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Gallipoli a novembre

Gallipoli a novembre

Lungomare Marconi
73014 Gallipoli
Luoghi e Paesaggi Racconti
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Gallipoli a Novembre

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É quasi metà novembre, ai bordi di San Martino e della festa del vino novello, momento ideale per vedere Gallipoli. Ogni volta che d’estate l’ho vista maneggiata dalle mani di tutti, prostituta d’alto borgo ho sempre pensato che volevo vederla senza trucco, appena sveglia, con la faccia segnata dalle coperte. Sentivo che certi luoghi vanno visti quando sembrano spenti, che lì dove non c’è la corsa commerciale alle tasche del turista si srotola qualcosa di vero, lì forse Gallipoli vecchia si rimette nel suo corpo, abbandona la maschera e il mantello di lustrini.
L’aria è perfetta oggi: fredda, ma adatta a farsi scaldare dai muscoli che camminano. Ci arrivo da Corso Roma dove tutto scorre come in un giorno di festa, leggero senza intoppi, rimostranze o immagini in rilievo. Faccio colazione in un bar che potrebbe stare ugualmente ad Amsterdam. Mi infilo in un negozio uguale a tanti altri in altri luoghi. Ci arrivo piano, so cosa mi aspetta, ma voglio centellinare i passi dell’incontro. Il mare scorre a tratti accanto al corso principale, poi a un certo punto appare, la strada si fa stretta subito dopo la rotatoria.
Oltrepasso il palazzo orribile, alto, a specchio, sembra fatto apposta per segnare un confine: il passaggio dai gesti inutili, dalle facce anonime, ai gesti necessari, alla vita quotidiana che resiste.
I pescatori. Gallipoli è dei pescatori, sono loro che ogni giorno segnano i rituali delle ore. Sono le nove e mezzo, sono rientrati, se ne stanno sui bordi del mare a ricucire le reti. I gesti sono perfetti, sintetici, uomini scuri che da lontano sembrano le vecchie delle soglie che fanno la maglia. Alcuni sistemano le reti che sembrano cumuli di capelli antichi.
A destra sull’altro bordo del mare si affollano le persone per comprare il pesce, vedo donne che quasi corrono verso le cassette bianche: prima arrivi, prima trovi i pesci migliori. Il via vai continuerà fino alle undici e poi incroci quelli che camminano soddisfatti con le buste piene di pesce, anche oggi il mare ha dato di che vivere. Voglio fare il giro della città vecchia, accarezzargli il lembo attaccato al mare.
Un attacchino incolla un manifesto funerario. Una coppia di signori sta lì davanti ad attenderne il nome. Paolo De Tomasi, capitano di lungo corso.
Più avanti incrocio il signore che vende le nasse di giunco, sta seduto su una panchina vicino alla strada. Mi avvicino, venivano usate una volta per pescare: si lasciavano là per ventiquattr’ore e non più tardi si andavano a tirare su, potevi trovarci polipi, piccole aragoste, dovevi stare attento però a non lasciarle per troppo tempo, altrimenti le avrebbero rotte. É un vecchio pescatore, gli chiedo come fanno ora, mi guarda un po’ perplesso e mi dice che ora sono di plastica. Penso a questo modo dolce di calare questa sorta di campane di giunco nel mare, una forma rispettosa di procurarsi il pesce. Mi racconta che una decina d’anni fa era stato in una scuola di Gallipoli per insegnare ai ragazzi a intrecciare il giunco, ma dice che non erano interessati e dopo qualche giorno il preside gli ha detto che era inutile continuare e gli ha dato centomila lire.
L’odore che fa il mare oggi è quasi da perdizione, cammino, a destra il blu e a sinistra case appoggiate, trattorie ancora chiuse. Una ragazza fa le pulizie vestita tutta attillata con le ciabatte ai piedi, pulisce con un pennello le persiane verdi a piano terra.
Mi appoggio sul bordo a guardare il mare, qua è impossibile non farlo, ne incontro molti: a un certo punto ti devi fermare a vedere che non succede nulla, ad assistere alla meraviglia silenziosa. I gabbiani passano grandi e vicinissimi ne senti il fruscio delle ali, sotto c’è la Puritate, la spiaggia dei gallipolini. C’è una donna robusta e un po’ mascolina, sta sugli scogli e butta cibo per i gabbiani che le volano intorno. Mi volto dopo un po’ e la vedo che si è tolta le scarpe ed è entrata in acqua con i pantaloni sollevati, cammina e ogni tre passi infila le mani nell’acqua e se le porta al viso. Lo fa come fosse una benedizione, un altro gesto necessario: lavarsi la faccia con l’acqua gelida del mare di novembre, la puritate, a cercare la purezza.
