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Il giardino delle storie intrecciate
Scheda Verificata

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Il giardino delle storie intrecciate

Giardini Lamarmora, Via Cernaia
10122 Torino
Luoghi e Paesaggi Racconti
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Il giardino delle storie intrecciate

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Adesso, parlando di me, dico che sono di Torino.
Mia sorella e io avevamo unghie lunghe smaltate e tacchi troppo alti per le ragazze torinesi di allora. Ma noi, si sa, venivamo da Roma. Le uniche senza calze nell’estate del ‘62.
Ora abito di nuovo in centro, vicino ai giardini La Marmora, uno spazio disegnato più di un secolo fa, garbato residuo della Torino elegante.
Ippocastani, faggi, magnolie, due ginkgo biloba gialli in autunno, compongono una scenografia verde e compatta dietro l’eroe immobile.
I giardini di giorno sono un porto di mare, una fuga dalle case strette, un luogo di incontro per pensionati, cani e ragazzi.
La piazza è vuota soltanto di notte, con presenze furtive acquattate nel buio dietro i cespugli o i lampioni.
Gli echi delle fanfare si sono spenti. Anche i ‘toret’ e le fontane tacciono.
Qui, su uno dei palcoscenici della città, si affacciano i personaggi delle mie storie e non tutti si potrebbero vedere.
Dal retroscena suggerisco le parti.
A CERA PERSA
La gente passa e mi ignora. Sono morto e sepolto, abbandonato notte e giorno in questi giardini, in cui sopravvivo muto, sguardo fisso e udito di bronzo.
Nelle giornate tiepide molti vecchi se ne stanno accucciati al sole sulle panchine. Vengono invece pochi bambini.
I bambini mi sono sempre mancati. Io non ho avuto figli, proprio io, l’ottavo di tredici fratelli, senza neanche un erede.
I ragazzi giocano spesso intorno a me. I più coraggiosi mi toccano e scappano via.
La gente frettolosa mi gira attorno, mi evita.
Per chi cammina e non si ferma, sono soltanto un ostacolo. Il passare degli anni ha rarefatto il mio nome, quasi cancellato la storia. Nuovi governi la riprendono, quando servono parole come coraggio, eroismo o dedizione.
Non era questo che volevo, se pure qualche volta nell’esistenza mi è stato concesso di volere qualcosa.
Non era la vaghezza di una fama perpetua a guidare le mie azioni di un tempo, ma un senso del dovere brutale, un obbligo per ogni figlio maschio di allora.
Ero un bambino, quando la signorina di Sordevolo, della mia stessa età, giocando in giardino, mi diede un bacio e mi impose:
“Dobbiamo sposarci.”
“Molto volentieri,” risposi “ma prima bisogna che io perda un braccio in una grande battaglia.”
Ero ancora un ragazzo, quando ho avuto il primo incidente. Già facevo il soldato. A quindici anni. A Grenoble. La polvere da sparo mi offuscò la lucentezza degli occhi, che divennero simili a quelli duri che ho adesso.
Il secondo incidente fu proprio nella mia officina: una pompa rudimentale mi scoppiò tra le mani. Un’altra ferita in faccia.
Cosa potevo fare, guastato così, se non dedicare tutto me stesso all’esercito?
Non è stata una scelta. I maschi della famiglia venivano destinati alla carriera militare. La guerra era il nostro mestiere. E non importava come e perché. Contava solo la fede nei Savoia. Obbedivamo ciecamente ai loro disegni ambiziosi.
[amazon_link asins=’8864663673′ template=’ProductAd’ store=’storiedicitta-21′ marketplace=’IT’ link_id=’2236b6b9-1131-11e7-a8f5-7d720ea00be3′]I miei fratelli diventarono grandi uomini politici, studiosi, scienziati. Io rimasi sempre e soltanto un militare. Fu la loro fame di gloria a dare lustro al mio nome. Sono loro, il mio stesso sangue, ad avermi voluto qui, immobile. Eppure un destino comune l’abbiamo avuto. La nostra sconfinata famiglia, come incapace di andare incontro al futuro, non ebbe discendenti.
Sedici erano stati i frutti del grembo di mia madre. Tredici vivi.
Quando ad avere figli toccò a noi, i pochi nati nelle nostre case trovarono la morte ad aspettarli, chi dopo qualche giorno, chi dopo qualche mese. Delicatezza di costituzione, fato avverso?
Certo è che i lunghi corridoi dei nostri palazzi non risuonarono mai di garrule voci infantili.
Io, Alessandro Evasio Maria Ferrero della Marmora, avvitato in questi giardini su un piedistallo, a gloria di un remoto passato, adesso vorrei soltanto riuscire ad ascoltare il canto mattutino degli uccelli, ad avvertire le loro zampe lievi sul cappello piumato, sulle spalle brune e fredde.
Arrivano a gruppi i colombi. Mi si posa su un braccio una gazza come quelle che a decine saltavano sopra i tetti del castello del Ciochéro, dove d’estate coi fratelli giocavo alla guerra.
Sono un re di bronzo, l’impassibile sovrano di questo territorio.
Fin quassù, ai miei timpani duri, arrivano in forma di eco le voci vibranti del regno che comando: sussurri, musiche, grida, imprecazioni, richiami di genti diverse e incomprensibili, rimbombi sul selciato della strada vicina, sciabolate di luce.
Sdraiati sulle panchine, sotto i loro miserabili cartoni, nelle sere stellate mi guardano gli occhi obliqui della mia piccola corte. Qualcuno mi confonde con la statua di un santo e mi prega.
In effigie ho un bel volto virile, sereno. Le cicatrici sono state cancellate, perché un eroe deve essere così: integro, dentro e fuori.
Nessuno, qui, sa qualcosa della mia morte. Un generale piegato sulla latrina in un paese straniero. Un eroe ucciso dal colera senza neppure avere iniziato la guerra.
Con una statua, che porta scritto il mio nome, credevano di consegnarmi all’immortalità.
Quando il monumento venne inaugurato, la voce di Alfonso era alta e vibrante sopra la folla delle grandi occasioni (ombrellini, vestiti di seta, le piume al vento dei miei bersaglieri):
“Un soldato integerrimo, un valoroso!”
Dalla mia morte erano trascorsi poco più di dieci anni e già non ero altro che una statua vuota.
A me sarebbe bastato dedicarmi a inventare l’arma perfetta, leggera, maneggevole.
Per questa passione alla fine ho davvero meritato la fama. Ho creato una nuova fanteria, fulminea e leggera come l’arma perfetta cui ambivo. Non è un caso che dal lato opposto dei giardini stiano i miei bersaglieri e non importa se anch’essi sono solo figure di metallo fissate a un muro finto.
Fondata la fanteria veloce, avrei potuto invecchiare con una moglie vicino e un figlio maschio a cui passare il nome.
Nessuna donna mi era stata accanto durante la giovinezza, quando la natura fa spuntare, anche sui rami dei tronchi antichi, germogli che daranno nuove foglie, buoni frutti.
Io ero già un albero sterile, colpito dalla tempesta, prima che uscissero le gemme.
Avevo quarantanove anni, quando una pallottola mi prese un’altra volta sul viso. Mi spezzò la mascella. Un’altra disgrazia. La faccia sfigurata.
I medici non riuscivano a farmi guarire. Le ossa non si saldavano. Potevo mangiare soltanto con l’aiuto dei servi che mi tritassero il cibo.
Fu nella mia officina che ancora una volta cercai la soluzione. Costruii una struttura che teneva insieme le ossa fratturate e una macchina per macinare gli alimenti. Lavorare con le mani mi diede il coraggio di reagire all’ennesima ferita.
Dopo sette anni, sono andato a morire in Crimea.
La sorte, che ironia: da sapiente quale mi sentivo, avevo scritto un opuscolo sul colera che già avevo visto diffondersi a Genova.
Proprio a Genova avevo incontrato Rosa. Un anno di matrimonio e Rosetta si ritrovò di nuovo vedova. Io avevo cinquantasei anni.
Inchiodato qui, spesso dimentico il passato. Tutte le cose vanno e vengono. La storia le travolge. I nomi, dopo qualche tempo, si confondono.
I bambini corrono a giocare ai miei piedi. Si arrampicano e arrivano, piccoli come sono, a cercare di interrompere il passo veloce con cui mi hanno rappresentato. Si aggrappano alla spada sguainata. Rubano le palline d’oro che in certe ricorrenze, come finte bacche, decorano la corona alla base del monumento.
Gli abitanti del giardino, poveri sudditi, matti, vecchi e sbandati, non sanno delle mie sfortune. Passando, mi vedono forte, nero, alto come un gigante e cercano protezione. Per ripararsi, qualcuno entra persino nell’impalcatura che in questi giorni mi copre.
Da centocinquant’anni non mi muovo, eppure da qui ho visto tutto. So tutto. Così ho quasi dimenticato chi ero, le mie ferite, la morte ignobile che mi colse in Crimea, identica a quella di centinaia di soldati che il colera si portò via senza tenere conto né dei gradi, né delle mostrine.
Forse gli antenati avrebbero voluto che io, qui, imponente nella divisa da generale, ricordassi al mondo intero imprese eroiche, assalti all’arma bianca, il rombo dei cannoni a Goito. Ma la mia faccia è di bronzo. Non esprime sentimenti.
Io sono qui come i miei sudditi, abbandonato nel giardino che porta il nostro nome, in cui sopravvivo muto. Intorno a me, di notte, chi si ripara dal freddo, chi aspetta, chi dorme, chi passa furtivo. Di giorno, i litigi dei ragazzi, i desideri taciuti dei vecchi, le risate e i pianti dei bambini, le donne tristi, sedute da sole sulle panchine.
Per tutti loro vorrei scendere dal piedistallo, ma ho gli stivali avvitati nel marmo.
Così io, io, Alessandro Evasio Maria Ferrero della Marmora, a gloria di un remoto passato, resto fermo sul mio basamento e mi guardo intorno.
Del gran generale che ero, resta soltanto questa fusione a cera persa, un monumento dei miei tempi, antiquato e retorico.
La gente di adesso giustamente mi ignora.

