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Storie di periferia

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00174 Cinecittà, Roma
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Storie di periferia

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Questa storia si svolge ai tempi in cui non avevano ancora inventato la playstation, si telefonava col gettone (ad averlo) e nessuno aveva un soldo in tasca. Però ci si divertiva. Con le dita incrociate affermo che ogni riferimento a fatti accaduti e a persone realmente esistite è puramente casuale, anche perché, non si sa mai, parte dei fatti accaduti potrebbe non essere ancora prescritta.
 
Bruno, detto il Gorilla, lavorava con suo padre a Cinecittà. Erano gli artigiani del cinema, si occupavano di effetti speciali: incendi, esplosioni, procuravano galline e cavalli da inquadrare nei villaggi del vecchio west e affittavano armi per i western e i film di guerra. Mai soprannome fu più appropriato: era basso, con gambe corte, un torace enorme, braccia lunghe e una forza spaventosa. Un vero quadrumane. Un giorno venne al bar e ci disse: regà, perché nun famo un club? Lui lo pronunciava “gleb”, ma capimmo lo stesso. Si dava il caso che suo padre avesse lasciato uno scantinato che gli era servito come magazzino e la proposta era questa: facciamo il club, la domenica si balla, facciamo pagare il biglietto e con quei soldi paghiamo l’affitto. L’idea fu accolta con entusiasmo e andammo a ispezionare il locale, c’erano due problemi da risolvere: l’elettricità e l’arredamento.
Del primo offrì di occuparsi il Topo, di cui non ricordo il nome ma le cui sembianze giustificavano ampiamente il soprannome da roditore, che, dichiarandosi provetto elettricista e dopo aver accuratamente studiato la situazione, sentenziò che potevamo allacciarci alla linea elettrica della lavanderia soprastante. Fece un primo tentativo rischiando di morire folgorato, e i presenti spergiurarono di averne visto lo scheletro: a regà, er Topo s’è fatto le lastre!
Benché ferito nell’orgoglio non si arrese e, al secondo tentativo, luce fu. Rimaneva il problema dell’arredamento.
Alle pareti attaccammo fondine, colt, archi indiani, cinturoni con tutti i proiettili, speroni, tutto rigorosamente posticcio e generosamente offerto, anche se a sua insaputa, dal padre del Gorilla. All’ingresso piazzammo le porte del saloon provenienti non si sa come, anche se posso immaginarlo, dal set di uno spaghetti-western, e a quel punto mancava solo il mobilio. Girammo per le case spacciandoci per membri di un’associazione studentesca e chiedendo vecchi mobili, roba che la gente aveva in casa e non serviva più, e in breve tempo ci procurammo divani letto sfondati, un frigorifero arrugginito, librerie sghembe, soprammobili sbeccati, cianfrusaglie di ogni genere. Tutta roba che avrebbero buttato giù dai balconi alla mezzanotte dell’ultimo dell’anno, perché allora si usava così. E non avevamo alcun mezzo per trasportare quel ben di Dio. Ma nella vita di periferia non ci si arrende, e adocchiammo un carretto a due stanghe parcheggiato all’interno del mercatino del rione. Il mezzo fu giudicato idoneo. In realtà una delle due ruote era bloccata con una robusta catena, ma anche con una ruota che girava e l’altra che strusciava il trasporto ebbe luogo. Naturalmente nessuno si offrì di sacrificarsi per riportare il carretto al suo posto e le due grandi ruote entrarono a far parte dell’arredamento. Era fatta: avevamo il nostro club e la domenica il ballo era assicurato, le ragazze, ovviamente, non pagavano il biglietto.
Ma c’erano anche gli altri pomeriggi da trascorrere, per fortuna le idee non mancavano.
Fu così che inventammo i trans.
Giulio, parte delle cui gesta sono già narrate in un altro racconto, e Walter, detto chissà perché il Gaucho, avevano lunghi capelli, erano praticamente imberbi e potevano, nella scarsa luce stradale delle serate invernali, essere scambiati per quello che non erano. Dagli armadi delle nostre famiglie sparirono un paio di borsette, scarpe coi tacchi, corti pellicciotti e una sera ci presentammo sul marciapiede che correva lungo il muro di Cinecittà, con due nuovi arrivi che andavano a ingrossare le fila delle signore già presenti. Sulle prime ci osservarono incuriosite, poi si affollarono intorno alle due nuove arrivate e, immediatamente, si resero complici dello scherzo. Ahò, però nun ce rovinate la piazza, eh? Nun è che abbassate i prezzi?
Giulio, a dire il vero, aveva gambe storte e pelose, ma il Gaucho non era male, e non poche macchine si fermavano davanti al suo pezzo di marciapiede. Noi assistevamo dall’alto, arrampicati sul traliccio che sosteneva un cartellone pubblicitario e che ci nascondeva alla vista dei passanti, solo le nostre teste sporgevano dal cartellone per assistere alla scena e scendere, svelti come gatti, in soccorso dei nostri amici in caso di incidenti. Quando gli avventori si fermavano davanti a loro, e scoprivano l’inganno, le professioniste vere si avvicinavano prima che ripartissero: bello, viè da me, lasciali perde questi che nun cianno quello che te serve. In pratica stavamo incrementando il business, così ci adottarono. La più simpatica era Italia, ben in carne e avanti cogli anni, ma che aveva un suo seguito di estimatori: Giulié, ma come te sei combinato, viè qua da Italia fijetto bello che te metto un po’ de rossetto, e poi la borsetta nun la devi portà così, mamma mia come sculetti male…
Il gioco durò finché una cinquecento della Buoncostume non si fermò per fotografarli, ma senza riuscirci perché il Gaucho tirò un cazzotto al fotografo, Giulio prese a borsettate il tetto della macchina e Italia e le altre accorsero furibonde costringendo la Legge a una precipitosa quanto poco dignitosa fuga.
Per Gabo le puttane sono tristi, per Amado così così, e anche le nostre lo erano, solo noi riuscimmo a donar loro un po’ di allegria.
Forse è un bene che abbiano inventato la playstation.

 

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