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Che ci facevo quell’anno a Firenze

Che ci facevo quell’anno a Firenze

Via Cesare Cocchi 11
50134 Firenze
Diari e Memorie Racconti
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Che ci facevo quell’anno a Firenze

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Sarà stato alto due metri, proprio grande e grosso, portava una maglietta senza maniche di tipo militare e un paio di calzoncini corti. Avanzava calmo e si tirava dietro con un filo di ferro una scatola di latta con quattro rotelle. Non siamo al manicomio, ma nello stabilimento delle Officine Galileo, un insieme di palazzi dell’Ottocento. In una di quelle stanze lo scienziato Amici studia le proprietà del suo prisma.
In quella scatola di latta, piatta e senza coperchio, il nostro omone porta certi pezzi da un palazzo all’altro. Che pezzi? Un momento e ve lo spiego. Di sicuro sapete cosa è un carro armato. In questi tempi perversi, sul carro armato viene montata una rampa di missili. A cosa serve un missile? Tu vedi un carro armato nemico che avanza con cattive intenzioni, lo punti e gli spari un missile. Ma come lo punti? Col sistema ottico delle Officine Galileo. Una delizia. Adesso sapete che pezzi c’erano in quella scatola di latta.
E poi c’era l’armadio del Fantechi con i suoi segreti. Nessuno sapeva quale fosse il lavoro del Fantechi, da un punto di vista formale, voglio dire. Tutti sapevano che era il custode dei pezzi di scarto, ma nessuno osava parlarne. Alle Officine Galileo il Controllo di Qualità era una cosa seria, per un minimo difetto il pezzo era scartato, quale che fosse la sua importanza. Le regole sono regole. Per vie misteriose il pezzo scartato arrivava nelle mani del Fantechi, che si avviava claudicante a riporlo nel suo armadio, di cui solo lui aveva la chiave. Verrà un giorno che il pezzo di scarto tornerà buono. Non sempre era rapido produrre un pezzo nuovo al posto di quello scartato: per la difficoltà di trovare subito il materiale o per la lavorazione complicata. Ed ecco che entra in scena il Fantechi, apre l’armadio, mentre gli spettatori trattengono il fiato, compie ancora una volta la magia.
Alle Officine Galileo avevano un talento unico nel mettere la persona sbagliata al posto sbagliato. Merlini, il direttore di produzione, meglio di ogni altro rappresentava questa stravaganza. Alto, elegante, uomo di nobile famiglia, il conte Merlini era nato per vendere Rolls Royce o diventare ambasciatore in Costarica. Il destino si era burlato di lui, di sicuro con l’aiuto di potenti raccomandazioni.
Erano tempi di guerre e minacce tra Israele e i suoi vicini. Ufficiali dell’esercito di Israele avevano messo su casa alla Galileo e tempestavano per sollecitare le consegne. L’armadio del Fantechi era ormai quasi sempre vuoto. Merlini era il capro espiatorio, non senza qualche merito. Tentai di salvarlo, la ragione diceva che era un incapace, ma il cuore non poteva che essere dalla parte di un conte fiorentino. Gli davo buoni suggerimenti, lo mettevo in guardia dai nemici, andavo al suo posto in Officina a pungolare i capi reparto. E un giorno mi dice raggiante:
“Sono venuti nel mio ufficio gli Israeliani, si sono congratulati, hanno chiesto come ho fatto.”
Ma ormai il conte Merlini ne aveva combinate troppe e aveva troppi nemici.

Qualche volta la sera andavamo in una trattoria in centro. Era sempre piena d’avventori, vi si mangiava decentemente e a buon prezzo. Più che il menù la vera attrazione era l’oste: un omaccione bonario e rubicondo, se mai ve ne furono. Il suo arrivo era ancor più goduto per la sua allegra cadenza fiorentina. Senza mai mostrare un’ombra di noia, ci accoglieva sempre come fossimo i suoi figlioli appena tornati dall’America.
“Che cosa vi do?” E subito per prima cosa poggiava sul tavolo il fiasco di Chianti.
Una sera lo vedemmo d’improvviso diventar cupo, triste, offeso e minaccioso. Inveiva contro la porta sulla strada. Era accaduto che uno squattrinato, seduto a un tavolinuccio accanto alla porta, dopo aver consumato un pasto miserello, se la fosse svignata senza pagare.


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