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Eros e magia in un Salento mitologico
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Eros e magia in un Salento mitologico

72014 Cisternino (BR)
Luoghi e Paesaggi Racconti
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Eros e magia in un Salento mitologico

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Aveva dodici anni l’estate in cui conobbe per la prima volta il Salento. Non nel senso che a dodici anni ci fosse andata per la prima volta; ricordava vacanze estive in Puglia da quando ero piccolissima, ma quell’estate aveva conosciuto per la prima volta la terra di quei luoghi. Non gli hotel sulla costa, non i trulli di Alberobello. Nemmeno le facciate delle chiese barocche nelle piazze di paesi e città, con la loro sovrabbondanza multiforme e fantasiosa di putti, santi, angeli, madonne e demoni. Conobbe la terra che se lavorata con fatica produce ortaggi che contengono sole e passione; la terra fatta di azzurro, rosso e bianco, di campi riarsi e dissestati; la terra su cui sorgono vecchie masserie affogate in una luce bianchissima, tra le distese di ulivi secolari; la terra calpestata da strane pecore dal lungo pelo liscio e sporco, così diverse dagli animaletti candidi a forma di nuvola che si vedono nei presepi, simili a batuffoli di cotone idrofilo.
Per lei, prima di quell’agosto, la Puglia era solo mare, nonni, sole calcinante, lunghissimi pranzi, mandrie sterminate di cugini e cuginetti. Nonni quasi sconosciuti, incontrati una volta all’anno. Li ricordava ancora perfettamente, ogni estate sereni e festosi ad aspettare lei e i suoi genitori  sull’uscio. Sua nonna, una donnina minuscola con i capelli più soffici che avesse mai sentito raccolti sulla nuca e gli occhi luccicanti di gioia e impazienza, aveva per lei la forma dell’accoglienza. Era nel suo regno che li accoglieva, nella casa enorme che suo padre aveva fatto costruire per lei; ma anche nel suo mondo, così distante da tutto quello in cui Veronica era immersa senza nemmeno accorgersene durante il resto dell’anno.
La prima volta in cui seppe che il Salento stesso l’aveva accolta fu l’agosto che trascorse da sola nella casa incantata di sua nonna. Di suo padre non avevano notizie da anni ormai, il nonno era morto da poco e la mamma era già stata assorbita dalla sua spirale autodistruttiva, che Veronica identificava di volta in volta con la nuova città in cui si trasferivano. Come se dal passato si potesse fuggire, come se loro non ne avessero fatto parte e non fossero condannate a rappresentarne i resti per sempre. Erano dei relitti lei e sua madre in quegli anni, e né l’una né l’altra avevano ancora accettato di esserlo. Non sapevano ancora quanta eroica dignità ci fosse nell’essere i relitti di un passato, e quanta faticosa dedizione richiedesse quel ruolo. Veronica l’aveva capito in seguito. Allora si sentiva persa, inutile, senza un ruolo, appunto. La mamma non voleva riconoscere a se stessa quanto le pesasse la scomparsa di suo padre e continuava a spostarsi da un luogo all’altro. Sembrava che temesse più di ogni altra cosa l’idea di mettere radici. Stava lasciando che una corrente imprevedibile la trascinasse via dalla riva per trasportarla chissà dove, sbatacchiandola qua e là tra gorghi e mulinelli. Non solo non opponeva resistenza, ma sembrava assecondare il movimento di quelle acque, forse senza nemmeno rendersi conto che insieme al suo albero stava lasciando che venisse sradicato anche quello di Veronica. O forse semplicemente non le importava. Ma Veronica non aveva nessuna voglia di abbandonarsi al capriccio di quel fiume. Sentiva che quelle acque non le erano amiche, che non vi avrebbe trovato la pace. Nessuna disperazione sarebbe stata tanto forte da spingerla ad esserne inghiottita. Era sulla terra che voleva stare. Aveva bisogno di una terra che fosse anche sua. E in quell’agosto del 1995 la Terra la prese con sé.