NATALE
Aspetterà la stella cometa.
Sa che si ripeterà il miracolo. Lui ne è stato testimone.
È questo il periodo giusto, quando si accendono le luci natalizie sulla strada coi portici e gli sfila davanti tutta la città: le signore con i pacchetti-regalo, i proprietari di cani col cappottino, i benefattori dei colombi, i ragazzi, che, seduti al freddo per evitare la scuola, aspettano l’ora di pranzo per rientrare a casa.
Giuseppe è sulla settantina, barba lunga e capelli in un’unica massa bianca e riccia, e trascorre i giorni e le notti su una panchina dei giardini La Marmora, i giornali sul petto a chiudere il passaggio del vento che certe sere arriva a smuovere l’aria ferma del centro.
Ci sono anche altri come lui.
Il rumeno suonatore di fisarmonica arriva puntuale alle nove di mattina, ben vestito. Pulisce il suo angolo, mette per l’elemosina una scatola a terra e attacca la Cumparsita.
Una donna grassa, col vestito di cotone sotto il cappotto e le ciabatte macchiate, resta tutto il giorno lì e intanto parla da sola a un marito che, se esiste, ai giardini non è mai venuto.
Alla sera, sempre alla stessa ora, un uomo apparecchia tranquillo una panchina come fosse a casa sua, mettendo in bell’ordine pane, bicchiere, tovagliolo e posate.
Col buio, accanto a Giuseppe, si allungano ombre che compaiono furtive a notte fonda, quando le finestre dei condomini sulla piazza sono tutte spente e restano accese soltanto le scale, che disegnano rosari di luce.
Lui, da lì, da quel giardino, non si allontana. Al massimo, trascinandosi dietro a ogni passo le pantofole, arriva fino alla Cittadella, tanto per cambiare. Per dormire si copre con un sacco a pelo, se piove con un ombrello, ma neppure in questa stagione va a ripararsi sotto i portici. Resta lì e parla da solo guardando il cielo. A volte prega Dio inginocchiato sui gradini del monumento, come se fosse in chiesa.
Aspetta la stella cometa.
Nel quartiere lo conoscono in tanti.
“È stato ricoverato per anni a Collegno.”
“È un povero matto. Parla sempre con Dio.”
“Quando fa troppo freddo, dopo Natale, lo portano via, ma a marzo puntuale ritorna.”
I vigili, alzando la coperta umida col manganello, lo svegliano presto al mattino perché ritiri le proprie cose dietro al monumento al Bersagliere e intanto gli danno qualche soldo per un cappuccino caldo o un caffè.
Dicembre è un mese speciale nella vita di Giuseppe e lui, gira e rigira, passa il tempo a ricordare quello che gli era successo una volta. Per questo aspetta la stella cometa.
Le misteriose cose di Dio erano state seminate nella sua vita a poco a poco, in modo che lui, mentre gli accadevano, non ne vedesse il disegno. Per non spaventarlo forse.
Non era stato un caso che si chiamasse Giuseppe e che le preghiere fin da piccolo gli uscissero dirette dal cuore, che a otto anni fosse andato apprendista da Cristoforo, il falegname con la bottega al Calvario, in cima al paese.
Appena grande abbastanza per la Cresima (ma in quale posto, in quale tempo?), sua madre gli aveva detto, raccomandandosi di non farne parola col prete, che di Gesù non ce n’è stato uno solo:
“Dio, vedendo la fine di suo figlio, una volta l’anno ci ritenta. Ti pare che come vivono gli uomini, non avrebbe mandato qualcuno? Per farli pentire, dice Don Carmine, per aiutarli, dico io.
Così ogni Natale nasce un altro Gesù, sempre povero e lontano da casa e dobbiamo sperare che almeno una volta non faccia la fine di quello famoso. Pure lui, tra Erode e la fuga in Egitto, c’è andato vicino a morire da piccolo!”
Giuseppe non aveva creduto a quella storia dei tanti Gesù. Aveva dato retta a Don Carmine e vissuto in seminario due anni. Aveva studiato la dottrina della Chiesa, quella vera. Col tempo era diventato particolarmente devoto a Maria.
La vita era volata in un lampo. Un giorno sull’altro, un mese sull’altro, un anno sull’altro, come i chilometri per arrivare a questa città del nord, puzza di macchine e lavoro. Città delle montagne, delle fabbriche, dei manicomi. Non ricorda più quanti anni sia stato rinchiuso e adesso riesce a dormire soltanto all’aperto.
“Dio ha voluto questo per me. Perché voleva riprovarci. Mica un Dio si arrende”.
Aveva studiato sì, ma troppo poco. Perché avesse smesso, non lo ricorda, a volte non sa dire neppure il suo nome e lo cerca mormorando, finché gli torna in mente: è il nome del padre di Gesù e tale lui è stato per qualche ora, e forse il bambino avrebbe potuto avere più fortuna, se… E sotto il cielo basso elenca tutti i se: se lui avesse avuto un lavoro, se non avesse bevuto, se non fosse stato tanti anni a perdere la testa a Collegno, se, soprattutto, quel piccolo fosse stato davvero suo figlio e non figlio di Dio, perché allora, se fosse stato davvero suo, l’avrebbe difeso a ogni costo.
Un padre così deve fare, non come Dio che i propri figli li lascia morire sulle strade del mondo, nelle grotte, in terra, dentro le navi sperdute sui mari. Proprio come è successo a Gesù, venuto da gente povera, vinta, scappata.
Quando trova un giornale nuovo, Giuseppe, prima di infilarselo in petto, lo scorre dall’inizio alla fine. Sono più calde le parole conosciute. È lì che impara le cose, che cerca tra le righe notizie di altri Gesù, ché di bambini dovunque ne nascono e muoiono.
Soprattutto in questo periodo dell’anno, legge con attenzione, perché il miracolo può accadere in altri posti del mondo, qualche giorno prima della data, oppure dopo, e la stella può comparire dentro un festone o sulla facciata di un palazzo per un riverbero, per la luce di un paio di fari.
Come quella volta…
La cometa era alta e ben disegnata in cielo, mentre lei partoriva seduta a gambe larghe nell’erba gelata.
