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Piccolo poema Lametino

Piccolo poema Lametino

88046 Lamezia Terme (CZ)
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Piccolo poema Lametino

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Udire il mondo da un angolo di spiaggia, nel silenzio il mare muta forma,
aspetto, colore che lungi per diversi giorni porta seco ogni rifiuto, trasformandosi in una cloaca a cielo aperto, un rifugio di gabbiani impazziti, svolazzano nell’aria come sciacalli in attesa giunga a riva la povera carogna. Oltre ogni giudizio, felice o dannato che sia, perduto in onde anomale, forme incomprensibili dell’intelletto umano che provvede a vedere lo mondo come gli pare e si consola assai del suo aspetto, di cosa sia il vero, ascoso in molte rime liete. Bagnanti, mutanti all’ombra degli ombrelloni perduti dentro un discorso, divoranti dalla loro metrica, da loro fallace dialetto, che risuona tra Stromboli e Filicudi andante fulgido per le vie di Palermo a bordo d’una carrozzella, sciurillo di tutte l’anno, sciurillo che bello cianceia, sollazza te canta romanze, ti dice scinnite, magnatevi nà granita, di grazia signore meo di buffo aspetto a botta di pernacchie, site arrivate fino a Mondello. Strummoli e funicelle lo caruso joca sotto lo sole, spuorco , miezzo ignudo con un sorriso innocente sulle labbra, la sua innocenza, visione d’un mondo antico, votato in parlamento, con la scimitarra in mano da un coglione di Caltanissetta che urla: voglio la cape degli infedeli.
Ah mondo infame, figlio illegittimo della lupa, pacchianella, poverella, con la borsa in mano, incapace di reagire, rapace arpie gli saltarono addosso, sangue che macchiò il basalto, il fico d’india, la terra bedda. Attraverso l’interagire con bagnanti e mondi immaginari, elevare il proprio verso ad una nuova visione sociale.
Il sole riscalda le parole, fredde lettere, provenienti da Milano,Torino, Bologna, tutto prende vita nel discernere il bene dal male, nel lieto comprendere, s’affrontano i saraceni, al fianco dei prodi paladini si combatte la dura guerra. Mille leggende che narrano di draghi e cavalieri, di Renzi e di Chiellini delle geste di Gonzalo Higuain, delle balle di D’Alema, della perfida Albione ritornata sola al cospetto del mondo intero.
Un mondo, una storia un attimo, un delirio, un dire,un fare, una diversa concezione, una nuova creazione.
E quando credi che tutto sia diventato un gioco, un risalire a galla, un congiungere a questo interloquire, qualcosa si raggomitola in se stesso e langue nel suo spirito, nel suo lento morire.
Tutto falso o troppo difficile da digerire, lasciarsi andare verso mete estreme, giungere ove mai nessuno è giunto. In cima ad un monte o sulla luna insieme ad Astolfo in groppa dell’ippogrifo, oh meraviglia o dolce fantasticare per rime sparse tra i campi di grano saraceno, tra i fiumi limpidi, tra le maestose Madonie, montagne impervie, ove la verità fiorisce insieme al sambuco.
II
Ora affogare dentro un bicchiere di vino, sotto lo sguardo di una donna cannone, nella vita, nella morte, nell’incerta amicizia, dietro ad un carro funebre per le strade assolate d’un misero paese, dentro una bara, dentro al domani con le valigie in mano, di nuovo pronto a partire per un luogo lontano e la storia ti osserva, ti giudica, ti ricorda chi sei. Dentro questa stupida poesia con tutti gli errori commessi in una esplosione espressiva in una città che scompare e riappare nei ricordi. Con la gioia di credere di essere ancora vivi, oltre tutto il male che ti può capitare oltre questo giorno, lascia che il sole tocchi la tua pelle ed il mare la bagni ed il tempo faccia il suo corso. Scivolando lontano dal soffrire, da mille ipotesi suggestive da volti e innominate conclusioni, una sapienza che si riassume in poche frasi perse, nell’essere nel fare che conduce lontano, verso nuove terre, in compagnia di migranti, briganti, su navi zeppe di cadaveri, solcare l’oceano, onda su onda nel ricordo, moribondo mondo, approdare dove il destino comanda, dove la morte c’attende. Ora in trepidante attesa fuori una stazione ferroviaria mentre ogni cosa si muove intorno, mentre il mondo si trasforma in un altra follia, in un grido di dolore, in una nuova guerra senza significato, ogni cosa ritorna ad essere un gioco, origine di un linguaggio illogico, incapace di trasmettere sentimenti, idee, modi di coniare la breve illusione stipata dentro se. Giochi grammaticali, guerre sanguinarie di verbi e vocali in mezzo ad una piazza con a capo il scemo del villaggio che dirige questa pazza orchestra musicale. Mentre tutti seguono il filo di questa follia, il sole brucia, splende, riscalda la sabbia, che tramuta il corpo da bianco in nero. Mentre si cerca di essere il silenzio ti riporta all’inizio del viaggio intrapreso, di nuovo con il sacco a pelo sulle spalle, di nuovo alla ricerca di un luogo ove poter essere felice poter riflettere sul proprio passato, nel proprio futuro in un amore liquido così simile al mare.
III