Continuo la strada, il sole sta a picco sul mare, in lontananza nella direzione dell’isoletta con il faro una barca di pescatori avvolta da una nube di gabbiani, respiro, mi sembra che alla vita non serva molto altro che questo mare davanti, questo silenzio sottile, che fa risaltare quello che conta: il vento, gli uccelli, le voci umane, le sento con chiarezza, così come gli odori quelli del mare e quelli che escono fuori dalle case. E’ tutto netto, pulito, essenziale.
Vorrei essere un pezzo di quella coppia di ragazzetti avvinghiati sulla panchina, che manca solo fare l’amore perché la vita sfiori la perfezione.
In qualche vicolo appaiono pescatori con grosse bacinelle bianche, che forse puliscono il pesce o le bacinelle, si preparano a una nuova uscita.
Si affitta una casa con i bordi della porta e delle finestre azzurri, prendo il numero, voglio andare in Grecia prima o poi.
Da sinistra mi spunta una signora da un vicolo, è un po’ grande e trasporta grosse buste di plastica, i cappelli ricci e corti, biondi, tinti da tanto. La guardo, “ciao bella”, la intuisco rom, me la vedo già che riesce a convincermi e mi legge la mano, non le resisterei ora. Vedo una tenda viola a bordo strada non mi stupirei se ne uscisse una strega. Decido di entrare nelle vie.
C’è un odore schietto di panni stesi, poi odore di cibo, che non so perché mi ricorda un piatto di carne mangiato molti anni fa nelle montagne intorno a Sarajevo. Ogni tanto sale un odore di brodino e il tanfo tipico che esce dalle case dove vivono persone anziane. Il paese è tutto lì, sembra di camminare dentro casa di qualcuno.
Dopo la carne infatti arriva il caffè, alla tavola del paese lo prepara una signora minuta con i capelli bianchi e i boccoli, dentro la cucina c’è anche suo figlio, la porta è spalancata, la moka di caffè borbotta sul fuoco. La guardo, mi guarda, è come se l’avessi bevuto. Più avanti ritrovo i cartelli del capitano Paolo de Tomasi, intuisco che quella sia la sua casa, il barbiere accanto è di quelli che sembrano fare barba e capelli dacché esistono le pietre in cui la vetrina è incastrata. Oggi è chiuso, c’è un cartello davanti scritto in nero in caratteri tipografici antichi: “Lutto per rispetto”.
Il capitano avrà solcato quel mare di fronte a questa quasi isola tutta la vita, se ne sarà tornato varie volte sull’orlo delle pietre, lo conoscevano tutti, tanto quanto lui conosceva i venti e le correnti.
Anche Gallipoli vecchia mi sembra oggi un capitano di lungo corso, che non ha perso la parola in questa giornata di novembre, conserva un racconto vero, avventure spicciole tra i suoi vicoli.
La meraviglia è quasi troppa, provo ad uscirne, passo accanto al vecchio mercato del pesce, dentro c’è gente che posa bandiere italiane e stemmi del circolo nautico. Leggo che tra pochi giorni ci sarà la settimana della cultura del mare e che il mercato diventerà museo e luogo di eventi culturali. Sbircio dalla vetrata, provo un senso di tristezza. Immagino che un tempo nessuna vetrata avrebbe impedito di sentire il vociare dei pescatori e l’odore acre dei pesci stesi sul ghiaccio tritato. Ora sembra un vuoto imbalsamato. Subito fuori mi affaccio dal ponte. Un uomo sta con un piede appoggiato a una barca sulla riva e pulisce dei grossi pesci. Non sembra un pescatore, ma semplicemente uno che ha comprato il pesce sulla banchina e se lo pulisce ai bordi del mare, gli restituisce frammenti. Museo vivo, che non ha bisogno di ristrutturazioni o vetrata, solo di occhi che sappiano guardare. Saluto senza voce gli uomini scuri in linea sul bordo del mare, mi fermo un attimo, si gira uno e poi anche gli altri, non dico niente, ci guardiamo e poi riprendono il loro ricamo, poesia necessaria, senza fronzoli. Museo quotidiano dei gesti, c’è ogni giorno di ogni settimana. Cultura è stare a guardarli per cinque minuti. Il mare insegna tramite quelle mani callose, l’acqua, il vento. Davanti a questo il resto sembra inutile. Non è facile staccarsi, non riesco a ripercorrere il corso, non trovo più nulla, ritorno ai bordi del mare e mi riprometto di tornare a trovarla ogni tanto Gallipoli vecchia, come si va a trovare la nonna nella speranza di trovarla ancora viva, prima che muoia del tutto.


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