Si erano conosciuti in strada, lui fuori da pochi mesi, senza casa, né lavoro, lei arrivata chissà da dove con quella pancia tra le mani. Lui era già vecchio, lei era una ragazzina sperduta e non gli aveva chiesto nulla. L’aveva guardato negli occhi passando e si era fermata, con un sacchetto per mano, sulla stessa panchina.
Poi, dopo qualche giorno, gli aveva dormito accanto e lui la guardava nel sonno e le toccava piano gli occhi e le labbra, perché non aveva mai sfiorato una donna, ma questa quasi la sentiva sua figlia e aveva preso a badare a lei, ad accompagnarla dalle suore che distribuiscono pasti caldi al mattino e quella addetta alla pasta le aveva fatto qualche domanda sulla pancia, ma lei non aveva risposto, si era tirata indietro con dolcezza, come se non avesse bisogno di nulla.
Non parlava. Per quel mese che avevano vissuto assieme, la ragazza era rimasta in attesa, muta.
Lui nel cuore la chiamava Maria.
A volte di notte, dormendo vicini per ripararsi dal freddo, Giuseppe la sorprendeva a guardare il cielo. Una volta o due, si avvicinava il Natale, l’aveva sentita piangere piano, rassegnata.
Quella volta lì era toccato a lui, a Giuseppe, assistere alla nascita di Gesù, e può succedergli ancora, complici il giardino, fondale per un nuovo Presepio, e il monumento, che sembra quasi una capanna, avvolto com’è, per il restauro, in teli e ponteggi.
La ragazza quella sera aveva gridato, mentre lui le teneva la mano. Era successo di notte e Giuseppe non aveva saputo fare altro, perché Maria non gli aveva detto nulla, aveva soltanto tremato più forte, fino a urlare, ma senza parole, con la disperazione di chi mette al mondo qualcuno per una volontà che non è sua e Giuseppe la vede ancora sul prato, serva di Dio, gemere per quel figlio che non sarebbe arrivato a trent’anni come l’altro, con tutto quel freddo. Eppure Giuseppe non si era arreso: quasi sentendosi padre, aveva chiesto aiuto agli altri del giardino, dicendo che venissero, perché lì dietro era nato Gesù.
Dio, quella volta, gli aveva mandato una prova troppo grande.
Intanto il bambino, coniglietto scuoiato, moriva di freddo. La ragazza ormai aveva smesso di urlare e stava tra gli stracci sull’erba.
Da quelli dell’ambulanza Giuseppe aveva sentito dire che Maria si sarebbe salvata, ma il bambino no, che per gli stenti l’aveva partorito troppo presto, ma invece, lui lo sapeva, era nato in tempo, la notte di Natale esatta, esatta.
La stella, mentre caricavano Maria, era tramontata dietro alla magnolia gelata. Lui l’aveva vista bene, lucente, dorata, annunciare quella morte.
Il bambino era rimasto ultimo sul prato.
Non aveva più rivisto Maria.
Dopo lo avevano rinchiuso di nuovo e lui aveva passato anni, raccontando che si chiamava Giuseppe ed era il padre di un bambino che, se non fosse morto di freddo, sarebbe stato Gesù. Ogni Natale ne nasce uno, povero e senza casa, per adesso sempre ucciso da qualche Erode, dalla fame, dalla fuga verso un paese vicino. Allora gli chiedevano dove fossero Dio e lo Spirito Santo, visto che lui era il padre di Gesù, ma Giuseppe non rispondeva. Sentiva di averlo dentro, con sé, quel Dio e, alla fine delle sue preghiere, sempre gli domandava perché mandasse al macello i suoi figli innocenti, in un disegno che solo Lui poteva capire.
Si avvicina di nuovo il Natale.
Giuseppe aspetta la stella cometa.
Le forze l’abbandonano giorno dopo giorno e forse quello sarà il suo ultimo inverno.
Il giardino con false collinette è sempre lo stesso. In primavera nelle aiuole mettono tulipani e giacinti. Da poco i giardinieri del Comune col camion blu hanno tolto i crisantemi.
I cani ultimamente sono molto aumentati e anche i disperati come lui sono molti di più. Arrivano da tanti paesi. Con loro non puoi neppure parlare.
Certo il Presepio oggi sarebbe molto diverso, spazzati via pastorelli e soldati romani. Se Gesù nascesse adesso.
Mancano quattro giorni a Natale.
Giuseppe aspetta la stella cometa e guarda bene ogni luce per non confondersi.
Non sembra dicembre. Un vento caldo percorre la città e un odore nuovo arriva ad arricciolarsi ai giardini. La gente guarda le decorazioni natalizie vibrare e disegnare, scintillando, migliaia di luci. Le foglie secche rotolano, ruzzano senza vergogna tra le pantofole di Giuseppe, che sente i polmoni riempirsi di aria nuova, arrivata lì da chissà quale paese e l’odore è profumo d’incenso.
Intanto all’ingresso del giardino, dietro al monumento al Bersagliere, tra le due fontane con i mascheroni che sputano acqua, si muove una ragazza, una di quelle straniere, bionda, bella, con gli occhi tanto grandi e azzurri che con lo sguardo intorno disegnano un manto.
Lei avanza con passo incerto, due sacchetti in mano. Non sa dove andare.
Il tram su via Cernaia avanza veloce, scivolando senza troppo rumore, legato in alto alla rete dal suo pennacchio di fili, che, a un tratto, con un lampo di luce, si trasforma in una fiammata di scintille, mentre una cascata di lapilli cade sopra i binari sguainati sull’asfalto.
Giuseppe sorride a quell’elettrica stella che gli si è accesa vicina. Questa volta la cometa è arrivata un po’ presto e anche il freddo si è ritirato prima del tempo lasciando una primavera ventosa.
Giuseppe gira la testa bianca verso l’ingresso del parco. Guarda fisso.
Una ragazza bionda ha salito i gradini.
Ora la vede meglio alla luce dell’improvvisata cometa. È alta, senza cappotto, porta un vestito largo, ma le si vede la pancia.
È incerta. Gira intorno al monumento. Non sa dove andare.
Giuseppe le fa un cenno e un sorriso.
Lei gli si siede vicino.
Lui, indicando se stesso, dice scandendo:
“Io Giuseppe e tu?”
Lei sorride tranquilla, gli occhi azzurri ben aperti.
Non risponde, ma a lui non importa.
Sa già che si chiama Maria.