Da quando suo padre se n’era andato, la mamma non se l’era sentita di mantenere vivi i rapporti con la sua famiglia, e da tempo non si spingeva oltre una brevissima telefonata per il compleanno della nonna e una cartolina di auguri per Natale. Veronica però aveva continuato a trascorrere con i nonni buona parte dell’estate, di ogni estate. Era quasi una tradizione che ogni anno venisse salutata dalla mamma in una stazione e la mattina seguente fosse svegliata dal capotreno e, sollevando la tendina, vedesse un cielo di un azzurro che non aveva niente a che fare con quello di Milano, Bologna, Genova, Roma o Torino, al punto che si chiedeva come potesse essere lo stesso, e se ogni città non ne avesse uno proprio, personale, più o meno bello. E sotto quel cielo una strana terra, anche lei così diversa da tutte le altre, una terra secca, arida, senza nemmeno un ciuffo d’erba a mitigare l’asperità della superficie tutta rappresa in zolle. Ma soprattutto rossastra. Non aveva mai visto una terra rossa in nessun’altra parte del mondo, e ogni volta la inquietava un po’, si immaginava che fosse frammista a sangue, e non capiva se quella terra fosse più o meno viva rispetto a tutte le altre. Tutto quel sangue era costitutivamente suo, vi scorreva all’interno, o era stato versato da qualcuno? E se qualcuno l’aveva versato, si era trattato di un’offerta sacrificale, un omaggio, o un semplice atto di violenza? E ammesso che si trattasse di un’offerta, era stata spontanea o imposta da qualcuno, dalla terra stessa? Era, in definitiva, segno di fecondità o di morte? Questo non l’avrebbe saputo se non interrogando la terra stessa. Ma durante quei primi viaggi solitari sapeva parlare solo, e non senza difficoltà, con uomini e animali. Alla stazione trovava sempre qualcuno dei suoi zii ad aspettarla e nel salutarli non poteva fare a meno di confrontare questi arrivi con quelli dell’infanzia: i nonni in trepidazione davanti alla porta poco dopo il tramonto e lei che saltava giù dalla macchina per trotterellargli incontro, ansiosa di battere sul tempo mamma e papà e ricevere per prima i bacini di benvenuto. Quanta poesia in quegli arrivi, quanta grazia.
Negli ultimi tempi, invece, soltanto una stazione e degli zii. Non parlava mai durante il tragitto dalla stazione alla casa dei nonni. Dal sedile posteriore guardava gli ulivi. Sembrava che per chilometri e chilometri non ci fosse altro che ulivi, qualche muretto a secco a delimitare l’estensione di un uliveto di tanto in tanto, e poi ancora ulivi, contorti e pallidi. Di un verde che le aveva sempre messo tristezza. Vedendo quelle foglie che se stropicciate tra le dita scricchiolavano come se fossero già secche fin dalla nascita, da bambina veniva assalita da un senso di lontana malinconia, un sentimento antico e dall’origine incerta, come se potesse percepire tutta la sofferenza racchiusa in quegli alberi. Che fosse loro il sangue che macchia la terra di Puglia? Che fossero tanto tristi e stinti per un qualche patto segreto che li obbligava a cedere parte della propria linfa alla terra insaziabile che gli offriva alloggio? Ma non era quella stessa terra ad averli generati? E allora perché pretendeva un tributo tanto alto da quelle sue creature, da quelle foglioline esangui, da quei tronchi straziati e nodosi che sembravano essersi cristallizzati nell’atto di contorcersi e dimenarsi tra gli spasimi, in un disperato tentativo di fuga e ribellione destinato al fallimento? Veronica aveva sempre pensato a queste cose vedendo quegli ulivi, piantati in una terra sanguinosa sotto un cielo tanto azzurro da sembrare irreale, e sferzati (non accarezzati, come capita di leggere in testi evidentemente riferiti ad altre terre) da un sole di una forza crudele. Perché nel Salento anche il sole è feroce, aggressivo, per niente timido. Ogni cosa ti prende, ti strappa a te stesso. Perché tutto ha qualcosa da dire e vuole essere ascoltato. Lei l’aveva fatto una domenica pomeriggio. Che fosse domenica se lo ricordava perché la nonna quella mattina si era fatta accompagnare a messa da zia Fernanda e a pranzo c’era tutto il parentado.
