verde speranza, accese…

Seguì fin dove gli fu possibile il cavo che spuntava come una coda luciferina da quel macchinario così noto e così inusuale. Recava fino a un palo della luce, vecchissimo, di quelli con i fusibili di ceramica, e vi serpeggiava su su come un racemo d’edera o un rettile avvinghiandosi alla fonte energetica con spavaldo egoismo.

Risolto il mistero dell’alimentazione ne restavano tanti altri da affrontare: chi si era preso la briga di installare una macchinetta del caffè in un borgo di case abbandonate? E per quale motivo? E, se il visitatore avesse inserito le monetine, cosa sarebbe sceso dietro il misterioso cassettino brunito? Dava il resto? Si frugò nelle tasche, una a una, come a perquisirsi. Era uscito senza portafoglio e dovette ispezionare a fondo ogni piega e ogni recesso del suo vestiario prima di trovare una moneta che serviva allo scopo e che spuntò infine, grande, trionfante, accecante. Il gatto di poco prima lo aveva raggiunto e strusciava la sua lucente pelliccia contro il metallo cromato dell’ordigno, come a tentarlo e spronarlo. Il ronzio lo chiamava, voleva che rompesse ogni indugio. Le lucette verdi tutte allineate lo confondevano e rendevano difficile la scelta.

Il gesto del dischetto giallo che scendeva nella fessura fu ieratico e lento, lo vide scintillare al sole, ridere con denti candidi prima di tuffarsi come una sirena in quell’abisso e adagiarsi sul fondo, vuoto, con un’eco desolante. Pigiò il pulsante di fianco a “caffè espresso”, qualcosa di classico, poco inusuale, adatto a un esperimento. Fu un attimo di smarrimento in cui temette che qualcosa di strano potesse materializzarsi dietro lo sportellino. Dopo un eterno attimo di sospensione la macchina prese a vibrare, sembrava lo Shuttle in procinto di staccarsi dal suolo terrestre, una locomotiva a vapore che mette in rodaggio i suoi stantuffi. Poi, all’improvviso, si fermò e qualcosa di bianco apparve, indistinto, dietro il plexiglas opaco. L’inequivocabile rumore di qualcosa che cola, di un rubinetto che perde, lo scivolare di una polverina e di un oggetto leggero. Poi la macchinetta gli parlò con le sue lettere a led rossi: “Prelevare… grazie!”.

Fece la conta per trovare una mano volontaria a inoltrarsi in quel piccolo antro e afferrare l’oggetto sospetto. Un bicchierino di plastica con un liquido nero, bollente e profumato. Le narici lo aspirarono tutto, il vapore che si allontanava e saliva dalla bevanda. Il gatto teneva un occhio chiuso e l’altro appariva ancora più grande e curioso.

“Beh, che c’è? Mi sono fatto un caffè!” lo apostrofò Stefano con l’aria più naturale di questo mondo. Quello non rispose e lo snobbò voltandogli la schiena. Aveva capito che con lui non c’era trippa per gatti. Solo allora, lontano da sguardi indiscreti, osò gettar nella gola il contenuto del bicchiere, tutto d’un fiato, non prima di aver girato vigorosamente lo zucchero perché non restasse appiccicato sul fondo. Un buon caffè, davvero buono. Mancava la pattumiera e avrebbe dovuto portare il bicchierino con sé fino al mondo civile, così lo schiacciò un pochino per farlo stare nella tasca. Il gatto si era infilato nella finestra senza vetri della casa più vicina, inghiottito fino alla punta della coda da quei muri vetusti che di certo gli avevano offerto ricovero in altre circostanze. Il giorno declinava, in autunno le ore di sole, si sa, diminuiscono, siamo portati ad accorgercene solo lontano dalla città, dove la luce solare ha il suo preciso scopo. La macchinetta aveva ripreso, quieta, a ronzare. Le lucine verdi diventavano più brillanti al crepuscolo, come luminarie di Natale. Stefano lasciò spaziare lo sguardo per abbracciare tutta quella meraviglia, assorbirla prima di riprendere il cammino. Ma si incagliò in un rosso, colore che non apparteneva all’autunno che imbruniva nel riposo del sole. Era una chioma che svolazzava lievemente e continuava in una impercettibile sagoma di donna in grigio, accoccolata su un sasso squadrato, vetusta opera umana, dall’uomo rifiutata. Strizzò gli occhi avvicinandosi piano, quasi impertinente in quel suo fissare e, quando fu più presso, lei alzò il capo e gli sorrise con labbra che l’oscurità rendeva neutre, incolori. Aveva in mano un bicchierino di plastica.

«Anche tu qui per un caffè?» lo apostrofò senza salutare con una voce che, in quel perenne silenzio, suonò irreale.

«No! Io non so neppure perché ci sia, qui, quella macchinetta!»

Lei strinse le spalle: «Nemmeno io, però le bevande sono buone. Dovresti assaggiare la cioccolata…» e mise il naso nel bicchiere prendendo un sorso.

Stefano sedette accanto a lei, abbracciando le ginocchia perché le sue mani non vagassero in posti strani. I nasi svettavano paralleli verso l’orizzonte dove il chiarore era ormai una striscia sottile, poi lui propose: «Dovremmo tornare in città, tra poco sarà buio pesto». La ragazza annuì, poi trasalì come se all’improvviso le fosse sovvenuto di una cosa molto importante: «Non ci siamo neanche presentati, che sciocchi!». Lo fecero, poi si incamminarono insieme verso il sentiero, striscia bruna che li avrebbe ricondotti alle loro vite, gettando un ultimo sguardo alle lucine della bizzarra macchinetta, occhi invitanti che sarebbero rimasti accesi nel buio a confortare la veglia di un gatto.

 
 

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  1. Gioia Francisci
    Originalità

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    Mi è piaciuto e mi sono divertita ad inoltrarmi nella scrittura spericolata di questo autore, un racconto piacevole , scritto bene e su due linee di narrazione, una in superficie, diretta e spiritosa ed un’altra leggermente sottotraccia, profonda e poetica. Divertente e capace di far ben comprendere a chi sta leggendo la visione di chi ha scritto.

    7 anni fa
  2. Anna Maria Funari
    Originalità

    Coinvolgimento

    Stile

    Che scherzi può fare un caffè?
    Ma soprattutto che scherzi può fare la curiosità. Delicata storia che sconfina a tratti nel surreale ma che, con un bel linguaggio diretto e pulito, rapisce il lettore e lo conduce nel tenero mondo della vita e,perché no?, dei sentimenti.

    6 anni fa

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