VIVERE
Vivere in un acquario. Dalle finestre entra soltanto luce verde, schiarita dalle tendine.
Poco importa se al fenomeno ci sono spiegazioni banali, perché in fondo è così che vivo, come un pesce. Una trota di allevamento.
Cos’altro mi resta se non boccheggiare in questo vuoto?
Adesso, dopo il cambiamento, non mi accoppio.
Per dignità devo stare a una certa distanza.
Il quartiere del centro in cui abito con mio marito Carlo, ogni sera si riempie di giovanotti che non mi piacciono.
Gli uomini, quelli veri, si trovano altrove, agli angoli delle strade e sugli autobus, dove, con un poco di tatto, li puoi avvicinare, rapaci giovani pusher che attraversano Porta Palazzo con occhi famelici e lunghe gambe. Loro a me non fanno paura. Non sono slavate macchiette, a pochi mesi dal matrimonio pantofolai ingrassati, genere neutro, pesci di nascita.
Ai giardini in fondo alla strada di casa mia, le coppie si baciano, appoggiate al monumento a La Marmora o avvinghiate sulle panchine.
Io non ricordo più com’era il sudore, la tensione, l’umido tra le cosce. Così li studio, i ragazzi della panchina accanto.
Io ormai sono diventata un eunuco.
Alla sera, Carlo, mio marito, l’altro pesce dell’acquario di coppia, legge prima di cominciare a russare.
Boccheggia.
La sua attività più vitale.
Castrata, senza averlo neppure immaginato. La mia voglia di uomini si è spenta di colpo, così. Un interruttore girato. E chi si è visto, si è visto.
Carenza di ormoni, calo del desiderio: Thena Lady per stare sempre all’asciutto, colla da dentiera per ballare con la rosa in bocca.
Trasformata in animale a sangue freddo, sono rimasta in compagnia di un desiderio teorico. Intanto mi affloscio, m’incurvo, mi copro di macchie e verruche. Mi si abbassano i lineamenti, il sorriso, lo sguardo.
Il resto continua impavido, con ghiribizzi infantili, capricci come se avessi ancora tutto ai miei piedi. Piedi di vecchia deformati dai tacchi e dal peso.
Le altre, le mie coetanee, portano i nipoti ai giardini qui accanto. Consolano i poveri, fanno qualche pietosa conversazione coi vecchi, quelli più vecchi, fingendo di comprenderli, mentre contano gli anni che le separano dalla demenza, dalla cecità, dall’osteoporosi galoppante, che intanto ha cominciato a rodere le ossa e, per non sentire, parlano, parlano dei figli, dei loro nuovi bambini, dei mariti tanto cari che si tengono accanto come vecchi cani, ma si portano a spasso con fastidio, perché ormai non fanno neppure più compagnia.