Nel primo pomeriggio, decisa a rimandare il più possibile un’altra delle interminabili pennichelle che in Puglia ci si concede nelle ore più calde, quando il sole è davvero troppo violento perché si possa uscire di casa, si era unita a zia Fernanda e zio Lino, che in quel periodo alloggiavano all’hotel Smeraldo di Cisternino. Da bambina aveva sempre odiato l’immobilità di quei pomeriggi assolati, frustati da una luce talmente abbacinante da far vibrare i contorni delle cose. Ogni giorno, dopo pranzo, aspettava che tutti si fossero ritirati al fresco delle proprie camere per scappare a giocare sul tetto a terrazza con qualche cuginetto. Il viaggio con gli zii fino a Cisternino era stato un diversivo, un pretesto per rimandare a più tardi il riposino pomeridiano, ma anche lì, in quella camera d’albergo, le ore del primo pomeriggio riuscivano a rubare al tempo degli uomini degli attimi di vita, per sospenderli e dilatarli all’infinito. Non aveva nessuno da invitare a giocare, a parlare o a fare un giro con lei, per aiutarla a sopportare quello strazio. Non erano ancora le quattro e sicuramente i suoi zii non sarebbero scesi nella hall prima delle cinque e mezza.
Una sequenza di scene nitidissime le scorreva nella mente mentre sedeva su un sedile troppo rigido. Di più: le vedeva. Vedeva una Veronica dodicenne in cui stentava a identificarsi sgattaiolare di soppiatto fuori dalla camera e infilarsi in ascensore. La vide attraversare silenziosa la reception e puntare verso la piscina ancora deserta.
La Veronica dodicenne si ferma, osserva per qualche secondo quello specchio d’acqua di un azzurro irreale, dovuto probabilmente alla pavimentazione del fondale, poi, conservando la stessa espressione assorta, ruota su se stessa e torna indietro. Ripercorre il vialetto, supera l’ingresso dell’hotel, scende una breve scalinata, sette, otto passi, e si ritrova per strada. Continua a camminare come se sapesse dove si sta dirigendo. Passo regolare, sguardo fermo, tratti del volto immobili. È chiaro che non sta facendo una passeggiata. Veronica quel giorno sta andando a un appuntamento. Cammina spedita senza vedere né pietre, né terra, né cielo. Senza sentire né caldo, né paura, né cicale. È impaziente ma non va di fretta. Non cede all’ansia di arrivare prima che sia il momento.
Ora Veronica sta in mezzo agli ulivi. Sa di essere arrivata. Le cicale sono di nuovo lì, e ci sono anche terra, pietre e cielo in abbondanza. E il sole la sta toccando, la sta proprio avvolgendo in un abbraccio; come potrebbe altrimenti arderle addosso in quel modo? Veronica lo sente tutto spalmato sul suo corpo, un’entità fisica calda e prepotente. E non solo non ne prova fastidio e non sente l’impulso di correre a ripararsi sotto un ombrellone, ma ne percepisce tutta la potenza. Ora lo sa: il sole è vivo. Veronica vuole che quella forza le venga trasmessa, ne vuole assorbire il più possibile, e forse è per questo che si spoglia. Nessuna barriera tra lei e il sole. I suoi piedi, liberati dai sandali, scoprono che la terra l’ha preceduta e ha già accolto in sé tutto il calore che il sole ha emanato lungo il corso del mondo. C’è una relazione, un connubio tra i due elementi, più tangibile qui che altrove. Veronica è stata compresa nel prodigio, ne è parte. Oggi il rito si compie con lei nel mezzo. Ogni volta che quel flusso, pieno di qualcosa che è molto più che luce e calore, vuole raggiungere la terra, deve per un attimo attraversare anche lei. E per ciascuno di quegli attimi Veronica si sente divina. Testimone e tramite occasionale del più sacro dei rituali, il più segreto anche se si svolge da sempre sotto gli occhi di tutti. L’eterno rapporto che è simbolo, significato e sorgente di ogni altra cosa. Talmente onnicomprensivo da essere invisibile.