In questo pigro meriggio, rincorrendo le dolci parole dell’estate, nell’estasi dell’ossesso, scivolare dentro la storia degli ultimi, nel silenzio dei diseredati, nelle voci dei bimbi abbandonati, nel canto della cicala, nel caldo vento che ti porta lontano sui monti ai piedi di antichi dei. Nello cunto della vecchia scartellata presa a scarpate, che diceva lassa fari, prima o poi s’accorgeranno del male che ha due facce, e si pentiranno dei torti fatti, la vecchia camminava nell’ombra d’un rosario di spine, miezzo alla gente accumpareva, gruosso e piccirillo la vedevano all’intrasatte, parecchi facevane i viermi cuorpo, altre s’avasciavano lo cazone si mettevano a cantare, canta che ti passa, la vecchia purtai a tutti quanti, sopra un monte là da quella nera rupe iettò tutti quelli che l’avevano sempre cuffiato, poi lavatosi le mani come Ponzio Pilato ritornò a casa da sola ad aspettare la morte soia.
IV
Cosi oltre ogni immaginario descrivere l’umano arbitrio, il combattere contro orde di orchi o migliaia di gente incivili. Nel frugare dentro la memoria di un mito, nel dolce canto di un antica estate. Senza comprendere, senza provare a giustificare la logica delle cose circostante in una amena soluzione a questo lento perire. Parlare, credere ancora cercare d’uscire dall’acerba sostanza, dal pigro gemere, sottoscrivere contratti o altre terribili cambiali, il mondo ti rincorre e con esso l’onda dei ricordi del duro lavoro svolto. Estate languida, sdraiato sulla sabbia, nel fiore degli anni, mostri ignudo il tuo frutto. Maturo il corpo, caldo nel solleone
nel lascivo divenire, timide melodie accompagnano queste rime per solitarie spiagge. Nulla è giustificato, nulla in seno al creato, congiunto a teologie della libertà, anticamera di una tetra ragione. Stagione dello spirito, invecchiare, crescere, allungare le proprie braccia, verso il cielo azzurro tra le nuvole, nascondere tra le fronde dei nodosi rami, i nidi di acerbe idee. Come natura madre, malvagia, madre tiranna schiava del suo amore, del suo creare.
Ogni cosa finisce e rinasce, scemando in un senso sinistro in un fascio di raggi solari che riflettono sul mare, tra gli ameni ombrelloni, fuoco, fiamme, occhi, labbra, braccia, mani, corpi uniti, congiunti, fusi in una unica realtà, in unico corpo.
V
Tutto finisce, tutto ricomincia seguendo l’ordine delle cose, ordinati per fila cresciuti dietro un banco di scuola con un insegnante dal naso appuntito, dagli occhi verdi, dalla lingua rossa che si scioglie come un gelato al sole nel raccontate dei miti dell’antica Grecia. Migranti drammi di uomini venuti da lontani continenti, insieme ai loro affanni, alle loro speranze, solcando diversi mondi sfidando l’ira di un dio denaro, cosi simile alla morte.
Termine di paragone, gorgone ferita in un bosco che ti guarda con i suoi grandi occhi si trasforma in altra forma, in un altro guerriero, in altro eroe. Tutto passa con gli anni, tutto entra ed esce, senza chiedere nulla in cambio, bizzarri ritornelli, allegre esperienze, mezzi discorsivi, pretese sessuali, avamposti cosmici in attesa tutto accada, tutto diventa un altra storia, un altra leggenda da raccontare in notti fredde e solitarie.
VI
Questa vita rifiuta e accetta, cede nel credere, nell’amare, nel redimere la sorte d’ognuno. Ignominia o ignara sostanza mezzo o fine in ultimo, tutto si trasforma in ciò che abbiamo desiderato in ciò che abbiamo deriso.
Solo  nel solco di mille battaglie, Giugliano, spoglia latrina, periferia, luogo materno, ombre di anni passati con tanta rabbia in corpo. Solo, oltre questo mistero chiuso in me stesso, simile alla gorgonie, ferita nel bosco simile ad un cane randagio. Parole volgare che volano intorno Villaricca antica Panicocoli, trappola per topi, camposanto d’operai, di idraulici, di infermieri, di giudici e poeti. Politici, criminali, meccanismi collegati ad un unica retorica, ad un unico pensiero che scolora all’alba, rivive nel sole, muore dolcemente nel tramonto. Estate, eterno viaggio, ritorno alle origini, tutto così complicato, così incline ad una cattiva digestione. La dove prese vita ogni cosa, al passo con il tempo trascorso. Abbandonarsi alla brezza del vento marino, miezzo o grano miezzo a sti’ parole storpiate e sincere in fila fore a questa latrina.
VII
Dovrei ridere, ridere a denti stretti in riva al mare mentre remo in un mare di rime, cretine, dolci e persuasive che giocano con mille melodie che passano, in flebili passioni in fiori appassiti fuori al balcone. Questa melodia funesta, intrisa di mistero di oltraggi, coltivando ortaggi e altre fandonie. La sera scende velocemente calando il suo sipario su giorni e gioventù audaci.
In groppa appare trionfante Nettuno, seguito da uno sciame di sirene, urlanti che fanno scappare tutti i bagnanti, così rimango da solo sulla spiaggia ad ammirare questo fragile, tenero, possente tramonto.
Un altro giorno volge alla fine, nero in volto, una mano che tira la corda lasciando scendere dolcemente il pesante telo, debole luce s’infila tra le fessure delle fosche nubi, lievemente scolora, tingendo il mare di fragili colori.
L’oscurità è pronta a scendere a inghiottire in se ogni cosa, lasciando solo nel cielo infinito le stelle luccicanti che a tarda notte indicano ad amanti e marinai la strada per giungere salvi nel regno dei sogni.

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