Ho chiesto a Carlo di pagarmi l’abbonamento al pullman, così posso andare dovunque.
A caccia.
Sono vecchia, ma a un bel finale ho diritto.
Carlo, mio marito, è in pensione da un anno. Dirigente Pirelli. Adesso che non è più buono a nulla, l’hanno messo a riposo.
Lui, per quarant’anni, tutti i giorni con l’autobus della ditta, via al mattino, ritorno alla sera.
Io impegnata a tempo pieno, pomeriggi di fuoco abbracciata ai miei amanti e quello che mi piaceva di più, che dava un gusto particolare agli incontri, era che tutta Torino lavorava. Carlo e gli altri facevano i conti, le vendite, gli affari.
Quanti anni fa? Una trentina.
Uno dopo l’altro in fila indiana. In punta di piedi. Sono andati via tutti: anni e amori.
Prima qualche capello bianco: non importa, mi tingo.
Poi qualche ruga: adesso compro una crema di marca.
Poi qualche chilo in più: ma a certi uomini piaccio.
Intanto mi innamoravo e via uno, l’altro.
Dopo i cinquanta sono uscita dal gioco e mi sono trasformata in una trota dignitosa, moderata, non troppo guizzante, una triglia di scoglio che sta per portare a galla la pancia argentata.