Veronica si inginocchia e fa aderire i palmi delle mani al terreno. Tutta l’energia del mondo sta lì, irradiata dal sole, trasmessa con violenza alla terra, per esserne accolta e rigenerata. Da forza virile e aggressiva a vibrazione benefica, amorevole, generatrice, che dalla terra si diffonde al tutto; a lei che la stringe tra le mani in forma di secche zolle rossastre; agli ulivi che di quella stessa energia si nutrono. Di colpo sente di amare quegli ulivi. Vuole essere parte del loro dolore. Si alza e passa la mano sulla corteccia ruvida di quello che le sta più vicino, lo tocca appena, ma è come se quell’unico gesto fosse rivolto a tutto l’uliveto. Si accorge che lo sta accarezzando, e gli sorride con tutto il viso. Sente che la fronte, gli zigomi, le labbra e il mento le tremano. Appoggia la guancia a uno dei rami e mentre continua ad accarezzargli il tronco gli chiede scusa, perdono per averli ignorati fino a quel momento, e sui piedi nudi le cadono lacrime che sono sue ma è come se sgorgassero dal tronco. L’origine non fa differenza in quell’attimo, in cui ogni cosa è anche tutte le altre. Ma è di gratitudine che sta piangendo? Di sollievo perché sente che l’uliveto non ce l’ha con lei, che non ha bisogno di perdonarle niente perché lei è l’uliveto e l’uliveto è lei? Perché si trovano entrambi nel punto d’incontro tra cielo e terra? Perché condividono lo stesso dolore, che non sa più se è il suo, quello dell’uliveto o quello del mondo, e che forse è anche piacere o deriva dal piacere o culminerà nel piacere? Perché quell’uliveto le sta insegnando che la vita non è altro che piacere e dolore, nascita e morte? Veronica non lo sa. Forse in quell’attimo lo sapeva, ma ora non più.
Sentirebbe la stessa commozione se invece di trovarsi in mezzo agli ulivi stesse tra i meli del Trentino? Sicuramente no. Una cosa sono gli ulivi, i fichi, le viti, gli arbusti della macchia mediterranea. Altra cosa i meli. Veronica conosce bene le distese di meli esili e ordinati, che con i loro tronchi lisci e dritti rivestono colline e avvallamenti in Friuli Venezia Giulia, in Trentino, in alcune zone dell’Austria e della Svizzera… Paesaggi dolci, rassicuranti, tinti di un verde allegro e di un azzurro molto meno estremo di quello che la sovrasta oggi. “Lì si respira tranquillità; qui no. Qui si sente la vita. Che non è fatta di pace. La vita è tumulto, tensione lacerante. La vita scuote, impone, pretende, esalta, abbatte, dà, toglie. Piacere e dolore. Da qui, tutto il resto. Lo sa grazie a questo sole, a questa terra e a questi ulivi. Questa è una natura che non si accontenta di essere contemplata, vuole essere partecipata. È una visione che ti possiede. Le astrazioni qui prendono forma e non le puoi più ignorare. Ti si mischiano all’anima e al corpo fino a trasformarti per sempre”, pensa la Veronica dodicenne in mezzo agli ulivi.