La settimana scorsa, al ritorno dalle Molinette, dove mia sorella Anita è ricoverata per un brutto male, su un autobus pieno zeppo, ho cominciato a sentirlo quel ragazzo contro la schiena, calore e odore e il respiro nell’orecchio. Si agitava per il caldo, spinto contro di me dalla folla dell’ora di punta.
Quando sono scesa in via Cernaia, non mi sono girata a guardarlo. Lui non si è accorto di niente, perché io non ero una donna, ero niente.
Ho attraversato di corsa i giardini e sono tornata a casa sbattendomi la porta alle spalle.
Le tende verdi erano sempre lì a dividere il mondo vero dai pesci.
Chiusa in bagno, ho sentito Carlo che dal divano chiedeva:
“Sei tu?”
Nuda davanti allo specchio, mi sono guardata: spalle cadenti e senza muscoli, lo scollo attraversato in verticale da rughe, l’inguine spelato e, poco sopra, il seno.
Ho riso. Non sono più io. Il ragazzo del pullman avrebbe provato ribrezzo.
Eppure un guizzo l’ho sentito per quel calore, per il suo profumo puro. Per scaldarsi, questo vecchio sangue ha bisogno di odori forti.

Stamattina c’è il sole. Al fondo di via Garibaldi le montagne hanno la punta di neve.
Esco per fare la spesa. Carlo non vuole che vada a Porta Palazzo.
“A certa gente non bisogna mischiarsi.”
Mi viene da ridere. Per lui dovrei proseguire con calma e dignità verso la morte.
Il passato è passato e certi pomeriggi magari li ho soltanto sognati e poi Carlo neppure lo sa.
Ma a ricordarmi chi sono, c’è l’altra. Non proprio una nemica, una che mi devo portare dietro, che fa smorfie volgari, che zoppica, che, se ho fretta, trascina i piedi, che, se ho paura, bestemmia.
È lei che non mi lascia, che mi tiene sveglia.
È lei che mi obbliga a tenere la testa fuor d’acqua per respirare.

Un acquario con le ruote.
Il tram è quasi vuoto.
Gli altri lavorano.
Questo è il mio lavoro.
Seduto proprio davanti a me, un ragazzo dai pantaloni attillati ascolta la musica con le cuffiette. Lo guardo tra le cosce. Forse dovrei pagarlo e lo stesso riderebbe di me.
A certe fermate parecchi uomini salgono, davanti, dal centro e di dietro e occupano gli angoli, mentre le donne trascinano pacchi pieni di spesa per sfamare i mariti.
In piedi, con mano leggera, sfioro il culo di un ragazzo dai jeans consumati. Lui si gira pensando a un ladro e intanto si tocca la punta d’acciaio che gli trapassa l’orecchio. Quando mi vede, si sente al sicuro. Sono una signora io. Adesso che viaggio sui pullman, mi vesto elegante, un po’ fuori moda forse. Qualche gioiello non troppo vistoso, cappotto rosso scuro, scarpe basse di vernice nera, perché sono già troppo alta.
Quello che mi piace di più è salire in mezzo alla folla e sentirne il calore.
Sto attenta.
Approfitto di una frenata per sdraiarmi addosso a qualcuno o allungo la mano, mentre mi divincolo per scendere. Nessuno se n’è mai accorto.
A volte, quando un ragazzo mi scalda, quel dolce liquefarsi risorge e non m’importa se lui neppure lo sa. Io chiudo gli occhi e il percorso si tramuta in viaggio, mentre mi lascio andare aderente al suo corpo muscoloso.
Nei pressi del capolinea mi trovo spesso sola: una signora anziana seduta a fissare chi sale, sperando che tutto lo spazio si riempia e che il calore della gente arrivi e mi sciolga, ora che nessuno mi vuole. L’amica nemica da dentro mi spinge a lasciare il posto a una vecchia, per stare in piedi contro un ragazzino che mastica, mastica, parlando col suo compagno di scuola. Dicono forte, come fossero soli, quant’è figa la nuova, che pare si chiami Marina. Uno racconta all’altro cosa le farebbe e mi sembra che parli di me.
Tanta gioventù è infettiva e anch’io mi sento cambiare. Mi trovo migliorata: colorito più luminoso, espressione piena, vitale.
Certo, prima di andare sugli autobus, mi preparo come per un appuntamento di trent’anni fa. Curo ogni particolare. Scelgo persino la biancheria. Mi trucco e mi pettino bene. Lascio a casa i documenti per dare un altro nome, se capitasse qualcosa. Ho scelto uno pseudonimo. Direi di chiamarmi Mirella, che è vero, e di cognome Cagna, che è quello di mia madre da signorina, così non mi confondo.
I primi tempi cambiavo percorso ogni giorno. Così ho scoperto zone di Torino dove non ero mai stata.
Su una cartina ho calcato in rosso gli itinerari migliori, ho segnato su un foglio gli orari più adatti. Il 4 è un buon tram, ma non è mai pieno. Il 18 non è male. Partendo da Barriera di Milano, attraversa il mercato di Porta Palazzo, la stazione di Porta Nuova e San Salvario. È un tram con pochi posti a sedere. Si sta in piedi uno contro l’altro. Il 3 viene dalle Vallette. La gente sta all’erta perché è pieno di drogati che vanno a prendere il metadone all’Amedeo di Savoia. Buoni sono il 46 e il 50, che arrivano alla Falchera, ma il migliore per me è il 51. Intanto è sempre in ritardo e arriva strapieno, poi attraversa tutta la periferia nord verso Settimo. Ormai conosco bene Torino.
Se ci sono posti vuoti, mi siedo per far riposare la gambe. Fuori passano i viali alberati, le case con le facciate liberty, i palazzoni uguali delle periferie. Dall’alto dei ponti guardo i fiumi della città e i tram che li intersecano. Poi alla fine ritorno in centro e scendo dopo i giardini La Marmora. Lì abito io.

La mia vita è passata talmente in fretta che mi confondo. Tengo le gonne di una volta come potessi diminuire di due taglie. Al cambio di stagione faccio mucchi di roba da buttare che poi rimetto a posto.
L’abito, con cui trent’anni fa ero elegante e bellissima a quella cena con Arsenio, mio indimenticabile amante, mantiene, per la donna di allora che sono io adesso, lo stesso fascino amaro.
“Magari si potrebbe ripresentare l’occasione, forse non tutto è perduto!”
Ancora splendenti, dai cassetti spuntano bigiotterie passate di moda, padrone misteriose di ricordi che rendono unici certi bottoni, un orecchino spaiato, una penna, un foulard.
Per questo le case dei vecchi sono zeppe di cose superflue, di cianfrusaglie.
Io però non sono affatto pronta a vivere al passato. Ho ancora voglia.
Non è più il tempo del piacere reciproco. Non ho nulla da dare. Solo da prendere. Non do fastidio. Rubo soltanto un pochino.

Ieri per la prima volta qualcuno si è accorto di quel che facevo.
Ero sul 51. Tornavo a casa dopo l’ora di punta. L’autobus non era pieno, quando mi è venuto vicino il ragazzo, le braccia appese al sostegno come liane, il torso di un baobab, le gambe due palme, tanto alto che in faccia non lo riuscivo a vedere.
Non ho resistito. Mi sono avvicinata, poi a una curva sono andata tutta contro di lui.
Non si è scostato.
Piano piano ho lasciato cadere la sinistra che si è mossa leggera, casuale. Non badavo ad altro.
Sospesa tra i nostri due corpi, il mio assetato e il suo inconsapevole, mi caricavo con la bellezza che avevo accanto, quando ho avvertito un leggero strappo alla borsa. Mi sono girata di scatto e ho visto il bel ragazzo con in mano il mio portafogli. Stavo per gridare, quando lui mi ha sussurrato all’orecchio:
“Vuoi che spieghi a tutti quello che mi stavi facendo?”

Ultimamente ho cominciato a conoscere la gente che viaggia con me.
Dopo le cinque, quando inizia l’ora di punta, incontro spesso un uomo coi capelli rossi che prende l’autobus e scende a fermate sempre diverse. A me sembra di conoscerlo. Forse l’ho visto uscire dal portone delle case popolari di via Stampatori. Io comunque non lo guardo neppure. Per istinto lo evito.
Spesso, se il pullman è pieno, mi accontento di fermarmi un’oretta tra chi sale e scende, così posso tornare presto a casa per affrontare l’alloggio che puzza di aria stagnante. Se anche lavo e rilavo, l’odore non passa.
Carlo mi aspetta impaziente per vivere come ci è concesso.
Io invece sono così stanca…

Negli ultimi mesi prima di andare a caccia sui pullman, alla sera, per addormentarmi ripassavo i miei amanti. Di alcuni non ricordavo più il nome e neppure il sorriso. Finivo per chiudere gli occhi delusa, schiacciata dai pensieri miserabili della vecchiaia.
Tutto questo prima, prima dell’avvento dei viaggi.
Adesso basta poco, perché qualcuno di loro mi raggiunga.
Certa pelle ricorda alla mia un nome. La somiglianza, lampada di Aladino, dà consistenza a quel giovanotto con gli occhiali, Manlio, mi pare. Avevamo trent’anni. La storia è durata sei mesi, poi la sorella è venuta a pregarmi di lasciarlo stare. Ho detto di sì. Non mi mancavano gli uomini.
Manlio ha la stessa età di allora sul 13 che arriva da piazza Vittorio. Io lo guardo mentre scuote indietro i capelli lisci con quella sua mossa particolare. Gli vado vicina, lo annuso, lo ritrovo.
Il giovanotto si gira infastidito dalla vecchia che sono e mi chiede:
“Deve passare?”
Faccio cenno di no, poi vedo i giardini La Marmora e scendo, mentre il falso Manlio continua ignaro verso piazza Statuto.
Mi siedo senza fiato sulla panchina verde che guarda la magnolia. Qui sembra che non sia cambiato mai nulla. Il monumento fa una strana ombra dietro di sé. Gli alberi più vecchi hanno la stessa età dei palazzi che circondano il giardino e col tempo sono cresciuti di tronco e di chioma. Le case hanno acquistato valore e la storia di chi le abitava è nei libri.
Chissà se qualcuno dei miei amanti si ricorda di me, se un lampo si accende che fa dire il mio nome o se invano ho strisciato in quei letti.

Ieri ero sul 67, neppure troppo pieno, quando una ragazza si è messa a strillare. L’uomo dai capelli rossi, quello che abita dalle mie parti, è sceso di corsa.
“Brutto porco. Se ci riprovi, ti ammazzo!” lei gli ha gridato dietro. Tutti hanno fatto qualche commento.
“Glielo dovrebbero tagliare, così almeno starebbe tranquillo,” ha concluso un signore più deciso degli altri.
Mi sono sentita gelare. Potrebbe capitare anche a me. Appena si è liberato un posto mi sono seduta, paralizzata fino al capolinea di Moncalieri.
Io, Mirella Cagna, sono una vecchia che dà fastidio ai ragazzi.
L’altra dentro di me mi ricorda il tepore, minimizza il pericolo:
“Vestita non sei male. Alta, magra, elegante. Una donna di classe. Insospettabile. L’hai visto quello con i riccioli rossi? Ce l’ha scritto in faccia. Non puoi paragonarti a lui. L’avevi subito capito anche tu che tipo era.”
Castrata all’improvviso in pieno piacere.

Carlo è preoccupato e mi spinge a uscire. Sono quindici giorni che non salgo su un pullman.

Sono dovuta uscire per forza. Mia sorella Anita non sta di nuovo bene. Non regge la chemio.
Ho preso il tram al mattino presto, per essere certa di non correre rischi. Salendo mi mancava il fiato, così ho cercato di guardare fuori per distrarmi.
Il tram ha percorso via Cernaia e piazza Solferino, poi ha imboccato via Pietro Micca. In piazza Castello ha fatto la fermata.
È lì che l’ho visto. I capelli rossi erano un richiamo, una fiamma. Ho temuto di vederlo salire e sono balzata in piedi per scendere, ma le porte si sono richiuse e il tram gli è sfilato davanti.
Ho sperato che non fosse lui.
Quando sono stata alla sua altezza, mi ha guardata. È durato un attimo, poi il tram ha imboccato via Po e lui è diventato un punto rosso.
Mi avrà riconosciuta?
Il segreto deve restare segreto per mantenere torbido l’acquario, dove mancano luce e aria, ma non ci sono pericoli.