Si stende ai piedi del suo ulivo. Sotto di lei la terra, sopra il sole. Entrambi la stanno toccando, li sente distintamente. Il tocco del sole sulle labbra, sugli omeri, sul seno, sulle anche, sulle ginocchia. Si rilassa fino a credere di essere sul punto di addormentarsi e adesso sì, ha un po’ paura. Teme di sciogliersi durante il sonno e disperdersi in quella terra rossa capace di assorbire e rigenerare ogni cosa. Invece non si scioglie, resta lì immobile, attraversata da forze che fanno parte di lei da sempre ma che prima non sapeva riconoscere, le stesse che ora fanno finta di penetrarla dall’esterno sotto forma di qualcosa che è altro da lei. Ma Veronica non capisce se è lei stessa a generarle per poi diffonderle a quella terra pietrosa, per renderla un po’ più tenera e feconda, o se è piuttosto la terra a produrle e trasmettergliele per far sì che si senta fino in fondo una sua creatura. – Non sa la terra che Veronica è troppo finita per poterle contenere senza urlare? – O è dall’unione di due principi che queste forze provengono? Dalla fusione dei flussi emanati da sole e terra? – Che c’entra lei allora? Perché le comprendo in sé? E perché non ne viene dilaniata? – Chi di loro sta cedendo qualcosa all’altro? Non è più in grado di distinguere chi attinge e chi cede, né in che sequenza si svolgano l’uno e l’altro atto, ma che importa? Quello che sta succedendo le piace. La confonde, le fa male, ma nello stesso tempo la esalta, la fa urlare, ridere, piangere, sospirare, gemere.
Il sole, forse ringalluzzito dall’avere ottenuto la sua comprensione, dall’essere finalmente stato riconosciuto, torna a essere l’antico dio che a dispetto di tutti è sempre stato e resta in ogni momento. Diventa fiamma ardente, le si fa vicino vicino. Ormai non la sta più solo toccando, le sta attraversando il corpo, che è cosa sua, come tutto il resto. Veronica sente tutto il calore che le avvolgeva il corpo confluire verso la fascia pelvica, tanto concentrato da provocarle un dolore intenso, bruciante, che assomiglia troppo al piacere per poter essere rifiutato. Non si sa come, è entrata a far parte di un ciclo sacro. Mentre una massa incandescente la schiaccia al suolo, eccitata e riconoscente lascia cadere la testa da un lato fino a sentire la terra contro la guancia, contro le labbra. E la bacia convulsamente, più e più volte, piangendo, mormorando ringraziamenti… e piega le dita lasciando penetrare le unghie nel terreno per stringerne un po’ tra le mani, e fa pressione con le spalle e con le natiche per infossarsi il più possibile. La vuole sentire dappertutto, mentre si offre al sole. Sente un rivoletto tiepido sgorgare dalla sua vagina, e alla dolcezza infinita che la fa stare immobile si somma la gioia di sapere che ora una parte del sangue che vive in questa terra è anche suo.
Dei nomi le attraversano la mente. Ishtar, Astarte, Afrodite, Ecate, Demetra, Artemide, Iside, Era, Cibale, Gea, Mater Matuta, Magna Mater, Pachamama, Shakti, Kali, Ala, Zemyna… Non si chiede nemmeno a chi appartengano. Sono i nomi stessi a rivelarglielo, a manifestarsi per quello che sono: una sfilata di antiche dee, che sono una, che è questa terra, che è Veronica. Molteplicità unificata, che è la Grande Madre, dispensatrice di amore e vita, generosa e benefica, ma è anche il Grande Ragno, sempre in agguato al centro della sua tela cosmica, seducente e distruttivo, responsabile delle vibrazioni dell’universo.
E i molti nomi le stanno dicendo che ogni loro potere è anche il suo.

]Come reagiresti se un giorno uno sconosciuto gentile e affabile ti avvicinasse, ti raccontasse strane cose e ti dicesse che sei il clone di un extraterrestre? Cosa faresti se ti annunciasse che ti verrà impiantata la memoria di un individuo che vuole continuare a vivere attraverso il tuo corpo? Cosa faresti se ti spiegasse che questa è la prassi che a nostra insaputa una élite di potenti utilizza da millenni? Cosa faresti se, una volta superato lo shock iniziale, cercando di capire, di approfondire, di studiare… trovassi non poche prove e conferme indirette di quanto quella persona ti ha raccontato? Probabilmente scriveresti un libro come questo.

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