Ieri sono andata ai giardini per far sporcare il cane di Anita.
Barù ha girato in lungo e in largo, poi si è fermato ringhiando vicino a una panchina, proprio davanti a una donna che teneva al guinzaglio un bastardino nero con la coda a pennacchio.
“Zorro stai qua! Zorro! Non ubbidisce. Ce l’ho da poco. Era della mia povera vicina. È morta, sa. Non ce la siamo sentita di mandarlo al canile…”
Poi l’ho visto. L’ho riconosciuto da come si muoveva, dai capelli rossi nascosti sotto un ridicolo cappello a visiera.
Il cane gli è andato incontro facendo le feste.
“È Salvo, mio marito,” mi ha spiegato la donna.
“Luigina vai a preparare, che ho fame. Lasciami Zorro. Mentre cucini, lo faccio sporcare.”
Siamo rimasti soli. Io e lui. I cani ringhiavano uno contro l’altro. Ho girato le spalle e mi sono allontanata trascinandomi appresso Barù.
L’uomo dai capelli rossi mi è venuto dietro:
“Ti ho riconosciuta. Chi l’avrebbe detto, una come te, che passi con la puzza sotto il naso per queste vie come fossero tue e poi vai sui tram a strusciarti!”
Ho preso affannata la strada di casa, ma lui ha continuato a seguirmi:
“Non credo che a me mi potrai criticare. L’hai vista Luigina. Con i figli è diventata una barca. E tuo marito? Non è più buono a levarti la voglia?”
Sono arrivata al portone e gliel’ho chiuso in faccia.

È una settimana che non esco. Penso sempre al rosso.
Rosso, pericolo. Rosso, pericolo. Rosso, pericolo.
Nei miei sogni però vanno e vengono, spavaldi, i ragazzi dei pullman: ammiccano, chiamano, si aprono i pantaloni per farmi vedere il gioiello. Io rispondo. L’amica cattiva non ha paura di sporcarsi. Anela, desidera, graffia.
Di giorno cerco di guardare fuori dalle finestre, ma le tende verdi hanno chiuso completamente la casa e si intravede, filtrata, soltanto la luce del sole.
La malinconia mi riprende. Vecchia casa, vecchi mobili, vecchia io.
Nella buca delle lettere, impostata a mano, ho trovato una cartolina con un uomo seminudo, in posa statuaria, da culturista. Dietro c’era scritto: “Ti piace?” Nessuna firma. Poi, come se non bastasse, ho trovato la pubblicità del Sexy Shop di via della Consolata, quello che hanno aperto proprio di fronte alle edizioni Paoline. Ho controllato nelle altre cassette della posta. Solo la mia conteneva quel foglio.
Sotto la pubblicità, c’era una vera lettera indirizzata a me, scritta a biro, senza firma. Diceva che, se non avessi accettato, lui avrebbe raccontato tutto a Carlo.
Ci potremo aiutare. Di te nessuno lo penserebbe. Mentre io lavoro, tu fai il palo e viceversa. Controlli che gli altri non vedono niente e poi, se ti capita un problema, ti posso sempre dare una mano di aiuto. Non mi dovrai nemmeno parlare. Non fare storie. Ci troviamo domani sul primo 51 che parte dopo le cinque da Porta Susa.
Non ti meravigliare. Ho chiesto come ti chiamavi di cognome a quello del bar. Io, tanto per dirtelo, mi chiamo Salvatore Cardella.

Ho accettato. Mi sono arresa.
Ormai non vivo più in un acquario. Torno a casa soltanto a dormire. Carlo con la sua badante filippina è veramente felice.
Ho conquistato tutti gli spazi e tutti gli uomini della città. Mi muovo sui pullman come avessi le ali.
Quello che io e Salvo facciamo sui tram non è un reato. Da fuori sono una normale abbonata alla rete tranviaria di Torino, come molte altre signore che fanno la spesa o passano il pomeriggio ad accompagnare i nipoti.
Solo Dio può leggermi nel cuore e vedere le fulminee carezze, la mollezza della mia passione, nata sul tram surriscaldato di questa nuova città tropicale.
Poi non solo più sola.
I capelli rossi di Salvatore erano troppo vistosi. Glieli ho fatti rasare a zero. Abbiamo fissato turni giornalieri. Se tocca a me, lui indossa una divisa che somiglia a quella dei controllori e tutti hanno paura. La divisa è stata una mia idea.
Se sono io a star fuori, recito a soggetto: una volta sono fragile di nervi e, in preda a una crisi, mi sento soffocare, mentre Salvo si sottopone alla calca con gioia. Un’altra volta urlo che il mio portafogli è sparito o che ho perso una spilla d’oro e giuro che, salendo, l’avevo, devo averla persa, sarà in terra, e tutti si guardano i piedi.
Io e Salvatore non ci parliamo.
Adesso sono miei gli uomini più belli. Li riconosco dall’odore, dalla potenza dei muscoli mentre stanno attaccati ai sostegni, dalla consistenza della stoffa dei loro pantaloni, dal suono della voce che a volte mi sorprende. Sono questi gli amanti a cui attribuisco un sogno, una fantasia terra terra e i fidanzati ai giardini La Marmora non li vedo nemmeno.
A volte, per caso, incontro Salvatore col cane. Lui, da sotto il cappello con la visiera, mi strizza l’occhio. Cammina tranquillo accanto alla moglie che si chiama Luigina e di lavoro fa le pulizie a ore nel nostro quartiere.
Ieri ho pensato che quasi quasi l’assumo. La filippina, per stare dietro a Carlo, non ha tempo di pulire.
In fondo, per le donne, avere la casa a posto è un piacere.

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  1. maria grazia casagrande
    Originalità

    Coinvolgimento

    Stile

    Bella storia, originale e coinvolgente!
    Scritta bene!

    4 anni fa

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    Claudia

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